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Elogio dell'inquietudine

di Francesco Lamendola - 19/09/2007

 

 

Tornando a casa, stasera, abbiamo assistito allo stupendo spettacolo, donatoci gratuitamente dalla natura,  di un cielo temporalesco alla El Greco. Da una parte, nuvoloni scurissimi che galoppavano e si accavallavano gli uni sugli altri, sino a formare una cappa quasi nera, impressionante; dall'altra, un azzurro indescrivibile, purissimo, solcato da poche nuvolette che il sole al tramonto bordava d'oro, mentre l'orizzonte si andava tingendo, dietro la linea già cupa dei monti, di una serie di delicatissime tonalità dal giallo al verde all'indaco. Il pomeriggio era stato afoso, opprimente; l'umidità si era stesa come un velo sulle cose e provocava un senso di disagio, quasi di soffocamento. Ora che il crepuscolo sta scendendo lentamente su questa giornata di un tardo settembre che pare ancora estate, un vento gagliardo si è levato e spazza le fronde degli alberi che si agitano e si scuotono fremendo, stormendo come se una forza prodigiosa le avesse afferrate dall'interno e si fosse aperta un varco sino al centro del loro essere.

Ecco: questa, forse, è l'inquietudine: lo scuotersi e il fremere degli enti quando li afferra la sublime nostalgia dell'essere; il vento gagliardo che spazza l'afa stagnante e irrompe sulle cose come un soffio di vita nuova; lo squarciarsi delle nubi e l'apparire di un altro orizzonte, di un nuovo cielo e di una terra nuova, più fresca, più viva, come se fosse stata investita da un'ondata di amore e gratitudine; come questi abeti e questi platani che si piegano e si contorcono in una convulsione che è l'aspra sincerità e la gioia dolorosa della vita stessa.

A torto si guarda all'inquietudine come ad una condizione interiore preoccupante e potenzialmente pericolosa. Non parliamo, ovviamente, dell'inquietudine legata a circostanze contingenti e travagliate, per esempio al senso di colpa per una cattiva azione commessa, o all'incertezza per un evento minaccioso che ci viene incontro, o - ancora - alla difficoltà di prendere una decisione difficile, penosa, che ci vede obbligati a scegliere tra due mali. Parliamo invece dell'inquietudine come condizione esistenziale e legata a un'intima esigenza di cambiamento, di rinnovamento, di superamento, da una condizione chiusa e frustrante verso una di la libertà, apertura, realizzazione. L'inquietudine esistenziale è il segno di una intensa vitalità dell'anima, che non si accontenta della banalità del quotidiano e aspira a una meta degna dei suoi sforzi e dei suoi ardori (Giordano Bruno parlava di "heroici furori"). Grazie ad essa, la coscienza si pone di fronte al mondo e a se stessa in un atteggiamento di stupore, ma anche di insoddisfazione per i limiti di ciò che è abitudinario, per i sentieri ormai ben noti, per gli orizzonti ristretti e ormai troppo familiari;  e avverte una pungente nostalgia di ciò che sta oltre: non oltre questo o quell'oggetto particolare della nostra esperienza, ma oltre la nostra stessa condizione di persone inautentiche, spente, ingrigite. Essa è come un pungolo nella carne, che ci sprona a non sederci sulle comodità di quanto già riteniamo acquisito e ci sfida a osare, a buttarci, a lasciarci andare nella grande corrente dell'Essere, dalla quale proveniamo e alla quale aneliamo a fare ritorno. Inqueutm est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine: "inquieto è il nostro cuore finché non trova pace e riposo in Te, o Signore": così scriveva Sant'Agostino nelle Confessioni; e raramente un filosofo è riuscito a esprimere una tale densità di pensiero e di sentimento in una formula così efficace e sintetica.

 

Non si confonda l'inquietudine esistenziale con la nevrosi, con l'iperattivismo, con lo scomposto agitarsi, correre qua e là, mangiarsi le unghie, imbottirsi di sonniferi per riuscire a dormire, tempestare amici e conoscenti di telefonate per essere continuamente rassicurati su questo e su quello. La nevrosi è un'altra cosa: è una malattia della psiche che nasce da un groviglio di traumi, complessi, paure e insicurezze che avvertiamo come dei corpi estranei che c'ingombrano e dei quali vorremmo liberarci ad ogni costo. L'inquietudine, invece, è una malattia dell'anima, ma è una malattia provvidenziale; non riguarda determinati aspetti della nostra vita psicologica, ma investe la totalità della nostra coscienza; non agisce come un peso opprimente, come una maledizione incontrollabile; e non vorremmo, in fondo, liberarcene, perché avvertiamo che essa è tutt'uno con noi, con la parte migliore di noi stessi: la generosità, lo slancio idealistico, l'apertura, il dono, il coraggio, la ricerca di senso, la lotta per progredire, l'impulso a trascendere ontologicamente la nostra stessa natura.

L'inquietudine è la molla che ci proietta sempre avanti, al di là delle certezze prefabbricate, delle verità rassicuranti, delle formulette da prontuario a un tanto il chilo; ci strappa al nostro quieto vivere, ci schioda dal nostro mediocre desiderio di tirare a campare; ci scaraventa nell'arena, nel rischio, nel pericolo. Non in senso fisico: o, comunque, non per amore del rischio fisico: la pratica dei cosiddetti sport estremi nasce dalla noia ed è il rovescio della medaglia dello spirito borghese che tutto vuole etichettare, incasellare, normalizzare. L'inquietudine è amore del pericolo in senso esistenziale: perché ci spinge fin sul baratro di abissi che non conosciamo, ma oltre i quali intuiamo che deve trovarsi qualcosa capace di dare un senso al nostro tendere, al nostro interrogarci incessante, alla nostra stessa inquietudine. Chi pratica gli sport estremi vuole semplicemente uccidere la noia e, al tempo stesso, esorcizzare la paura della morte, reiterando estreme manifestazioni di coraggio. Chi è pungolato dall'inquietudine esistenziale, invece, sente l'angustia della finitudine e vorrebbe aprirsi una strada verso l'assoluto, verso l'Essere; non vuole esorcizzare nulla e non deve dimostrare niente a nessuno, né a se stesso, né agli altri: è protagonista e testimone solitario del proprio rischio, del proprio azzardo.

Certo, esistono tante forme d'inquietudine quanti sono gli esseri umani. L'animale (come osserva anche Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) non conosce questo sentimento. O forse no? Un cane che abbaia alla luna non manifesta anch'esso, a suo modo, la propria inquietudine?  Sia come sia, esistono diverse maniere di vivere l'inquietudine esistenziale e ciascuna di esse, ovviamente, dipende dal livello della evoluzione spirituale di quella data persona. In un individuo spiritualmente poco evoluto, l'inquietudine porterà a galla le tendenze inferiori, le paure, i difetti, gli egoismi, le piccole astuzie per aggirarla o per eluderla. Poiché essa è un sintomo, noi possiamo anche ignorarla: non siamo obbligati a darle ascolto. Possiamo anche stordirla con l'acool, il sesso, la droga; possiamo ridurla al silenzio sommergendola sotto ritmi febbrili di superlavoro; possiamo beffarla sfogando il nostro malessere in bizze e capricci, tormentando il prossimo, ingegnandoci a complicare le cose semplici.

L'inquietudine è una sfida che sollecita le persone mature, abituate a  vivere nella dimensione dell'essere e non in quella dell'avere; che le obbliga a non adagiarsi mai sugli allori, a proseguire sempre il cammino solitario del perfezionamento spirituale; a sforzarsi di dare il meglio di sé senza giocare al risparmio, senza badare a spese. Nelle persone predisposte alla generosità, all'apertura, al dono, nonchédotate di spirito di sacrificio, l'inquietudine è lo strumento capace di stimolarle a dare il meglio di sé in un vasto progetto di amore universale; nelle persone abituate al calcolo, al nascondimento, al compromesso, essa si riduce a svolgere la funzione di cattiva coscienza e di sterile rovello interiore. Infatti l'inquietudine è una prova, un vaglio, un setaccio: serve a dividere il frumento dalle erbacce, le anime che aspirano alla nobiltà da quelle che si compiacciono di meschinità e bassezza. L'inquietudine è un marchio di nobiltà per le anime nobili (e tu, ateo nobilmente pensoso, scriveva padre David Maria Turoldo); ma è una forma di nevrosi e un inutile tormento per le anime grette ed egoiste. Per l'anima malata, l'inquietudine è una malattia che si aggiunge alle altre. Per l'anima sana e forte, è una sfida a mettersi in gioco, una finestra spalancata sull'Essere.

Se è una finestra, essa è anche una possibilità. L'inquietudine, di per sé, non rende né migliori né peggiori coloro che ne sono afferrati; essa apre degli scenari nuovi e mette in gioco delle forze dello spirito che erano rimaste latenti. Il suo insorgere costituisce un richiamo, il richiamo delle lontananze, delle altezze. Il corvo ne sarà spaventato; ma l'aquila se ne sentirà vibrare tutta, ricorderà di avere un paio d'ali possenti, e si lancerà dalla vetta della montagna che, sino allora, gli era parsa una disperata prigione.

Tuttavia, se è una possibilità, l'inquietudine è anche la possibilità del nulla. La sua sollecitazione può non venire accolta, oppure può essere degradata a ossessione che si compiace di sé stessa. Il mondo è pieno di ossessionati che non hanno saputo completare il movimento della coscienza, che dell'inquietudine non hanno saputo farsi un trampolino per spiccare il volo verso le altezze. La letteratura contemporanea è piena di queste figure di ossessionati, uomini e donne non-morti ma che non sono mai riusciti ad essere vivi. Un buon esempio di un simile tipo umano è offerto dal romanzo di Carson McCullers Riflessi in un occhio d'oro, magistralmente portato sullo schermo dal regista John Huston nel 1967.

Quando l'inquietudine si accende in un cuore generoso e lo spinge a osare la grande avventura, essa prefigura, mediante la nostalgia che ne scaturisce, lo stadio più alto del movimento ascensionale dell'anima: quello della speranza. L'inquietudine nasce dalla delusione del desiderio che non trova adeguata soddisfazione nei singoli oggetti finiti; e la nostalgia d'infinito, che da essa si origina, apre la strada alla speranza, attesa fiduciosa di quella pienezza e di quell'appagamento profondo che solo nel ritorno all'Essere gli essenti possono assaporare. Il cuore tiepido, che non ha mai bruciato d'inquietudine, che non si è mai acceso di nostalgia, non arriva nemmeno a capire la bellezza e la profonda necessità di questo movimento. Se non ha mai provato la divorante nostalgia dell'Essere, vuol dire che non è mai salito in coperta, dove soffiano liberi i venti, a contemplare l'orizzonte marino disseminato di nubi, a respirare profondamente l'odore di salso delle vastità equoree. Vuol dire che è sempre rimasto acquattato in un angolo buio della stiva, nell'odore di muffa e di stantio, dove giunge appena un'eco del possente fragore delle onde e dove le ragnatele tessono indisturbate la tela fra vecchie cose logore e polverose.