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Quanto è triste l'addio a Babele: a rischio 6000 lingue

di Luigi Dell'Aglio - 16/12/2005

Fonte: Avvenire

L'Unesco denuncia: oggi esistono seimila lingue, tra 100 anni potrebbero ridursi ad alcune decine. Così il mondo sarà più povero

Sono minacciate di estinzione quasi tutte le seimila lingue catalogate nel mondo, fa sapere l'Unesco. Nell'arco del secolo, potrebbero ridursi a venti, prevedono altri studiosi. È positivo un evento che in fondo semplifica la comunicazione fra gli esseri umani e potrebbe essere interpretato come "la fine di Babele"? No, rispondono gli specialisti, è una perdita incalcolabile, dal punto di vista storico, ecologico ma soprattutto dell'autonomia culturale. E perfino del progresso scientifico. Ne sa qualcosa l'Australia. Nel nord di questo Paese era scoppiata un'epidemia di ulcere della pelle, assolutamente refrattarie ai farmaci. La sola terapia efficace era descritta in una lingua tradizionale, che ormai pochissimi conoscevano. Gli aborigeni avvertirono un'infermiera e l'aiutarono a interpretare la ricetta e a preparare la soluzione ottenuta da una pianta medicinale. L'antico medicamento cicatrizzò le ulcere e l'epidemia passò. L'esempio, riferito anni fa dal grande linguista Stephen Wurm (1922-2001), dell'Australian National University, serve a capire perché è necessario salvare le tante lingue del mondo, spazzate via dall'inglese e da altri idiomi vincenti, imposti dalla globalizzazione. Se si dovesse giudicare l'utilità di una lingua dal numero di quanti la parlano, il 96% delle lingue del mondo dovrebbero essere lasciate morire: sono parlate da appena il 3% degli abitanti del pianeta. Ovvero: il 97% della popolazione umana parla il 4% delle lingue del mondo. Le altre non avrebbero più ragione di esistere. In particolare quelle 600 lingue, cioè il 10%, che sono note, ciascuna, a meno di cento persone. Ma anche le lingue con le quali s'intendono fra loro poche decine di individui in due minuscole isole della Polinesia sono depositarie di valori che potranno essere utili. Perciò scoppia periodicamente la guerra delle lingue. E come gli ecologisti non accettano la distruzione della diversità biologica, i linguisti si oppongono alla fine incombente sulla diversità deg li idiomi. Sperano di poter ottenere risultati migliori rispetto ai biologi e ai botanici: le specie morte non possono essere risuscitate o rianimate, le lingue sì. Alcune di esse sono tornate in vita dopo secoli. Il caso più famoso è quello dell'ebraico, ridiventato una lingua viva della Palestina alla fine dell'Ottocento, grazie a Ellezer Ben Yehuda (1858-1922) e oggi parlato in Israele. In tempi più recenti, nel Regno Unito, è stata riesumata la lingua della Cornovaglia: nel 1777 era morto l'ultimo inglese che la parlava, ora la parlano in duemila e la insegnano ai loro figli. Anche quando la sorte di una lingua è segnata, vale la pena di provare a rianimarla: la lingua rama, in Nicaragua, non è risuscitata ma ora i ragazzi ne conoscono molte parole, sanno che era una vera lingua, e così non pensano più che i loro antenati erano dei primitivi. In Guatemala, si trovano libri illustrati che traducono in lingua maya scene con aeroporti. In generale, in America latina, i bambini che imparano la lingua materna (nativa) sono in grado di apprendere, poi, più facilmente lo spagnolo. La trasmissione dai genitori ai figli è, secondo alcuni linguisti, la vera prova della vitalità di un idioma; ha molta più importanza del numero di coloro che lo parlano. C'è una buona ragione per salvare un idioma quando anche un solo individuo lo parla. E allora questo idioma va studiato nei suoi aspetti lessicali e grammaticali. I linguisti sono perseveranti come gli entomologi. Anche quando è arduo lavorare su uno scacchiere linguistico molto articolato, come quello dell'isola di Malekula, nella Melanesia, che su una superficie di duemila chilometri quadrati vanta la presenza di oltre trenta lingue. Nessuna lingua è destinata a vivere sempre, e gli studiosi lo sanno. Come le specie vegetali e animali, anche le lingue nascono, crescono (cioè si diffondono), deperiscono e muoiono. Le ragioni storiche sono tante. Spesso il fattore determinante è la violenza esercitata sulle minoranze lingui stiche per privarle della loro identità e integrarle più facilmente. Un'evoluzione degli idiomi forzata dalle maggioranze linguistiche al potere. Nell'Ottocento, in Usa e in Australia, i bambini che parlavano una lingua nativa venivano puniti. Idem nel Galles e nell'Irlanda, dove venivano schiacciate le lingue celtiche. O nel Kossovo, dove il governo di Belgrado cercava di imporre il serbo agli albanesi. Ci sono lingue storiche, morte da millenni, che non si è più riusciti a interpretare. È il caso dell'etrusco, eliminato dai Romani, che invasero la penisola con il latino. Ma gli studiosi non ignorano il peso che ha l'economia, con la sua meno visibile ma irresistibile prepotenza. Alle popolazioni dell'Africa orientale è convenuto abbandonare le lingue tribali e parlare lo swahili, per agganciarsi allo sviluppo e inserirsi in un mondo più ampio. I Paesi europei sono sempre più preoccupati per le loro lingue: già oggi il solo idioma comune nel Vecchio continente è l'inglese. E potrebbe, alla fine, sostituire gli altri, e non solo in Europa (nelle transazioni economiche, lo ha già fatto). L'atlante mondiale delle lingue continua a collocare l'inglese al secondo posto, dopo il cinese. Ma che cosa accadrà fra qualche decina di anni, quando le Tigri asiatiche saranno diventate molto più temibili? Limitandosi ai rapporti demografici, l'atlante piazza l'inglese dietro il cinese, l'indi-urdu e l'arabo, al quarto posto che dovrà dividere con lo spagnolo.