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I rossi e i neri di Casalbertone. Le radici del (neo)fascismo e del (neo)comunismo. Una riflessione

di Carlo Gambescia - 23/07/2007

 

Perché a più di sessant’anni dal 1945 e a sedici dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (ma la crisi del “socialismo reale”, era già iniziata almeno nel 1956) alcuni gruppi di giovani attivisti politici, continuano a contrapporsi in nome del (neo)fascismo e del (neo)comunismo? E con una ferocia verbale e talvolta fisica, che lascia interdetti? Come è accaduto in questi giorni a Roma, nella zona di Casalbertone.
Possono essere date tre spiegazioni, diciamo così superficiali. Vediamo perché.
In primo luogo, si può partire dalla tesi, molto diffusa a sinistra, del neofascismo, come “guardia bianca” del capitalismo. Come movimento delinquenziale rivolto a reprimere le lotte sociali, ponendosi al servizio di interessi economici borghesi e conservatori. A questa tesi, ne corrisponde un’altra a destra, altrettanto rozza, quella che vede nel neocomunismo, un movimento, puramente criminale, dietro il quale, si nascondono le forze occulte della sovversione mondiale. Di conseguenza, su questo piano, che potremmo chiamare delle reciproca criminalizzazione, le dinamiche tra neofascisti e neocomunisti, non possono non essere conflittuali, e sfociare regolarmente in scontri fisici. La cui responsabilità, di volta di volta, ciascuna parte addebita all’altra. Scontri che possono provocare, l’intervento del potere repressivo dello stato, facilitando così derive moderate e quietiste della politica, attraverso l'individuazione pubblica di un nemico (l'estremismo) che "turberebbe" la normale vita sociale dei cittadini benpensanti e timorosi di disordini.
In secondo luogo, va illustrata, a tesi liberal-democratica, che vede nel neofascismo e nel neocomunismo, due forme di deprivazione culturale e sociale. Secondo questa tesi, chiunque dia la sua adesione a movimenti neofascisti e neocomunisti, avrebbe seri problemi di integrazione sociale, legati a forme di cattiva o mancata socializzazione ai valori democratici. Di qui la necessità di escludere, in quanto antidemocratici, sia gli uni che gli altri, dalla decisione politica, e se necessario, anche dal dibattito politico e culturale, “silenziandone” fin dove possibile le idee, grazie alla complicità “funzionale” dei mezzi di comunicazione sociale. O, se necessario, intervenendo, attraverso la polizia e la magistratura. Facilitando, anche in questo caso, le derive moderate e quietiste di cui sopra.
In terzo luogo, va ricordata, una certa tesi, che prevale a destra (e come vedremo anche a sinistra). E che vede i movimenti neofascisti popolati di inguaribili romantici, talvolta violenti, ma tutto sommato recuperabili, o comunque utilizzabili politicamente. Questa tesi, fa il paio, con un’altra simile che prevale a sinistra. E che vede, a sua volta i movimenti neocomunisti popolati di “sognatori” e utopisti, talvolta violenti, ma nonostante tutto, se "addomesticati", capaci di “portare voti”. Questa interpretazione del neofascismo e del neocomunismo può essere denominata “ludico-elettorale”. Nel senso che di solito implica la “ludicizzazione” di questi movimenti, attraverso la loro riconversione in "gestori" di attività (non scherziamo) “social-divertentistiche”, utili per "canalizzare" voti verso i partiti moderati, a destra come a sinistra.
Queste tre interpretazioni: a) quella della reciproca criminalizzazione; b) quella della deprivazione sociale e culturale a sfondo antidemocratico; c) quella “ludico-elettorale”, non spiegano però come mai alcuni giovani continuino tuttora a identificarsi nei valori del neofascismo e nel neocomunismo.
Probabilmente la parola chiave è “valori”. Una termine che le tre interpretazioni si rifiutano di considerare, dal momento che preferiscono ridure i valori a pura copertura di attività criminali (prima interpretazione); a vuoti corollari dei processo di integrazione sociale e democratica (seconda interpretazione); a innocuo folclore social-divertentistico (terza interpretazione).
Invece la questione è piuttosto seria . Perché in realtà, per ogni società, riconoscere l’importanza dei valori significa confrontarsi con il significato che essa attribuisce a un insieme di principi, direttivi del comportamento sociale. Ma parlare di valori, per ogni società, non è mai facile, perché implica una riflessione seria sui propri valori. Di qui la preferenza storica a liquidare come negativo tutto quello che non è in consonanza con i valori dominanti. Come oggi avviene con i movimenti neofascisti e neocomunisti, bollati come criminali, antidemocratici e folcloristici.
Mentre se invece si esaminassero, senza pregiudizi, i valori ai quali si ispirano questi movimenti, si scoprirebbe che in entrambi è possibile rinvenire oggettivamente un fattore comune: il rifiuto della società capitalistica, così come si è conformata in Occidente dopo il 1945, Certo, si tratta di un rifiuto articolato con modalità differenti, come tuttora si rinfacciano reciprocamente neofascisti e neocomunisti, ma sempre di rifiuto si tratta.
Inoltre l’opposizione, in termini di valori alla società capitalistica, che non è il migliore dei mondi possibili come vogliono farci credere, resta la principale area valoriale di aggregazione e di reclutamento sociale di questi movimenti. Le cui dinamiche di crescita e decrescita politica, come i tassi di eterogeneità sociale, economica e culturale dei membri reclutati, andrebbero studiati, a prescindere dal discrimine destra-sinistra, e correlandoli agli alti e bassi del ciclo economico e delle conseguenti politiche di welfare.
Il che significa, almeno in linea ipotetica, che fin quando esisterà il capitalismo esisteranno questi movimenti. E che, se il meccanismo socioculturale, che li regola, continuerà a essere quello del rifiuto del capitalismo, questo rifiuto, in quanto valoriale, e dunque principio di comportamento e identità, resterà per questi movimenti non negoziabile. E resterà tale, a prescindere sia dalle dinamiche storiche (caduta del fascismo, dissoluzione del comunismo, eccetera), sia da quelle esistenziali. Perché la scelta valoriale continuerà a “fare premio”, sul cosiddetto ricambio generazionale. Nel senso che di generazione in generazione, il numero delle adesioni, in base al ricambio, resterà comunque stabile (anche perché uno dei punti di forza di questi movimenti è la capacità di trasmettere e socializzare i propri valori). Parliamo ovviamente come è noto, di percentuali elettorali piuttosto basse: intorno al 2 % per i movimenti neofascisti, e forse al 4 % per i movimenti neocomunisti, come si dice, duri e puri. Fermo restando poi, che la cosiddetta base degli attivisti, attualmente ammonterebbe, per entrambi i movimenti, ad alcune decine di migliaia di persone.
Ora, per il futuro, considerati, anche gli alti e bassi del capitalismo, questi movimenti, di sicuro continueranno a riprodursi. Resta invece difficile ipotizzarne l’evoluzione in termini quantitativi. Legata, almeno in parte, alla non prevedibile evoluzione del sistema economico-sociale dominante. Quel che invece ci auguriamo, è che questi movimenti, possano finalmente comprendere, che proprio alla luce della comune scelta valoriale anticapitalista, continuare a farsi reciprocamente “guerra” è un errore politico e storico e sociologico. Perché significa favorire derive moderate e quietiste, che possono prolungare, o comunque rendere più facile, la vita di quel capitalismo "selvaggio" che questi movimenti dichiarano invece di voler combattere.