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La critica radicale delle ideologie del "progresso" e dello "sviluppo". Intervista a Serge Latouche

di Antonio Caronia - 26/06/2007

Fonte: socialpress



Negli ultimi venticinque anni Serge Latouche ha contribuito, come e piu' di
altri intellettuali, alla chiarificazione e alla maturazione dei concetti
intorno a cui si sono costruiti i movimenti new global. Nato a Vannes, in
Bretagna, nel 1940, e' economista di formazione e antropologo per
esperienza. Negli anni Settanta ha trascorso molto tempo in Africa
occidentale, e qui ha maturato una svolta del suo pensiero, che dalle
posizioni marxiste tradizionali lo ha portato a una critica radicale delle
ideologie del "progresso" e dello "sviluppo", anche nella loro versione di
sinistra. Questa maturazione lo ha portato, nel 1981, a fondare con Alain
Caille' il Mauss (Movimento AntiUtilitarista nelle Scienze Sociali), e
l'omonima rivista di cui Bollati Boringhieri pubblica, dall'anno scorso,
l'edizione italiana.
Appoggiandosi anche al pensiero di Marcel Mauss e di Ivan Illich, Latouche
conduce da anni una polemica contro il pensiero utilitarista e
universalista, per liberare la societa' occidentale dalla dimensione
economicista che la imprigiona e dall'ipertrofia della tecnoscienza,
insomma, come egli dice, per "decolonizzare l'immaginario". Latouche
propugna un ritorno a quella dimensione di reciprocita', convivialita',
solidarieta' (e di attenzione agli aspetti ecologici) che sola puo'
consentire di sfuggire alla catastrofe verso cui ci porta lo "sviluppo", e
per questo e' diventato uno degli intellettuali piu' popolari nei movimenti
new global.
In Italia, Bollati Boringhieri ha pubblicato molte delle sue opere piu'
importanti. Oltre a Giustizia senza limiti. La sfida dell'etica in
un'economia mondializzata, da poco ristampata (pp. 282, euro 22),
segnaliamo: L'occidentalizzazione del mondo, Il pianeta dei naufraghi.
Saggio sul doposviluppo, La Megamacchina, La sfida di Minerva. Razionalita'
occidentale e ragione mediterranea, L'altra Africa. Tra dono e mercato, Il
ritorno dell'etnocentrismo (a cura di). Presso altri editori sono usciti: La
fine del sogno occidentale. Saggio sull'americanizzazione del mondo
(Eleuthera), L'invenzione dell'economia (Arianna Editrice), Miseria della
mondializzazione (Strategia della lumaca), Decolonizzare l'immaginario
(Editrice Missionaria Italiana).
A settembre Latouche, che e' spesso in Italia, ha parlato al festival della
letteratura di Mantova. Qui "Socialpress" lo ha intervistato.
*
- Antonio Caronia: Nelle prime pagine di Giustizia senza limiti, leggo: "Le
associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da
contrappeso [alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali] sono in
larga misura strumentalizzate dai giganti dell'economia e della finanza. Una
societa' civile mondiale non esiste". Puo' chiarire a chi sono rivolti
questi rilievi critici?
- Serge Latouche: Quando scrissi quel passaggio pensavo alle Ong. Pensavo,
piu' precisamente, a quello che e' successo a Rio e a Johannesburg. A Rio
[Conferenza dell'Onu sull'ambiente e lo sviluppo, 1992 - ndr] abbiamo visto
le grandi imprese internazionali creare delle proprie Ong, per poter
partecipare a questo movimento, per poter mettere lo zampino anche nella
corrente delle Ong, e portare avanti le loro tesi anche in quest'ambito.
D'altra parte, molte Ong dipendono fondamentalmente dai finanziamenti
pubblici e privati, per cui la loro pretesa di rappresentare la societa'
civile mondiale va presa con molta cautela. Beninteso, ci sono delle Ong che
fanno delle cose egregie, ma molte altre Ong sono fasulle, sono di fatto
delle organizzazioni governative o dipendenti dalle aziende, quindi di fatto
sono schierate da quella parte.
Perche' non bisogna mai sottovalutare la capacita' di reazione
dell'avversario. E' una cosa che le aziende hanno capito benissimo: hanno
capito che i movimenti ecologisti, i movimenti di contestazione della
globalizzazione etc., potrebbero rappresentare una minaccia per il
funzionamento del sistema sul quale esse aziende si basano, e quindi bisogna
recuperare, lavorare dall'interno, fare in modo che anche in quei movimenti
ci sia una voce sostanzialmente favorevole agli interessi delle aziende. Le
Ong possono essere un cavallo di Troia per recuperare dei legami con questi
movimenti.
E' un discorso estremamente complesso. A Johannesburg [Vertice mondiale
sullo sviluppo sostenibile, 2002 - ndr] il World Business Council, che e'
l'organizzazione delle imprese per la conservazione dell'ambiente (ma che
raggruppa tutti i piu' grandi inquinatori del pianeta, come Esso, Nestle',
Total, etc.) ha contattato Greenpeace, dicendo loro: "Guardate, una cosa e'
sicura, non saranno certo gli stati a salvare il pianeta". Questo discorso
e' interessante. Dice: gli stati non sono capaci di decidere nulla. Dunque
se c'e' qualcuno che puo' fare qualcosa siamo noi, o nessun altro. E percio'
dovete lavorare con noi, bisogna lavorare insieme. Ora io non nego che ci
possano essere dei responsabili di impresa che siano coscienti dei pericoli
per l'ambiente rappresentati da un'attivita' industriale sregolata, e che
quindi con loro si possano fare dei compromessi. Ma non credo che questi
compromessi possano portare molto lontano, non credo che possano riguardare
piu' che degli obiettivi limitati: cio' di cui c'e' bisogno qui sono delle
regolamentazioni, dei vincoli forti all'attivita' industriale, e una vera
regolamentazione non puo' andare nell'interesse delle aziende
transnazionali, oggi.
*
- Antonio Caronia: Criticando l'utilitarismo, lei cita spesso la famosa
formula del filosofo scozzese del Settecento Francis Hutcheson: "La maggiore
felicita' per il maggior numero di persone possibile", a cui gli
utilitaristi come Bentham e Stuart Mill appunto si ispirarono. Vuole tornare
sull'argomento, e dirci cosa c'e' di sbagliato in questa formula?
- Serge Latouche: E' una formula un po' assurda. Molto semplicemente, dal
punto di vista logico, dire "la felicita' maggiore per il numero maggiore"
significa massimizzare due cose nello stesso tempo. O si ha la maggior
felicita' per un numero ristretto di persone, o c'e' una certa felicita' per
la maggioranza - ma non si possono avere entrambe le cose. Se abbiamo due
cose che crescono contemporaneamente, possiamo dare la stessa felicita' a un
numero sempre piu' grande di persone, e cosi' avremo massimizzato il numero
di coloro che godono di questa "felicita'", oppure possiamo dare la piu'
grande felicita', ma soltanto a qualcuno. In ogni modo, con il sistema
attuale, in cui si realizzano profitti giganteschi, si puo' dare "la
maggiore felicita'" a un numero maggiore di persone solo perche' si sono
massimizzati degli elementi (insomma perche' e' cresciuta la ricchezza). Nel
sistema dello Stato sociale, nessuno aveva profitti cosi' giganteschi, ma
tutti avevano un aumento misurato del proprio benessere. Insomma, e' un
sistema contraddittorio e assurdo.
E poi la formula e' criticabile anche perche' e' un effetto della hybris,
l'orgoglio smisurato che gli antichi greci criticavano appunto perche'
rappresenta l'eccessivo, cio' che non ha misura ne' limite. Ma che cosa
significa poi "la maggiore felicita'"? Io non ho bisogno della maggiore
felicita', ho bisogno della felicita' e basta. Essere felici e' gia'
sufficiente. Al limite, se anche volessimo parlare di dimensione, si
potrebbe dire che non e' male neanche una "piccola felicita'". Ma in realta'
quantificare la felicita' e' stupido. E' evidente che questo atteggiamento
apre la porta all'economicizzazione del mondo e all'economicizzazione dello
spirito. Per poterla quantificare, la felicita' deve essere ridotta al
prodotto nazionale lordo, e questo e' assurdo, stupido e pericoloso, anche
perche' gli effetti sono sotto gli occhi ti tutti.
Io credo che quando Beccaria utilizzo' anche lui questa formula non fosse
del tutto cosciente dei suoi effetti, dell'ipertrofia dell'economia che si
andava preparando e che si sta realizzando pienamente oggi. Adesso nel
dibattito, evidentemente, c'e' una consapevolezza maggiore, ma le radici di
questo atteggiamento risalgono ai tempi di Francesco Bacone. La
colonizzazione dell'immaginario e' un processo che ha ormai una certa
storia, in fondo segna gia' l'inizio della modernita'.
*
- Antonio Caronia: Lei critica la prospettiva universalista, cioe' la
pretesa della civilta' occidentale di imporre a tutto il mondo una serie di
valori considerati validi per tutto il genere umano. Ma criticando
l'universalismo, non c'e' il rischio di cadere in un eccessivo relativismo?
La difesa a oltranza delle culture particolari (come abbiamo gia' visto) non
crea lacerazioni e conflitti in nome di una visione ristretta
dell'identita'?
- Serge Latouche: Sono contro l'universalismo perche' e' una creazione
dell'occidente, perche' e' un'ideologia occidentale, e una forma di
imperialismo culturale: in fondo, e' l'identita' della "tribu' occidentale"
(per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo
valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza
delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei
piuttosto un "universalismo plurale", che consiste nel riconoscimento e
nella coesistenza di una diversita', e nel dialogo fra queste diversita'.
Dietro a tutto cio' sta una questione filosofica molto importante, perche'
l'universalismo si e' fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa
che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano
migliori dei valori di altre culture, perche' li si considera insiti nella
natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre
culture cio' che accomuna tutti gli esseri umani.
Naturalmente le cose non stanno affatto cosi': non ci sono e non ci sono mai
stati "valori naturali", i valori sono tutti culturali, quindi semmai c'e'
una diversita', che bisogna sostenere con il dialogo. Pensiamo alla cultura
indiana. Per un indiano la vita di una mucca e' fondamentale. Non si puo'
uccidere una mucca. Noi invece, tanto per fare un esempio, a causa della
mucca pazza abbiamo massacrato milioni di mucche. Ora, se vogliamo
coesistere con gli indiani e rispettare i loro valori, dobbiamo capire che
bisogna dialogare anche con le cose che non ci piacciono. Ci sono delle cose
che fanno gli indiani e che a noi sembrano orribili, come ci sono cose che
noi facciamo e che sembrano orribili agli indiani. Allora, dobbiamo
accettare questa situazione, poi, una volta accettata la diversita' possiamo
anche negoziare, ma da uguale a uguale.
Il problema e' che l'universalismo e' una trappola, potremmo dire un "errore
universale": noi abbiamo preso i nostri valori, considerati espressione di
un modo di pensare "naturale", e abbiamo voluto imporli a tutti gli altri.
*
- Antonio Caronia: Be', e' come dire (e mi sembra che qualcuno l'abbia
detto) che tutte le culture sono uguali, ma ce n'e' qualcuna che e' piu'
uguale delle altre...
- Serge Latouche: Si', e' quello che diceva il mio amico Castoriadis. Io non
ho mai accettato questa formula: ci sono delle culture che sono piu' potenti
di altre, che possono imporsi alle altre, che possono anche distruggerle, ma
piu' uguali di altre, via... Eppure questa formulazione e' interessante,
perche' indica che in certe circostanze alcune culture possono, almeno in
parte, prendere le distanze da se stesse.
Il problema e' che la consapevolezza della propria cultura in una certa
misura rende piu' difficile porre la questione della diversita' delle
culture. Insomma, il dialogo fra culture e' necessario, ma bisogna essere
consapevoli che al di la' di un certo limite sara' un dialogo tra sordi.
Certo, possiamo capirci perche' condividiamo certe cose, ma questa
comprensione non puo' mai essere totale, perche' ognuno di noi e' sempre
all'interno di una cultura, e guarda i problemi in funzione della propria
cultura. Non c'e' una soluzione definitiva a questo problema: c'e' solo il
rispetto della diversita'. Nel momento in cui si ha un minimo di rispetto,
di tolleranza per l'altro, allora si puo' fare qualche passo avanti.
*
- Antonio Caronia: Che cosa pensa dell'elaborazione delle femministe a
questo proposito? In fondo, e' stato il femminismo che ha posto con piu'
forza (e a volte anche con chiarezza) il problema dei limiti culturali, del
"punto di vista" inevitabilmente parziale da cui ognuno di noi parla.
- Serge Latouche: Sono d'accordo, con delle precisazioni. A volte vengo
aggredito da qualche femminista, che mi rimprovera di non parlare delle
donne. Be', rispondo dicendo che non ne ho parlato perche' non sono una
donna, siete voi donne che ne dovete parlare. Si comincia a parlare dall'"io
sono", non e' vero?
Secondariamente, c'e' un malinteso su questo punto quando si apre un dialogo
con altre culture, perche' anche il femminismo e' nato in una societa'
occidentale, ed e' nato a partire dalla visione individualista della nostra
cultura, che sacralizza l'individuo a scapito delle altre dimensioni, di
gruppo o anche personali. Per noi l'individuo e' tutto, ma non e' cosi' per
altre societa', per altre culture, che spesso hanno una visione olistica,
integrale, del rapporto fra gli esseri umani e il mondo.
Percio' riconosco la legittimita' del movimento femminista all'interno del
mondo occidentale, che concepisce la societa' come un'associazione di
individui. E' normale che in una situazione come questa le donne, per cosi'
dire, rivendichino la loro parte; ma al tempo stesso bisogna comprendere che
puo' non essere lo stesso in altre societa', in cui il rapporto fra i sessi,
il rapporto fra uomini e donne, e' concepito a partire da una visione
globale: in queste societa' non e' detto che le donne stesse maturino un
punto di vista "femminista" all'occidentale. Malgrado tutto, siamo sempre
alienati. Alienati puo' essere un altro termine per designare una situazione
in cui tutto e' formattato, in un modo o in un altro. Se non si e'
formattati in un certo modo lo si e' in un altro. Da questo punto di vista
l'individualismo e' una forma di alienazione.
*
- Antonio Caronia: Nel suo intervento, oggi, lei ha detto che "il
multiculturalismo e' il cosmetico della mondializzazione". Puo' spiegare
questa affermazione?
- Serge Latouche: Mi riferisco a un certo discorso multiculturalista,
quello, ad esempio, sviluppato dalle agenzie di viaggio, che promuove la
"scoperta di nuove culture" come una cosa fantastica, e parla di una
diversita' che non si era mai vista nella storia dell'uomo. Questa e' una
forzatura, un errore storico. Il multiculturalismo non e' stato una scoperta
della modernita', ne' della postmodernita'. Ci sono gia' state esperienze di
convivenza tra culture diverse, e non cosi' livellatrici come quella di
oggi. L'antropologo Marco Aime lo dice bene. A Venezia, fra il XIII e il XV
secolo, c'erano albanesi, c'erano ottentotti, che vivevano in certi
quartieri, gli ebrei vivevano nel ghetto, ma non era una condizione
realmente escludente. Nessuno era uguale, e ognuno era differente in
rapporto al potere. Non voglio dire che tutto funzionasse, ma c'erano dei
meccanismi di bilanciamento e di compensazione.
Quello che va demistificato e' l'uso che si fa del multiculturalismo per
nascondere il terribile dramma dell'uniformazione planetaria: la diffusione
generalizzata di McDonald's, della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale
che viene presentato come ideale, e che colonizza le menti delle persone
distruggendo al tempo stesso i loro mezzi di sussistenza. Quando si fa bere
la Coca-Cola a delle popolazioni africane o latinoamericane, si distruggono
le imprese locali, l'artigianato locale, le tradizioni locali, in cui ci
sono bevande particolari come succhi di frutta o succo di canna da zucchero,
etc. La stessa cosa avviene per l'alimentazione, con McDonald's e il fast
food. Questa e' un'uniformazione culturale. E la stessa cosa avviene per la
musica: si esalta la musica folk, la musica etnica, ma tutto cio' in realta'
passa attraverso una formattazione hollywoodiana, americana...
*
- Antonio Caronia: Ma allora non e' possibile un multiculturalismo che vada
in un'altra direzione, che costruisca un vero dialogo fra le culture?
- Serge Latouche: Bisogna capire che ogni cultura, in se stessa, e'
multiculturale. Ma lo e' realmente, autenticamente, non perche' si
costruisce un discorso artificiale sulle culture "esotiche", che e' solo uno
specchietto per le allodole. Ogni cultura e' multiculturale perche' e'
necessariamente aperta agli apporti di altre culture. La sua identita' sta
nella pluralita'. Quella che viviamo adesso, invece, e' la distruzione di
ogni identita', di ogni capacita' di orientamento. All'interno della propria
cultura oggi ognuno sta perdendo i propri punti di riferimento, nessuno sa
piu' chi e', nessuno sa piu' a cosa credere: e questa e' la porta aperta al
totalitarismo, e' cosi' che si crea il potere totalitario. La gente diventa
facile preda di piu' o meno astuti "imprenditori di identita'". La cosa piu'
grave e' che tutto questo e' gia' successo, e noi ce ne stiamo dimenticando.
L'analisi che ha fatto Reich dell'ascesa del nazismo (utilizzando strumenti
della psicanalisi e del marxismo), mostra bene che una delle cause
principali di quel fenomeno fu che la classe media tedesca aveva perso tutti
i suoi punti di riferimento, le sue difese. Perche' i punti di riferimento
sono anche delle difese immunitarie.
*
- Antonio Caronia: Lei crede che il movimento antiglobalizzazione sia in
grado di cambiare - almeno in parte - questa situazione?
- Serge Latouche: Non so se possa farlo nella sua forma attuale. Ma penso
che questo movimento abbia gia' dato dei buoni risultati: e' stato in grado
di mettere in crisi alcuni progetti dei governi e delle aziende
transnazionali, ha diffuso nell'opinione pubblica un certo numero di temi.
Certo, e' un movimento ben lontano dall'essere monolitico, unificato, e'
attraversato da contraddizioni le piu' varie. Ma penso che sia un movimento
importante. Ma io confido anche in un altro antidoto, che e' un modo di
trasformare in ottimismo il pessimismo, ed e' quello che io chiamo "la
pedagogia delle catastrofi". Io sono sicuro che questo sistema mondiale
abbia una indubbia capacita' di autodistruzione. E credo che questa
consapevolezza possa essere diffusa. Noi possiamo attrezzarci a vivere
questo cambiamento, questa condizione, superando le tendenze alla
distruzione, credo che possiamo costruire una sorta di laboratorio del
futuro. E credo che questa oggi sia un po' la missione degli intellettuali
impegnati.

[Dal sito www.socialpress.it riprendiamo la seguente intervista a Serge
Latouche del settembre 2004 dal titolo "Contro l'universalismo"
(all'intervista ha collaborato Paola Ceretta).
Antonio Caronia e' giornalista, scrittore, traduttore (tra l'altro di
fondamentali libri di J. G. Ballard), operatore culturale; nato a Genova nel
1944 (ma residente a Milano, dove lavora) ha studiato matematica,
laureandosi con una tesi su Noam Chomsky; e' docente di comunicazione
all'Accademia di Brera; di formazione scientifica, con esperienze politiche
e interessi filosofici, si muove fra la teoria della comunicazione e
l'antropologia della tecnica; e' particolarmente interessato agli effetti
politici dell'innovazione tecnologica e agli aspetti estetici del
comportamento sociale in relazione alle nuove tecnologie; studioso di
scienze, tecnologia, letteratura e comunicazioni, svolge un'intensa
attivita' di saggista, divulgatore e traduttore di testi e romanzi
stranieri. Dal sito www.mediamente.rai.it riprendiamo la seguente notizia:
"Antonio Caronia, nato a Genova nel 1944, e', al di fuori del panorama
accademico, uno degli studiosi piu' originali e attenti dei fenomeni che
riguardano l'impatto sociale e culturale delle nuove tecnologie. E' studioso
di scienze, tecnologia, letteratura e comunicazioni; svolge un'intensa
attivita' di traduttore e divulgatore di testi e romanzi stranieri. E'
interessato alle modalita' d'impiego delle nuove tecnologie di informazione
e di comunicazione nell'arte. E' editorialista del mensile 'Virtual',
collaboratore della rivista 'Virus e, con Daniela Brolli, direttore di
'Aphaville'". Opere di Antonio Caronia: Cyborg, Theoria, Roma 1991;
Cyberpunk: istruzioni per l'uso, Stampa Alternativa, Viterbo 1995; Il corpo
virtuale: dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, Muzzio,
Padova 1997; (con Domenico Gallo), Houdini e Faust: breve storia del
cyberpunk, Baldini & Castoldi, Milano 1997; Archeologie del virtuale.
Teorie, scritture, schermi, Ombre corte, Verona 2001; Il cyborg. Saggio
sull'uomo artificiale, ShaKe edizioni, Milano 2001]