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L'impero invisibile. Note sul golpe americano

di Marco d'Eramo - 12/12/2005

Fonte: ndanet.it

 

       
Dalla teoria della guerra fredda a quella della guerra preventiva, cosa rimane della democrazia in America? E in occidente? Un libro inchiesta ci racconta i retroscena della fine della libertà. E' "L'impero invisibile. Note sul golpe americano" di Mauro Bulgarelli e Umberto Zona appena pubblicato da NdA press. In esclusiva la prefazione al libro scritta da Marco d'Eramo. 


PREFAZIONE: ROMA SUL POTOMAC

Il libro che hai appena iniziato ti servirà innanzitutto a smentire il tenace pregiudizio che intride la cultura europea e che tante sciagure e sconfitte ha procurato al nostro continente, e cioè la sistematica sottovalutazione della classe dirigente americana. Gli Stati uniti sono temuti per la loro immane forza e ricchezza, ma forza e ricchezza sembra siano cadute loro dal cielo, per cause naturali, per la sconfinata estensione del loro territorio, con le sue quasi inesauribili risorse. Però anche l’America latina è sterminata e ricca di materie prime e di pianure fertili, ma lì non ha mai preso forma un potere neanche lontanamente comparabile a quello statunitense. È vero che nella commedia classica i servi hanno sempre disprezzato i padroni, ma questa sottovalutazione è già costata ai tedeschi due disastrose sconfitte e ai russi, un dissanguamento quasi letale. La verità è che la ruling class americana ha dimostrato una straordinaria sagacia: non si dimentichi che il materiale umano di cui disponeva a fine Ottocento era costituito dai cafoni di tutta la terra. Come scrisse il futuro presidente Woodrow Wilson nella sua History of American People: “Arrivano moltitudini di uomini della classe più bassa, dal Sud dell’Italia, e uomini del genere più spregevole dall’Ungheria e dalla Polonia, uomini dalle cui file non traspare né qualificazione né energia, né iniziativa né intelligenza sveglia; e sono venuti in numeri crescenti anno dopo anno come se i paesi del Sud Europa si stessero sgravando dei loro più sordidi e sfortunati elementi.
Perfino i cinesi sarebbero più desiderabili come lavoratori, se non come cittadini, della maggior parte di questa feccia che affolla i nostri porti orientali”. È con questa feccia che la classe dirigente americana ha costruito il più potente impero della storia umana.
E se ci volgiamo all’indietro e ripercorriamo gli ultimi 180 anni, ci appare con brutale chiarezza la pianificata, metodica, cosciente costruzione dell’impero, dalla dottrina Monroe (1823) alla dichiarazione della manifest destiny (di fatale espansione) del 1845, fino all’ultima guerra in Iraq. Un passo alla volta, gli Usa hanno conquistato il Texas (1847), annesso tutti gli attuali Stati uniti, estromesso l’ultimo potere coloniale nel Nuovo mondo, la Spagna (1898), mettendo sotto protettorato Cuba e tutti i Carabi (il “cortile di casa”); hanno conquistato le Filippine (1899-1902) e annesso le Hawaii (1900). Nei due conflitti mondiali, hanno iniziato a combattere a guerra avanzata, ottenendo il logoramento degli altri belligeranti, così che per due volte hanno ottenuto risultati che non erano quelli dichiarati: con la Prima guerra mondiale, la Gran Bretagna ha perso il dominio del mondo e la sua flotta il controllo dei mari; con la seconda guerra mondiale, tutte le potenze europee hanno perso, subito o a termine, le loro colonie, volenti o nolenti (la Gran Bretagna lasciò l’India nel 1947, l’Olanda evacuò l’Indonesia nel 1949, la Francia abbandonò l’Indocina nel 1953 e l’Algeria nel 1962, e a metà degli anni Sessanta le “indipendenze africane” erano cosa fatta).
Gli Usa emersero dalla Seconda guerra mondiale in una posizione di dominio senza precedenti: con le loro basi occupavano militarmente mezza Europa, il Giappone, la Corea, le Filippine; e tra loro e il potere mondiale si frapponeva solo la modesta potenza regionale dell’Unione sovietica.
Quarant’anni di Guerra fredda (il termine fu coniato da George Orwell) spazzarono via anche quest’improbabile rivale e lo disintegrarono (conosceremo mai le clausole segrete della “resa” di Michail Gorbaciov? quelle che consentirono all’Ucraina di dichiarare la propria indipendenza e che portarono alla nascita delle repubbliche asiatiche, tanto per intenderci).
Prima che intervenissero in Afghanistan (e mettessero su altre decine di basi militari in Asia centrale, oltre a quelle attuali in Iraq), dieci anni dopo la fine della Guerra fredda, Chalmers Johnson contava “più di 61 basi in 19 paesi, se si usa la definizione più restrittiva data dal dipartimento della Difesa per definire una ‘grande installazione’; ma se s’include ogni istallazione che ospiti rappresentanti delle Forze armate Usa, allora il numero sale a 800 basi”. In particolare, sotto occupazione militare americana sono Gran Bretagna, Germania, Spagna, Italia, Kosovo, Turchia, Iraq, Qatar, Kuwait, Afghanistan, Filippine, Giappone, Corea del Sud (e nuove basi sono in costruzione in Romania e Bulgaria). “Naturalmente, non ci sono basi italiane negli Stati uniti. Il solo pensiero sarebbe ridicolo. Né, se per questo, ci sono basi tedesche, indonesiane, russe, greche o giapponesi di stanza sul suolo italiano. Per di più, l’Italia è uno stretto alleato degli Usa e non c’è nessuna nazione che sia una verosimile minaccia per le sue rive. Tutto ciò è quasi troppo ovvio da constatare. Semplicemente non è materia di discussione, e ancor meno di dibattito nella terra dell’ultimo potere imperiale. Probabilmente questo modo di pensare è una seconda natura per ogni impero.
Può darsi che i romani non trovassero strano avere truppe in Gallia, né gli inglesi in Sudafrica. Ma ciò che rimane taciuto, è pur sempre reale, e non è perché è rimosso da ogni discussione interna che manca di conseguenze”.
Insomma è un secolo e mezzo che gli Usa tessono pazienti la trama dell’impero e sono decenni che occupano militarmente tutto il mondo. E hanno costruito non solo un potere, ma anche un’ immagine benevola di questo potere: il loro capolavoro ideologico è stato di oscurare la straordinaria coerenza del processo, tappa dopo tappa, e di riuscire a convincere il mondo – e anche i propri cittadini – di essere inciampati per caso, come controvoglia in questo potere, costretti a malincuore dalle circostanze: “Mannaggia, ci tocca comandare!”. Ancora oggi l’americano medio non è cosciente né della natura, né della missione imperiale del suo paese. Persino le invasioni sono viste come azioni di difesa, o come retate di “polizia internazionale” contro “paesi criminali”: Saddam Hussein come un Al Capone a livello planetario, Fidel Castro come un John Gotti internazionale, Gheddafi novello Dillinger africano.
Se chiedi a un americano, ti dirà che sì, gli Usa sono il paese di gran lunga più potente e più ricco della terra, ma certo non un impero. Forse è un prodotto della “neolingua” di cui parla Orwell in 1984: ma certo è curioso che gli Stati uniti abbiano usato la formula “mondo libero” per indicare l’area a loro asservita e che denominando “alleati” quelli che sono in realtà sudditi e vassalli (per la verità, già i romani avevano fatto lo stesso con i foederati). Solo negli ultimi anni la classe dominante americana ha cominciato a gettare la maschera e a usare un linguaggio più franco. Ha cominciato Zbigniew Brzezinski, di cui assai opportunamente è riportato in questo volume un emblematico brano: “Tre sono i grandi obiettivi della geo-strategia imperiale: impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di sicurezza, garantire la protezione e l’arrendevolezza dei tributari e impedire ai barbari di stringere alleanze”. Insomma, nel giro di poco più di un secolo gli Stati uniti sono diventati l’unica superpotenza imperiale che controlla tutto il pianeta (loro direbbero che controllano tutto il sistema solare), ma poiché la storia è di regola scritta dai vincitori, pochi si sono chiesti in che modo, con quali tecniche e quali strumenti, la classe dirigente americana abbia conseguito il dominio del mondo. Il libro che hai in mano ti permette di valutare uno di questi strumenti, che dimostra quanto sia infondato il pregiudizio sul dilettantismo dei dirigenti americani. Questo strumento è costituito dai cosiddetti think tank (i “serbatoi di pensiero”), e nelle prossime pagine potrai seguire la storia di alcuni di essi, a partire dal mitico Council on Foreign Relations (Cfr), da cui sono usciti, dal 1921 in poi, tutti i 14 segretari di Stato (cioè ministri degli Esteri) degli Usa, 7 presidenti, 14 segretari al Tesoro, 11 segretari alla Difesa. Troverai poi la storia di altri think tank, derivazioni per partenogenesi o per scissione del Cfr: il Committee on Present Danger, la Trilateral Commission e giù per li rami fino al Project for the New American Century fondato da William Kristol, direttore del “Weekly Standard”, e che include Richard Perle, Robert Kagan, l’editore di “New Republic” Martin Peretz e l’ex direttore della Central Intelligence Agency James Woolsey, cioè il gruppo di ideologi che esercita l’influenza determinante sull’attuale amministrazione repubblicana.
L’epopea di questi think tank mostra come non vi sia nulla di casuale nella costruzione dell’impero americano, e nulla di dilettantistico nei suoi architetti che vengono quasi tutti dalle università più prestigiose (Harvard, Chicago, Yale, Columbia), hanno studiato con grandi intellettuali, e hanno alle spalle un cursus honorum di tutto rispetto e ricoperto ripetute responsabilità di governo in ambiti disparati.
Costoro sono l’equivalente statunitense dei grand commis francesi: i presidenti passano, loro restano. Costituiscono perciò l’ossatura della classe dirigente americana. Sono i bramini, come vengono chiamati negli Usa. Ma se è così, emerge una serie di problemi che questo libro discute e su cui esprime tesi esse stesse soggette a discussione. L’individuazione del persistente (e per i più sprovveduti insospettato) potere di alcuni think tank porta all’idea di una ribalta della politica e di una politica dietro le quinte. Portata all’estremo, quest’impostazione può condurre a una mitizzazione della “storia segreta”, a una visione dietrologica della storia. Noi assisteremmo solo alla messa in scena della lotta politica, a uso e consumo dell’ingenuo elettore, mentre la sostanza si svolgerebbe nel mistero delle segrete stanze: arcana imperi. Un libro dedicato ai think tank corre inevitabilmente il pericolo di apparire complottardo, ma a questo proposito sono necessarie alcune messe a punto. È vero che la storia segreta è l’equivalente sociale di quello che è l’astrologia a livello individuale: un determinismo arcano che governa ferreo e invisibile le nostre vite, come una morte precoce ineluttabilmente segnata dalla congiunzione di Giove e Marte (sparo a caso). Non per nulla, di solito chi più crede alle tesi complottarde, congiuratorie (in italiano prevale ormai il termine derivato dall’inglese conspiracy, ma che vuol dire solo complotto), crede di solito anche agli Ufo, all’astrologia, ai Rosacroce e ai Templari (Il pendolo di Foucault di Umberto Eco), all’onnipotenza della Massoneria e alla simbologia Urveda del nazismo.
In realtà la storia non può essere ridotta a “storia segreta”: i movimenti di massa, i rapporti di potere, le battaglie economiche, le guerre e le stragi, tutto ciò si offre al nostro sguardo e al nostro studio. Ma se la storia non si esaurisce nella storia segreta, non per questo non ci sono lati segreti in una storia pubblica. Le clausole segrete dei trattati esistono: dopo che il 3 febbraio 1998 un jet Usa tranciò il cavo della funivia del Cermis siamo venuti a sapere che il trattato fondativo della Nato conferisce l’immunità diplomatica a ogni e qualunque soldato semplice (private) americano all’estero. In precedenza si ricordavano le clausole segrete della “resa” di Michail Gorbaciov: in realtà è la resa stessa a essere segreta.
In secondo luogo il potere di questi think tank non è per niente segreto: i loro membri passano da un consiglio di amministrazione all’altro, da una consulenza governativa a un incarico diplomatico o a una cattedra universitaria, in un circuito in cui ognuno prende il posto dell’altro. Si tratta perciò di un potere non segreto, ma informale. Il problema di questi think tank e altre simili associazioni è che non sono responsabili di fronte a nessuno, è un problema di accountability. Un po’ come le società di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) che con i loro “voti” possono affondare un paese e distruggere milioni di vite umane, ma non devono risponderne a nessuno, perché appunto sono private.
Il potere di Moody’s non è affatto segreto, è sotto gli occhi di tutti, ma è un potere irresponsabile. Nello stesso modo, il Project for the New American Century ha abbastanza potere da aver spinto Bush ad attaccare Baghdad, ma non deve rispondere a nessuna famiglia irachena per le morti che l’invasione Usa ha provocato, e se per questo neanche a nessuna famiglia americana per i boys uccisi da guerra e guerriglia.
Poiché i think tank costituiscono un serbatoio indifferentemente per i democratici e i repubblicani, forte è la tentazione di fare di tutta l’erba un fascio. È questa un’altra variante della storia segreta: l’idea cioè che apparentemente negli Stati uniti vi sia una lotta politica tra due partiti che si contrappongono di fronte all’elettorato, ma che in realtà, dietro le quinte vi sia un regime a partito unico, tanto è vero che i due partiti hanno in comune molte opzioni di politica internazionale. Ora, di fronte all’idea che di notte tutti i gatti sono neri, va sostenuta con forza l’idea che di notte tutti i gatti sono gatti, ma poi ci sono gatti neri e gatti bianchi. L’idea che tutti i gatti sono neri ha portato nel 2000 alla candidatura di Ralph Nader, che ha favorito quello che gli autori di questo libro chiamano il colpo di stato di Bush il giovane. Ma proprio le leggi emanate dall’amministrazione Bush provano che i gatti neri sono assai diversi dai gatti bianchi (pur restando sempre felini). Per quanto riguarda l’impero è evidente che alla sua costruzione hanno partecipato ambedue i partiti. Anzi, paradossalmente, un vecchio luogo comune della diplomazia afferma che dal punto di vista internazionale i democratici siano peggio, più imperialisti dei repubblicani (considerati più isolazionisti), che da parte loro sarebbero peggio in politica interna. Ora gli ultimi due anni dimostrano l’insostenibilità di questo luogo comune come anche di un’altra favola dispensata da alcune fonti di propaganda, e che cioè i repubblicani siano più filoarabi (perché, si dice, legati ai petroliferi), mentre i democratici sarebbero più filoisraeliani, perché più connessi al capitalismo finanziario della costa orientale. L’indefettibile sostegno che Bush il giovane ha fornito e fornisce ad Ariel Sharon smentisce questa frottola. Va detto che in queste bufale il personale politico della sinistra europea è caduto e continua a caderci. In realtà, sia i democratici sia i repubblicani mirano a fare degli Stati uniti un impero mondiale, ma con stili e con strumenti differenti. Storicamente i democratici sono più inclini ad affidarsi alle cinghie di trasmissione delle organizzazioni internazionali, come la Nato, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale. È stato chiamato soft power, ma non è niente affatto soft, come si è visto quando il segretario al Tesoro democratico Lawrence Summers (oggi rettore di Harvard) ha scatenato attraverso l’Fmi la crisi asiatica che ha gettato sul lastrico milioni di indonesiani, tailandesi e coreani. I repubblicani tendono a considerare invece queste organizzazioni come un limite alla loro libertà di manovra (anche se Bush il vecchio rispettò alla lettera il mandato dell’Onu nella guerra del Golfo del 1991). In realtà democratici e repubblicani sono due partiti imperialisti (o patriottici, a vederla dal loro punto di vista: vogliono ambedue la grandezza e la potenza degli Usa, ma soprattutto della loro classe dirigente).
Ma hanno due visioni assai diverse dell’impero, una – la repubblicana – più militare, l’altra – la democratica – più politica.
Il presente volume sottolinea con forza la continuità dell’impostazione strategica oggi in vigore alla Casa bianca: non per nulla il documento della National Security Strategy (Nss) dell’estate 2002 – che fece gridare a una “svolta epocale” – non lo fu affatto. Anzi, in quel documento si ritrovano temi ed espressioni già presenti nella dottrina Truman. Soprattutto, questo documento riprende pari pari il National Defence Guidance for the 1994-1999 Fiscal Years presentato nel 1992 da Dick Cheney (allora segretario alla Difesa e oggi vicepresidente degli Stati uniti), e redatto insieme a Colin Powell (allora capo di stato maggiore dell’esercito, oggi segretario di stato) e Paul Wolfowitz (allora sottosegretario e oggi vicesegretario alla difesa).
Questo documento fu ripresentato con variazioni minime nel 1992, nel 1993 e l’anno scorso (un’analisi della straordinaria somiglianza di questi testi è stata condotta da David Armstrong su “Harper’s Magazine” dello scorso ottobre).
Anche in quei documenti erano presenti i temi che caratterizzano la cosiddetta dottrina Bush, in particolare la volontà dichiarata di aumentare spese militari e forza bellica nonostante la fine della Guerra fredda, il mantenere di una schiacciante superiorità tecnologica, di marginare la Nato e l’Onu, di spingere l’unilateralismo e la dottrina dell’attacco preventivo (che, a sua volta, richiama il first strike, primo colpo nucleare della Guerra fredda).
Ma allora come conciliare questa continuità con l’altra tesi sostenuta dal volume, e cioè di una forte discontinuità impressa dall’attuale amministrazione Bush alla politica imperiale americana, tanto da far usare ai suoi autori il termine “colpo di stato” con un esplicito riferimento al marxiano 18 Brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte? Non si può discutere quest’apparente contraddizione senza almeno un cenno al ruolo che l’Unione sovietica ha avuto nella storia e nella formazione politica degli Stati uniti. Come mi ha detto uno dei massimi specialisti francesi di studi strategici, Alain Joxe, “fin dal 1917, gli Stati uniti avevano avuto il vantaggio di avere un nemico designato.
Si sono sempre identificati con l’avvenire del capitalismo, e di rimpetto l’Urss era visto come l’alfiere di un socialismo che li avrebbe abbattuti. Il risultato è che, per 75 anni su 220 – quasi tutta la loro storia industriale, da quando entrano apertamente nel sistema mondiale con la guerra 14-18, un terzo della loro storia totale è stato strutturato sull’esistenza di un nemico designato. E la sua scomparsa crea un turbamento profondo nella loro stessa identità. Ciò ha condotto a un’angoscia decennale che si è manifestata in una ricerca di nuovi concetti strategici”. E Chalmers Johnson si spinge ancora più in là: non tutti gli imperi sono uguali e quello americano è stato plasmato dal suo confronto con l’Urss. Per Johnson, una delle caratteristiche di questo progetto imperiale consiste nel proposito degli Stati uniti di piegare tutti gli altri paesi al proprio sistema sociale, alla propria organizzazione economica, alla bibbia del libero mercato.
Così facendo, gli Usa somministrano al mondo di oggi la stessa prescrizione che Stalin formulava in una conversazione con Tito nel 1945 e riportata dal suo braccio destro Milovan Djilas: “Questa guerra è diversa dalle altre. Chiunque occupa un territorio deve imporre il proprio sistema sociale. E ognuno imporrà il suo sistema sociale finché il suo esercito avrà il potere di farlo. Non può essere altrimenti”.
E si moltiplicano le analogie tra le politiche dell’Urss durante la guerra fredda e l’attuale progetto imperiale americano: i blowback (o contraccolpi) che gli Usa dovranno fronteggiare somigliano a quelli che hanno portato al crollo l’Unione sovietica.
Johnson interpreta la crisi asiatica degli anni Novanta come il tentativo da parte degli Usa di piegare il capitalismo giapponese al modello americano (notevole in questo libro profetico è che la teoria del blowback sia formulata non da un mediorientalista o da un arabista, ma da uno specialista di Cina e Giappone). In questo decennio gli Stati uniti hanno cercato d’imporre al mondo il loro modello sociale, facendo precipitare nella miseria i paesi che non vi si uniformavano: “Dalla fine della Guerra fredda, per perseguire la propria politica estera gli Stati uniti hanno smesso quasi del tutto di affidarsi alla diplomazia, all’aiuto economico, alla legge e alle istituzioni internazionali, alle
istituzioni internazionali rivolgendosi sempre di più al pugno sul tavolo, alla forza militare e alla manipolazione finanziaria”.
Per Chalmers Johnson, addirittura “il pericolo è che gli Stati uniti si stiano incamminando sulla stessa strada presa dall’Unione sovietica negli anni Ottanta. Che cosa ha fatto crollare l’Urss? Essenzialmente tre elementi: 1) Le contraddizioni interne dell’economia causate soprattutto dall’ideologia, dal marxismo-leninismo; noi negli Stati uniti abbiamo contraddizioni economiche interne derivanti dalla peculiare ideologia americana che è non il capitalismo (anche il Giappone è capitalista, ma è criticato dagli ideologi Usa), bensì lo specifico liberismo dei Chicago boys: e la fiducia popolare in questa peculiare ideologia americana è in crisi, dopo tutti gli scandali che hanno colpito le grandi corporation, Enron, WorldCom e così via. 2) Lo ‘stress imperiale’ che si produce quando vuoi mantenere il tuo dominio su troppi paesi che se ne risentono, si ribellano: quello che è successo al muro di Berlino potrebbe accadere a Okinawa domani. È un fattore che fa crollare gli imperi. 3) L’incapacità di autoriformarsi. L’Unione sovietica ci provò con Michail Gorbaciov che però incontrò troppe resistenze interne nell’ala conservatrice del partito e il paese esplose. E anche gli Stati uniti stanno dimostrando di essere incapaci di autoriformare il sistema delle corporation e tutto l’assetto economico-sociale”. Io non mi spingerei così lontano, troppe volte è stato annunciato a suon di fanfara il “declino americano” poi regolarmente smentito: si pensi ai vari Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi e Paul Kennedy che predicevano il declino americano appunto nei primi anni Novanta, proprio alla vigilia dell’esplodere del potere Usa; d’altronde queste sensazioni crepuscolari si hanno di solito al meriggio o addirittura all’alba, basti ricordare che Il tramonto dell’Occidente di Osvald Spengler fu scritto dopo la Prima guerra mondiale, quando l’egemonia occidentale esercitava sul pianeta una morsa ferrea che non avrebbe più allentato. È pur vero però che in tutti gli anni trascorsi dal crollo dell’Urss, gli Stati uniti si sono sentiti orfani di un nemico esterno che funzionasse come fattore di coesione all’interno.
Senza lo spauracchio dell’Urss, la lotta fra le frazioni della classe dominante americana e del suo capitalismo si è scatenata senza quartiere e senza esclusioni di colpi, cambiando di fatto la costituzione materiale, imbarbarendo la politica Usa a un livello inimmaginabile persino sotto Ronald Reagan. Lo testimoniano il tentativo di golpe costituzionale nei confronti di Bill Clinton, prendendo ad alibi una macchia di sperma su un vestito e la contestata – e contestabile – vittoria di George W. Bush nel 2000 (quando la presidenza gli è stata regalata dalla maggioranza con-servatrice dei giudici della Corte suprema).
Questa vittoria ha portato al potere il gruppo dei neocon (che ironicamente in francese significa i “neo-stronzi”), discendenti diretti del Committee on the Present Danger che, come dice il nome, era un gruppo guerrafondaio che durante la Guerra fredda fomentava il militarismo Usa ingigantendo il pericolo rappresentato dall’Urss (ti ricorda qualcosa dell’oggi?). Insomma, nel 2000 nella stanza dei bottoni è rientrato – dopo dieci anni di digiuno – uno stuolo di residuati nostalgici della guerra fredda, che erano stati emarginati durante gli anni di Clinton (di notte i gatti sono tutti gatti, ma non tutti neri). I neocon volevano a ogni costo resuscitare il clima da guerra fredda, il problema è che non c’era più l’Urss.
È interessante notare che nei primi otto mesi di presidenza effettiva, il gruppo dei neocon ha trovato grandi difficoltà ad attuare il proprio programma politico che era stato annunciato con estrema chiarezza (invasione all’Iraq compresa) durante la convenzione repubblicana di Filadelfia del 2000, cui ho assistito. Addirittura, nell’agosto del 2001, Donald Rumsfeld era sull’orlo delle dimissioni perché stava suscitando l’ammutinamento di tutto il personale in divisa del Pentagono. Il gruppo Rumsfeld-Cheney-Wolfowitz-Ashcroft stava fallendo quel colpo di stato permanente cui alludono gli autori di questo libro, non per mancanza di determinazione, ma a causa delle resistenze inattese che attendevano.
È in questa situazione che l’11 settembre 2002 due grandi aerei passeggeri centrarono le Twin Towers del World Trade Center. Trovo ininteressante ogni dietrologia su quell’attentato. Quel che conta è che quei due aerei rappresentarono una manna dal cielo per l’amministrazione Bush, le consentirono di spazzare via ogni parvenza di legalità e di perseguire senza ostacoli il proprio programma politico annunciato a Filadelfia. Tra l’altro è diventata possibile l’invasione dell’Iraq. Finalmente si è potuto riesumare un Present Danger, non più l’Urss, ma al Qaeda (è indicativo che il vicepresidente Dick Cheney pronosticasse che la guerra al terrorismo sarebbe durata più di 30 anni, una guerra permanente). In questo senso nine eleven funzionò per Bush in modo analogo all’incendio del Reichstag per Hitler, come dimostrò il liberticida Patriot Act approvato sull’onda emotiva e il successivo decreto presidenziale (executive order) che autorizzava i soldati americani ad arrestare chiunque ritenessero opportuno in qualunque paese, trasportarlo segretamente in una base militare Usa e farlo processare (magari a morte) da una corte marziale riunita in segreto. In teoria, i marine potrebbero calarsi dall’elicottero sul terrazzo di casa mia, prelevarmi, portarmi ad Aviano, o a Diego Garcia, processarmi, condannarmi a morte e uccidermi senza che nessuno sappia dove sono finito.
È solo in questo senso che si può parlare di golpe, un golpe favorito dall’inusitata concentrazione della ricchezza negli Stati uniti: l’un per diecimila (lo 0,01%) delle famiglie americane ha un reddito pari a quello del 19% più povero delle famiglie Usa (cioè le 13.000 famiglie più ricche hanno un reddito pari al totale dei 20 milioni di famiglie più povere) e l’1,3% delle famiglie più ricche ha un reddito pari a quello del 50% più povero. Questa ricchezza compra molte cose, tra cui intelligenza (le fondazioni dei think tank ultraconservatori sono a finanziamento privato) e consenso, come si è visto dal supino asservimento dei grandi mass media (soprattutto televisivi) alla politica aggressiva di Bush.
Il golpe permanente consiste nello snaturare in profondità la costituzione materiale Usa, uno dei cardini era proprio costituito dalla natura informale del suo impero: gli Usa non avevano colonie, né possedimenti legali, come i Dominion britannici o i Dom-Tom francesi. L’informalità dell’impero andava di pari passo con la sua egemonia esercitata non attraverso apparati coercitivi, quali istruzione pubblica e missionari, ma tramite i mass-media: è il primo impero della storia i cui apparati ideologici non sono libri di testo, ma canzoni, film, serial, gruppi rock.
Ma tutto il programma dell’amministrazione Bush proprio in questo consiste: nel passare da un impero informale a uno formalizzato. Un tempo l’immunità dei militari Usa era contenuta nelle clausole segrete dei patti Nato, ora si chiede ufficialmente l’impunità di fronte alla Corte di giustizia internazionale. E caratteristica dell’impero è proprio di essere legibus solutus, di non dovere rispettare le leggi che impone ai sudditi. La cosiddetta dottrina della “guerra preventiva” e il conseguente attacco all’Iraq altro non sono stati che l’affermazione solenne di un diritto imperiale, quello dell’aggressione discrezionale anche se non giustificata.
È troppo presto per dire se per la classe dirigente americana questa svolta costituirà un successo, come nel caso di altre tappe di avvicinamento all’impero mondiale, o per sapere se i neocon stiano over-streching l’impero. Già ora le formidabili forze armate Usa sembrano giunte al limite delle proprie capacità. Il bilancio è di nuovo in deficit, la povertà è di nuovo in aumento, come pure la criminalità.
Le altre frazioni del capitalismo americano – azzittite per un tempo dal fragore del crollo delle Twin Towers – cominciano a uscire dal mutismo in cui il ricatto patriottico le aveva intrappolate. Certo è che la formalizzazione dell’impero è un problema posto agli Usa dalla storia e non solo dai neocon. Ma non lo si risolve a colpi di bombe intelligenti sparate per mostrare chi è il più forte. Con quest’atteggiamento gli Usa si sono giocati nell’ultimo anno la fedeltà di due vassalli fino ad allora giudicati indefettibili: Germania e Turchia. Però è vero che quando sei l’unico potere al mondo, una formalizzazione di qualche tipo è necessaria, proprio per non ricadere in quella dimensione hobbesiana di cui ha scritto Robert Kagan (quando diceva che gli americani sono figli di Marte – veri macho –, e gli europei figli di Venere – se non proprio “checche”, quasi).
Che il problema dell’impero sia divenuto sempre più urgente lo si vedeva già in epoca clintoniana: basta paragonare il film Il gladiatore con i kolossal degli anni Cinquanta che immedesimavano lo spettatore con i sudditi dell’impero (cristiani o schiavi) contro i romani pagani che erano descritti sempre come viziosi, sadici nazisti. In Il gladiatore invece, i barbari sono appunto barbari, e l’impero romano è buono e foriero di civiltà, anche se può capitare un imperatore indegno. I kolossal degli anni Cinquanta identificavano l’impero romano con l’Europa e i regimi coloniali; Il gladiatore identifica l’impero romano con gli Stati uniti.
Non per nulla, sulle rive del Potomac, nei think tank che ho visitato, l’espressione di cui si riempiono la bocca è proprio “la nuova Roma”.

Marco d'Eramo

IL LIBRO
L'impero invisibile
di Mauro Bulgarelli e Umberto Zona
€ 16, 256 pagine, NdA press

Dalla teoria della guerra fredda a quella della guerra preventiva, cosa rimane della democrazia in America? E in occidente? Un libro inchiesta che ci racconta i retroscena della fine della libertà.

Con questo libro gli autori tentano di ricostruire la storia e l'influenza di quella serie di strutture, dal Council of the Foreign Relations, al Committee on the Present Danger fino al Project of the New American Century, che hanno forgiato il pensiero dell'"Impero americano" e dalle cui fila provengono molti esponenti della destra radicale oggi al potere negli Stati Uniti. Una ricostruzione che si sforza di cogliere non solo il peso esercitato da queste strutture sotto il profilo teorico ma anche il fitto intreccio che le lega alle stanze del potere, agli apparati dei servizi segreti e alle fasi pi? oscure della storia americana (l'operazione Northwoods, l'affaire Iran-contras, la guerra segreta in Afghanistan, l'11 settembre). Con l'elezione di George W. Bush, questa super-lobby ha occupato il governo degli Stati Uniti e scatenato uno stato di guerra permanente di cui non si intravede la fine e che minaccia i destini del mondo. Cosa rimane della democrazia in America? Uomini come Wolfowitz, Perle o Libby possono essere ancora ascritti al solco del neoconservatorismo o piuttosto incarnano un'inedita destra eversiva? E' legittimo parlare di un progetto golpista di lunga data sfociato nel colpo di stato "silenzioso" del 2000? Sono alcuni dei quesiti ai quali gli autori cercano di dare una risposta, sforzandosi nel contempo di tracciare degli scenari possibili per il prossimo futuro.

GLI AUTORI
Mauro Bulgarelli, attualmente deputato, si occupa di comunicazione di massa, conflitti e movimenti. Nel corso del 2002 sono usciti: Lo scontro delle inciviltˆ, con Lorenzo Casadei (Fratelli Frilli Editori); Diario Palestinese, AA.VV. (Manifesto Libri); Espulsi, AA.VV. (Odradek Edizioni); La democrazia possibile, AA.VV. (Edizioni Intra Moenia); Con i palestinesi, AA.VV. (Massari Editore). Ha collaborato e collabora con vari quotidiani e periodici.

Umberto Zona, ricercatore, si occupa di movimenti sociali, nuove tecnologie e organizzazione del lavoro. Ha pubblicato, tra gli altri: L'onda verde, AA.VV. (Alfamedia), Le culture dei verdi, AA.VV. (Dedalo), Il libro del Diavolo, AA.VV. (Dedalo). Collabora con varie riviste e periodici.