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L’egoismo globale e il dono comunitario

di Sergio Terzaghi - 18/12/2005

Fonte: L'Insorgente

 

 

L’impersonalità è la forma del Capitale. Il denaro è di tutti e di nessuno: per questo tutti lo vogliono. Di conseguenza, la logica del “Si vende/Si compra” ha alimentato un movimento dissolutivo d’ogni stile comunitario ed ha assoggettato l’immaginario umano a quello della merce. L’homo oeconomicus (l’uomo economico), attore degli spazi mercantili, si occupa dell’utile, riducendo l’individuo alla stregua di un oggetto, di un utilizzabile. Invero, egli si prende cura delle cose da procurare ad altri individui, in funzione della mera logica del profitto. La sua apertura al commercio globale è proporzionale alla chiusura verso l’altro. L’uomo d’oggi pare quindi destinato ad incarnare uno stile anonimo, un’esistenza inautentica, priva di comprensione, perché come sostiene lo psichiatra e antropologo Alexander Mitscherlich, “la società di massa, crea un gigantesco esercito di fratelli e sorelle rivali”. Nel regno del “Si vende”, nel mercato generalizzato, l’homo oeconomicus è tutti e nessuno, poiché è ciò che sono tutti: merce in vendita.

Questo modello antropologico, tanto impersonale quanto dominante, storico precursore dell’homo consumans (il consumatore n.d.r.), si muove tra contratti e ricatti. Nell’economia di mercato le transazioni appaiono come l’unico mezzo per muovere il Capitale ed appropriarsene. In relazione a ciò, le qualità personali dell’acquirente e del venditore appaiono del tutto non pertinenti. Tutto questo è estraneo ai sistemi olistici, i quali ritengono il bene comune superiore alla somma dei singoli egoismi individuali. Questi esempi di comunità si fondano sul dono, non sul lucro, poiché in essi ciò che importa è il “fare sistema” tra le persone. Aver cura dell’altro affinché anch’egli si possa assumere le proprie cure: questa la logica della reciprocità. Ai popoli, che ancora vivono secondo queste usanze originarie, non é lesinata l’etichetta di barbari o sottosviluppati dalla civilizzazione occidentale. Se la favola del “buon selvaggio” non fa paura a nessun borghese, il tipo dell’uomo “sociale e politico” occupa, a detta degli evoluzionisti, il primo livello della “catena alimentare”.

L’homo oeconimicus, così preso dal calcolo razionale e dall’individualismo, non teme colui che è pronto a donarsi all’altro in nome del Bene comune: lo considera un concorrente già sconfitto, poiché “si dice” che l’economia oggi primeggi sulla politica. Il modello del “furbo” dominante ed onnipotente, grazie al suo complesso di superiorità, definisce l’uomo generoso un “ingenuo”, senza conoscerne il vero significato. Infatti, ingenuus, deriva dal latino in-gignere ossia nato dentro, nativo, indigeno. E l’homo donans (il generoso che dona se stesso n.d.r.) si mette in forma, dandosi leggi interiori, per poi dare una forma al mondo. Egli è nel mondo e aperto ad esso, interroga se stesso, per cercare il senso profondo, primordiale dell’essere. Egli cerca di organizzare il mito, riscoprendo simboli archetipici.

Il bisogno spirituale che quei simboli andavano a realizzare, ora non può essere più soddisfatto se non ritrovandoli là dove da sempre risiedono, cioè nell’inconscio. A differenza del tipo mercantile, l’homo donans cede al richiamo della riscoperta di ciò che egli autenticamente è, e non può non essere. Non considera le leggi del mercato, sebbene le conosca, non è complice di meccanicismi, ma pone in essere un’operazione dispendiosa, un’esperienza di sacrificio. Inizia così ad amare il suo destino di donatore perché, affrancato da possessioni, fascinazioni e incantesimi, è interiormente libero.

In latino, il nexum, ossia l’asservimento, si contrappone al munus (dono n.d.r.). Non a caso, secondo Cicerone, l’ingenuus era l’uomo libero. E l’ingenuo crede nella necessità di organizzare il lavoro sulla cooperazione, di garantire una protezione sociale effettiva e di creare un nuovo ethos (costume n.d.r.), senza prescindere dal pathos (sentimento n.d.r.). La virtù di donare, quindi, sarebbe la sola giustificazione alla “ricchezza” condivisa. Al contempo, l’homo oeconicomicus, pronto a calpestare l’altro, pur di trarre dalla vita il massimo interesse, continua a considerare l’ingenuo un tipo “fuori dal mondo” o addirittura uno stupido, al pari di quanto accadeva nella finzione del teatro classico del Bel Paese. È ignorata, poiché esula da regole economiche, la possibilità che il “generoso indigeno”, movendosi negli interstizi della società, talvolta fingendosi anche grande solitario, tessa reti di rapporti umani profondi, forgiati nel crogiuolo della reciprocità sociale e condivisione identitaria.

L’homo donans, della gratuità, del disinteresse, è un simbolo d’innocenza, non di imbellicità. È l’attore di un patto sincero con l’altro, proprio quando lo spirito del tempo invita a fare tutto per essere complici di un sistema malato, a far finta di stare insieme ed a farlo solo per vincere. In un'epoca in cui l’individualismo intacca anche le cose più alte, nascono spontaneamente nuove forme associative. Pertanto, il «primitivo donatore» non può che essere politico e, in quanto tale, non può che auspicare nuovi associazionismi che subordinino i «valori» del mercato. È il tempo delle reti, occorre tessere e decidere. È tempo di tagliare, in senso augurale, il nastro della virtù che dona, simbolo della riscossa degli ingenui.