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Rudolf Bultmann, la religione e l'immagine mitica del mondo

di Francesco Lamendola - 22/09/2007

 

Rudolf Bultmann (WIEFELSTEDE presso Oldenburg,1884- Marburg 1976) è una delle maggiori figure del protestantesimo tedesco del XIX secolo; figura prestigiosa e discussa, che è passata alla storia della cultura come quella del "teologo della demitizzazione". Libero docente a Marburgo, Breslavia e in altre università tedesche, a partire dalla pubblicazione del suo libro Nuovo Testamento e mitologia (nel 19141, in piena seconda guerra mondiale) egli sostenne che il racconto evangelico è avvolto da un involucro mitologico dovuto alla mentalità esistente in Palestina ai tempi di Gesù Cristo, e che esso non è affatto essenziale per comprendere il kerygma, ossia l'annuncio della Buona Novella. Bultmann, peraltro, non sostiene che tale involucro mitologico debba essere distrutto, ma piuttosto che lo si debba collocare storicamente e ricondurlo, soprattutto, all'intenzionalità che sta dietro di esso, in modo da riportare l'annuncio alla sua dimensione originaria. Noi, uomini di un'epoca scientifica e non più mitologica, non possiamo assolutamente accettare, insieme al kerygma, anche l'immagine mitica del mondo che il Nuovo Testamento ci presenta: attesa imminente della fine dei tempi, credenza in un ordine di entità soprannaturali (angeli e demoni) continuamente interferenti con la sfera dell'umano; ingresso della morte nel mondo come frutto del peccato di Adamo; catastrofe cosmica che porterà al Giudizio Finale; e così via. Non ci si può chiedere, in nome della fede nei contenti dell'annuncio, di prendere alla lettera anche la veste mitologica in cui quell'annuncio è stato redatto dagli autori del Nuovo Testamento, San Paolo in primis; sarebbe assurdo e impossibile. La nostra mentalità scientifica si ribella a una tale idea, né, del resto, un simile "sacrificio" della ragione è in alcun modo necessario, poiché il kerygma è tutt'altra cosa dal modo, storicamente determinato, in cui esso ci è stato tramandato.

Significativo è il fatto che Bultmann, a dispetto (o forse proprio in conseguenza) di tali convinzioni, guardasse con estremo sospetto alla disponibilità di una parte della teologia cattolica a confrontarsi con  la "teologia naturale" perchè, a suo parere, una sola è la via che conduce a Dio: quella della fede. Rigidamente luterano in questo atteggiamento di "salvezza per mezzo della sola fede", egli si mostra anche allievo del pensiero esistenzialista (era stato compagno di studi di Karl Jaspers) nel rifiutare una fede che riduca Dio alla misura del mondo, cioè del relativo. Discepolo ideale di Kierkegaard, per lui Dio rimane l'assolutamente Altro, che la ragione umana non può "natruralizzare" a meno di falsificarlo.

Che cosa rimane, allora, della sostanza del kerygma, una volta che l'involucro mitico sia stato tolto dai Vangeli e dagli altri scritti del Nuovo testamento, specialmente dalle Lettere paoline, e ricondotto alla sua nuda essenziualità? O meglio, che cosa rimane di significativo per l'uomo d'oggi? Rudolf Bultmann non ha dubbi: esistenzialisticamente, quel che rimane è l'invito agli uomini a rinunciare all'idea di auto-progettarsi nel mondo per autoprogettarsi, invece, nell'amore e nell'obbedienza verso Dio.

Ma cediamo la parola allo stesso Bultmann che, in una pagina ammirevole per chiarezza concettuale e concisione stilistica, riassume le sue convinzioni a proposito del problema del "mito" presente negli scritti neotestamentari (Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia. Il problema della demitologizzazione del messaggio neotestamentario, in Il dibattito sul mito, Roma, Silva ed., 1969, pp.3-15).

 

"L'immagine neotestamentaria del mondo è mitica. Il mondo è visto diviso in tre piani: al centro si trova la terra, al di sopra il cielo, al di sotto gli inferi. Il cielo è la dimora di Dio e delle creature celesti, gli angeli; il mondo inferiore è appunto l'inferno, il luogo del tormento. Pure la terra, però, non è solo il luogo degli avvenimenti naturali quotidiani, della provvidenza e del lavoro, ordinato e regolato: è anche il teatro dell'azione di potenze sovrannaturali, di Dio, dei suoi angeli, di Satana e dei suoi demoni. Le potenze sovrannaturali intervengono negli eventi naturali e nel pensiero, nella volontà, nell'azione degli uomini: i miracoli non sono fatti rari. L'uomo, infatti, non è padrone di sé stesso: i demoni possono possederlo, Satana può ispirargli pensieri malvagi, ma anche Dio può dirigere il suo pensiero  e la sua volontà, può fargli avere visioni celesti, può fargli udire la sua parola, che comanda e che consola, può concedergli la forza soprannaturale del suo Spirito. La storia non procede con andamento continuo, uniforme, perché riceve moto e direzione dalle forze soprannaturali.  Il nostro eone è sottoposto alla potenza di satana, del peccato e della morte (essi sono appunto considerati 'potenze') e corre verso la propria fine, anzi verso una fine imminente, che sarà consumata in una catastrofe cosmica. Immediatamente prima dello 'spirare' del tempo della fine, si situano la venuta del giudice celeste, la resurrezione dei morti e il giudizio: di salvezza o di perdizione.

"A questa immagine mitica del mondo corrisponde il modo con cui viene rappresentato l'evento della salvezza, che forma il vero contenuto della predicazione neotestamentaria. Questa predicazione si esprime in termini mitologici: è giunto il tempo della fine, 'quando il tempo fu compiuto' Dio mandò il suo Figliolo. Questi, essere divino preesistente, appare sulla terra come uomo; la sua morte sulla croce, che egli subisce come un peccatore, costituisce l'espiazione dei peccati degli uomini; la sua risurrezione segna l'inizio della catastrofe cosmica mediante la quale viene annientata la morte, introdotta nel mondo da Adamo; le forze demoniache che si esercitano nel mondo hanno perduto la loro potenza. Il Risorto è stato innalzato al Cielo, alla destra di Dio, è stato fatto 'Signore' e 'Re'. Egli ritornerà, sulle nuvole del cielo, per condurre a compimento l'opera della salvezza; allora avrà luogo la risurrezione dei morti e il giudizio, e il peccato, la morte e ogni sofferenza saranno vinti. Tutto questo avverrà anzi tra breve: Paolo pensa di vivere ancora egli stesso questo evento.

"Chi appartiene alla comunità di Cristo, per mezzo del battesimo e della santa cena, è unito a lui e se non agisce indegnamente è sicuro della propria risurrezione a una vita redenta. I credenti hanno già la 'caparra', cioè lo Spirito che agisce in loro e attesta che sono figli di Dio e garantisce la loro risurrezione.

"Quanto sopra è tutto un discorso mitologico e i singoli motivi si lasciano facilmente ricondurre alla mitologia contemporanea dell'apocalittica giudaica e del mito gnostico della redenzione. In quanto discorso mitologico, non è credibile per l'uomo di oggi, perché  per lui l'immagine mitica el mondo non esiste più. La predicazione cristiana attuale si trova quindi di fronte a questo problema: quando fa appello  alla fede dell'uomo, lo invita a far propria la passata immagine mitica del mondo? Se questo è impossibile, si presenta allora il problema se il messaggio del Nuovo Testamento  sia vero indipendentemente dall'immagine mitica del mondo; il compito della teologia  sarebbe allora quello di demitologizzare  il messaggio cristiano.

"Può, la predicazione cristiana, pretendere dall'uomo di oggi che egli riconosca vera l'immagine mitica del mondo? Sarebbe assurdo e impossibile. Assurdo, perché l'immagine mitica del mondo, in sé, non è affatto un elemento tipicamente cristiano, è semplicemente un'immagine che si faceva del mondo un'epoca passata, non ancora formata dal pensiero scientifico. Impossibile,  perché non si può far propria una data immagine del mondo  con un atto di decisione: tale immagine è già sempre  condizionata, per l'uomo, dalla situazione storica  in cui vive. Ovviamente questa non è invariabile  e anche il singolo può contribuire a trasformarla. 

"Tuttavia egli può farlo solo nel senso che - sulla base di fatti che effettivamente gli s'impongano -, dimostrando l'insostenibilità dell'immagine tradizionale del mondo -  modifica tale concezione o ne abbozza una nuova.  L'immagine del mondo, ad esempio, può così modificarsi in seguito  alla scoperta copernicana oppure alla teoria dell'atomo ,o ancora nella misura in cui il romanticismo scopre  che il soggetto umano è più completo e più ricco di quanto si potesse desumere dalla concezione  illuministica del mondo o da quella idealistica, o infine per l'imporsi di una coscienza più viva del significato della storia e della nazionalità

"Certo. è perfettamente possibile che in una immagine mitica del mondo, ormai passata, vengano riscoperte verità andate perdute all'epoca dell'illuminismo; e la teologia ha tutto il diritto di impostare questo problema anche a proposito dell'immagine neotestamentaria del mondo.  Non è però possibile ripristinare con un semplice atto di volontà  un'immagine del mondo ormai passata - e soprattutto un'immagine mitica - dopo che tutto il nostro pensiero è stato ormai irrevocabilmente formato dalla scienza.  Una accettazione cieca della mitologia neotestamentaria sarebbe arbitraria; ed elevare tale pretesa a esigenza di fede significherebbe ridurre la fede  a opera - come Wilhelm Herrmann ha chiarito una volta per tutte, ci pare. La realizzazione di questa pretesa costituirebbe un 'sacrificium intellectus' estorto e chi vi cedesse sarebbe singolarmente diviso e insincero, perché sarebbe portato ad accettare per la sua fede, da un punto di vista  religioso, una immagine del mondo che egli invece nega nella sua vita. Il pensiero moderno, come la storia ce lo ha trasmesso, implica la critica all'immagine neotestamentaria del mondo.

"Esperienza del mondo e dominio sul mondo si sono talmente sviluppati, come scienza e come tecnica, che nessuno può seriamente conservare l'immagine neotestamentaria del mondo, anzi nessuno la conserva. Che senso ha, oggi, confessare il Cristo «disceso nel regno dei morti» o «salito al cielo», quando chi pronuncia queste formule non condivide l'immagine mitica del mondo a tre piani che ad esse soggiace? Tali espressioni possono essere usate in buona coscienza solo se è possibile spogliare la verità che esse racchiudono  dalla forma mitologica in cui è avvolta - qualora tale verità ci sia. Questo dunque è il problema  teologico che va posto. Nessun uomo adulto si figura Dio come un essere che vive in alto, in cielo; il 'cielo' nel senso antico, non esiste più per noi, così come non esistono più gli inferi, il mitico regno dei morti, al di sotto del terreno su cui poggiano i nostri piedi. Ecco allora liquidati i racconti relativi all'ascensione di Cristo al cielo o alla sua discesa nel soggiorno dei morti; ecco liquidata l'attesa della venuta del 'Figlio dell'uomo' sulle nuvole del cielo e del credente afferrato e portato su nell'aria, incontro a lui (1 Tess. 4, 15 ss.).

"La conoscenza delle forze e delle leggi della natura ha liquidato la credenza negli spiriti e nei demoni. Per noi gli astri non sono che dei corpi cosmici il cui movimento è regolato da leggi cosmiche: per noi essi non hanno alcuna natura demoniaca, capace di asservire l'uomo. Se essi hanno un influsso sulla vita umana, ciò avviene secondo un ordine intellegibile e non è conseguenza della loro malvagità. Malattie e guarigioni hanno cause naturali e non dipendono dall'azione di demoni o dalla loro esorcizzazione. I miracoli del Nuovo Testamento sono quindi liquidati in quanto miracoli e chi vuole salvarne la storicità  ricorrendo all'argomento che si trattasse di disturbi nervosi, di influssi ipnotici, di suggestioni, ecc. non fa che confermarlo. E se dobbiamo fare i conti con la presenza di forze a noi ancora sconosciute ed enigmatiche, negli avvenimenti fisici e spirituali, ci sforziamo di analizzarle e dominarle scientificamente. Anche l'occultismo si presenta come scienza.

"Non si può usare la luce elettrica e l'apparato radiofonico, valersi dei moderni mezzi medicinali e chimici in caso di malattia, e nello stesso tempo credere al mondo neotestamentario  di spiriti e di miracoli. E se qualcuno pensa di poterlo fare per sé stesso, deve aver ben chiaro che se afferma che questo è l'atteggiamento  della fede cristiana, rende così incomprensibile e assurdo il messaggio cristiano per i contemporanei.

"L'escatologia mitica viene anch'essa tagliata alla radice dal semplice fatto che la parusia del Cristo non ha avuto luogo a breve scadenza, come il Nuovo testamento l'attende, ma che al contrario  la storia del mondo è proseguita e - ogni persona ragionante ne è convinta - prosegue. Anche chi è convinto che il mondo a noi noto avrà termine nel tempo, si rappresenta pur sempre tale fine come il risultato di un'evoluzione naturale , come una fine attraverso catastrofi naturali, non come il mitico evento del quale parla il Nuovo testamento; chi poi, come il candidato nel presbiterio di Nöddebo, interpreta questo evento in base a teorie storico-naturali, procede senza saperlo alla critica del Nuovo testamento.

"Non si tratta però della critica che deriva dall'immagine del mondo fornitaci dalle scienze naturali, bensì della critica che scaturisce da come l'uomo moderno comprende se stesso.

"L'uomo moderno possiede la singolare, duplice capacità di concepire se stesso come natura o come spirito, distinguendo il proprio io autentico alla natura. In ogni caso egli si considera come un essere unitario che si attribuisce i propri sentimenti, il proprio pensiero, la propria volontà. Egli non concepisce se stesso così stranamente scisso come il Nuovo testamento vede scisso l'uomo, in modo che forze a lui estranee possano penetrare nella sua vita interiore. Egli attribuisce unità interiore alla propria condizione e al proprio comportamento, e definisce schizofrenico un uomo che si figuri tale unità scissa dall'intervento di forze demoniache o divine.

"Egli può evidentemente concepirsi come essere naturale dipendente, in base alle indicazioni della biologia e della psicanalisi, ma non per questo si considera preda di forze estranee da lui distinte; piuttosto, questa dipendenza è la sua natura autentica,, di cui egli s'impadronisce con la propria ragione, in modo da poter organizzare razionalmente la propria vita. Conosce la propria reale realtà spirituale ma è cosciente del condizionamento costante che rappresenta per lui la sua corporeità naturale; tuttavia distingue da questa il proprio io e ha coscienza della propria autonomia, di essere responsabile del proprio dominio sulla natura. In entrambi i casi gli è assolutamente estraneo e incomprensibile ciò che il Nuovo Testamento dice dello 'spirito' (πνεΰμα) e dei sacramenti. L'uomo che ha di sé una visione puramente biologica non comprende come nella chiusa compagine delle forze naturali possa penetrare ed essere operante un quid soprannaturale, il pneuma. L'uomo determinato da una concezione idealistica non comprende come un pneuma, che opera con una forza naturale, possa toccare e influenzare il suo atteggiamento spirituale. Egli sa di essere responsabile di se stesso e non comprende come nel battesimo possa essergli stato infuso un quid misterioso che da quel momento sarebbe divenuto il soggetto della sua volontà e dei suoi atti; egli non comprende come un pasto possa infondergli forza spirituale e che il partecipare indegnamente alla mensa del Signore ossa comportare la malattia del corpo e la morte (1 Cor. 11, 30), a meno che non ricorra alla suggestione per spiegarlo; neppure comprende, poi,, come qualcuno possa farsi battezzare per dei morti (1 Cor., 15, 29).

"Non è necessario parlare delle espressioni particolari che la concezione moderna del mondo ha avito nell'idealismo e nel naturalismo. Può infatti essere teologicamente rilevante solo quella critica al Nuovo testamento che scaturisce necessariamente dalla situazione dell'uomo moderno. Nella situazione attuale non è però inevitabile una concezione biologica del mondo. Se qualcuno opta per essa, all'interno della situazione attuale, è questione di scelta personale. Ora, per la teologia, è rilevante solo questo problema: quale fondamento può avere l'optare per una concezione rigorosamente biologica del mondo? Qual è la base comune cui si può porre il problema di questa scelta? Questa base è ormai, da un lato, l'immagine del mondo costituitasi sulla base delle scienze naturali; e, dall'altro, il modo con cui l'uomo comprende se stesso, considerandosi conclusa unità interiore, non più esposta all'influsso di forze sovrannaturali.

"Inolre, nell'uomo che pensa in termini naturalistici né quello che pensa in termini idealistici possono concepire la morte come punizione del peccato. Per loro, essa è un fatto naturale, semplice e inevitabile; mentre per il primo essa non comporta alcun problema, per il secondo invece il problema della morte sorge proprio dal fatto che essa è un fatto naturale: che non scaturisce dalla mia coscienza o dal mio intelletto, ma anzi li distrugge. Ecco dunque la contraddizione: l'uomo, che è un essere naturale, distinto dall'animale o dalla pianta, è pur tuttavia legato alla natura: è generato, cresce e muore come un animale. Egli non può concepire questo come una punizione del suo peccato, perché è già soggetto alla morte prima ancora di averlo commesso. Né può ammettere di essere condannato ad essere legato al destino mortale di essere naturale in seguito al peccato del suo progenitore; egli infatti conosce il peccato solo come atto responsabile, sicché il peccato originale, inteso come malattia che continua ad agire con forza naturale, è per lui un concetto immorale e assurdo.

"Appunto per questo egli non può neppure ammettere la dottrina della espiazione vicaria mediante la morte di Cristo. Come può lamia colpa essere espiata dalla morte di un innocente (se pure si può parlare di un innocente)? Quali concetti primitivi di peccato e di giustizia, e di Dio, stanno alla base di tale concezione? Se l'idea della morte espiatrice di Cristo va intesa alla luce della concezione sacrificale, che mitologia primitiva è quella secondo la quale un essere divino, divenuto uomo, espia con il suo sangue i peccati degli uomini! E se la si spiega in termini giuridici, per cui nella vertenza fra Dio e l'uomo le esigenze di Dio sarebbero soddisfatte dalla morte di Cristo, allora anche il peccato non potrebbe avere altro significato che giuridico, trasgressione esteriore di un comandamento, e verrebbero eliminate le norme etiche. Ancora: se Cristo, figlio di Dio, era l'essere divino preesistente, che significa per lui accettare la morte? Per chi sa che dopo tre giorni risusciterà, morire non può evidentemente significare molto.

"Così pure l'uomo moderno non può comprendere la risurrezione di Gesù come un fatto che ha liberato una potenza vitale che l'uomo può ora appropriarsi mediante il sacramento. Per chi pensa in termini biologici, tale discorso è del tutto privo di senso, perché per lui il problema della morte non esiste.  Per chi pensa secondo categorie idealistiche, naturalmente, ha senso  parlare di una vita che non è soggetta alla morte ; ma per lui è inimmaginabile che la possibilità di tale vita  sia data dal fatto che un morto sia stato ridestato  alla vita fisica. È l'azione di Dio a manifestarsi  quando egli crea in tal modo vita per gli uomini,  in intima e inconcepibile connessione con un fatto naturale. Egli potrebbe scorgere l'azione di Dio solo in un fatto  che accada davvero nella sua vita e la trasformi.  Ma egli non può concepire come azione che concerna proprio lui  un fatto naturale miracoloso come la risurrezione  di un morto - a prescindere al carattere incredibile di questo fatto.  E se il pensiero gnostico sostiene che il Cristo morto e risorto  non era un semplice uomo, ma un Dio-uomo e che la sua morte e risurrezione non costituiscono un fatto isolato  concernente la sua persona, ma un evento cosmico  nel quale tutti noi siamo implicati, l'uomo moderno  può solo a fatica entrare in quest'ordine di pensieri e comunque  non può applicarlo a sé stesso, poiché in tale concezione l'io dell'uomo  è concepito come elemento naturale e l'evento soteriologico come fatto naturale. Ma allora l'idea di Cristo  preesistente come essere celeste  e quella parallela della propria ascesa a un mondo di luce celeste , in cui il proprio io riceva vesti celesti, un corpo spirituale, non solo non possono essere neppure concepite razionalmente dall'uomo moderno, ma non gli dicono nulla.

"Egli infatti non comprende che la sua salvezza debba consistere in una situazione simile, nella quale  la sua vita fiorirebbe nella sua realtà più vera.

"Da questa dissoluzione critica della mitologia neotestamenaria consegue la eliminazione critica dell'intera predicazione neotestamentaria?

"Una cosa è certa: non la si può salvare per selezione  o per riduzione. Non si può, per esempio, rinunciare all'idea che la partecipazione indegna  alla mensa del Signore rechi pregiudizio alla salute fisica, oppure al battesimo per i morti, e d'altro canto tener ferma  l'idea che un elemento materiale abbia un effetto  spirituale. Infatti tutte le affermazioni  neotestamentarie relative al battesimo e alla santa cena  sono inserite in un medesimo mondo concettuale  ed è appunto questo mondo che noi non possiamo accettare. (…)"

 

Abbiamo riportato per intero questa lunga pagina di Rudolf Bultmann per evitare che, riassumendola o tralasciandone alcuni passaggi, potesse andar perduto qualche anello della catena del suo ragionamento.

È dunque il tempo di riflettere sulla provocazione che il teologo tedesco ha inteso lanciare con la pubblicazione di Nuovo Testamento e mitologia e chiederci se egli, proponendo di abbandonare la "veste" o "involucro" del messaggio neotestamentario, costituito dall'immagine mitica del mondo propria degli Ebrei palestinesi in quelle date circostanze storiche, abbia realmente colto nel segno e se abbia compiuto un'operazione di chiarificazione dolorosa, ma necessario; oppure se non abbia commesso qualche grave errore di fraintendimento e, sforzandosi di procedere con la lampada accesa per fare luce, nella notte, agli altri, non sia invece scivolato, per così dire, nel fosso, trascinando con sé quelli che lo seguivano.

Innanzitutto,  prendiamo atto del fatto che egli identifica senz'altro l'età moderna come il tempo della scienza e della tecnica e quella antica, al contrario, come l'età del mito. Egli non sembra rendersi conto minimamente che, così facendo, aderisce in maniera acritica agli stereotipi e all'ideologia che la modernità ha costruito sulla propria immagine, ossia a una visione neo-illuminista e neo-positivista secondo cui il progresso scientifico permetterebbe all'umanità di compiere un sostanziale progresso rispetto ai modi di pensare tipici di una mentalità infantile, quella, appunto, mitologica. Ma chi si trova all'interno di un determinato paradigma culturale, Thomas Kuhn l'ha mostrato chiaramente, non è in condizioni tali da poter comprendere, e tanto meno giudicare, coloro che si trovano all'interno di un altro paradigma. La medicina occidentale moderna non può comprendere né giudicare, tanto per fare un esempio, la medicina degli sciamani Hopi del Nuovo Messico o di quelli Yacuti della Siberia orientale, perché tutti i sistemi di riferimento, a cominciare dal linguaggio (e dal rapporto con le cose che esso sottende) sono fra loro totalmente eterogenei e paragonabili, direbbe Leibniz, a tante monadi "senza porte né finestre", cioè impossibilitati a comunicare reciprocamente. Così pure, l'idea di un cosmo vivo, armoniosamente ordinato e spiritualmente collegato alla realtà terrena e agli esseri viventi, tipica dei sacerdoti-astrologi dell'antico Egitto o dell'antico Messico (per non parlare degli studiosi europei dell'antichità, del Medioevo e dello stesso Rinascimento) giace su un piano talmente diverso da quello in cui ci collochiamo noi oggi, con la nostra visione scientifica riduzionista, meccanicista e materialista, che non esiste alcuna possibilità di scambio e di comprensione fra essi.

Ora, la domanda è: sulla base di quale "certezza" si può affermare che l'immagine del mondo propria della modernità è quella vera, mentre l'immagine del mondo propria degli antichi era difettosa o, comunque, poggiante su basi non veritiere? Questo è ciò che sosteniamo noi moderni: ma non è possibile essere contemporaneamente giudici di una questione e parte in causa di essa. Ci vorrebbe un arbitro super partes: ma nessun paradigma può capire sino in fondo i contenuti concettuali di un altro paradigma. È molto probabile, per non dire certo, che i nostri discendenti della fine del terzo millennio guarderanno a molte nostre certezze "scientifiche" con un misto di stupore e commiserazione, proprio come facciamo noi con il paradigma aristotelico-tolemaico e, ancor più, con quello dei popoli "primitivi".

In secondo luogo, Bultmann mostra di aderire, nella maniera più acritica e addirittura più inconsapevole, a tutti i pregiudizi propri dello scientismo moderno, identificandosi senza margini e senza residui in un razionalismo presuntuoso che chiude ogni finestra sul soprannaturale. Il teologo scompare e al suo posto si insedia uno scienziato di stretta osservanza riduzionista, per il quale spiriti e demoni, miracoli e resurrezione sono tutti concetti assurdi e incomprensibili. Ci si può domandare, a questo punto, che cosa resti non solo del racconto evangelico, ma del kerygma in quanto tale, una volta che tutta la dimensione trascendente sia stata spazzata via o, come dice disinvoltamente Bultmann, "liquidata"; che cosa resti del cristianesimo e, anzi, che cosa resti di una qualsiasi religione, posto che ogni religione si fonda su un rapporto dell'uomo con una forza spirituale a lui superiore. Ma se un alimento materiale non può avere effetti spirituali; anzi, se si riduce l'ostia consacrata a un qualsiasi alimento materiale, che cosa resterà mai del cristianesimo? Il suo messaggio ne viene colpito al cuore: esso non può resistere a una tale impostazione, che svuota dall'interno la sua dimensione trascendente.

In terzo luogo, dobbiamo osservare che Bultmann parla continuamente della dimensione mitologica dell'Antico Testamento, ma sembra non essere sfiorato dal benché minimo sospetto che anche la visione scientifica propria della modernità è una visione mitologica. Su questo, crediamo che una parla convincente - e definitiva - sia stata detta dal filosofo Feyerabend: la scienza moderna è una credenza, esattamente come lo è la medicina hopi o l'astrologia maya. Aderire all'una piuttosto che all'altra, riporre un contenuto di verità nell'una piuttosto che nell'altra è un fatto di gusti personali (oltre che, naturalmente, di paradigmi). Il fatto che gli Stati occidentali moderni abbiano elaborato una legislazione che punisce col Codice penale chi "abusa" della professione medica, anche se guarisce i pazienti come e meglio dei dottori laureati in medicina, è un problema che riguarda il nostro sistema di credenze, non il contenuto di verità - o di efficacia - dei due diversi tipi di medicina. In India, centinaia di milioni di persone si curano con la medicina naturale dell'Ayurveda, credono nella sua efficacia e, statisticamente, non si può dire che ottengano risultati positivi in misura minore dei pazienti occidentali, che si affidano alla medicina chimica, di sintesi, all'impiego massiccio della chirurgia, al radium, eccetera. In Brasile, il "guaritore" José Arigò operava centinaia di pazienti a mani nude o con un coltello da cucina non sterilizzato, e le guariva, il tutto - per anni - sotto gli occhi di innumerevoli testimoni. Più volte processato, ha continuato a operare per il bene di quelli che chiedevano il suo aiuto: e la scienza "ufficiale", invece di chiedersi, con umiltà, cosa avrebbe potuto imparare dai suoi poteri eccezionali, ha preferito ignorarlo o denigrarlo, chiudendosi a riccio nella propria presunzione di sapere.

Un discorso analogo si potrebbe fare per le possessioni diaboliche, che tanta parte hanno nei racconti del Nuovo Testamento - Gesù interviene in numerosi casi per esorcizzare i posseduti, a richiesta dei loro parenti - e che Bultmann, senz'altro, "liquida" come zavorra di una concezione del mondo che non ci appartiene più e cui non possiamo, in buona fede, credere. Al massimo, è disposto a concedere che "l'occultismo è oggetto di ricerca scientifica", sottintendendo che esso può essere studiato esattamente con gli stessi metodi e strumenti delle scienze naturali e negandone, così, il carattere radicalmente eteronomo rispetto alla realtà sensibile. È, né più né meno, la posizione di Piero Angela e dei membri del C. I. C. A. P., per i quali non esiste mistero che la scienza non possa svelare, per il semplice fatto che non esistono piani di realtà diversi da quello dei cinque sensi e delle quattro dimensioni (le tre dello spazio più quella del tempo) in cui noi ci muoviamo - cosa che scienziati come Einstein hanno da tempo mostrato essere illusoria. Ma c'era bisogno di un teologo per dire simili piatte banalità? Nossignore: quando Gesù si cimenta, a tu per tu, con un demonio, o con una legione di demoni che hanno preso possesso di un essere umano, non ci troviamo di fronte a un racconto mitologico, ma a un racconto storico. Certo, ciascuno di noi è libero di interpretarlo come gli pare: ma, se si toglie alla radice la possibilità che angeli e demoni entrino nella nostra vita, che cosa rimane del kerygma? Che cosa rimane del cristianesimo, che cosa rimane della religione?

Perfino l'evento salvifico della morte e resurrezione di Cristo è revocato in dubbio con la (dispiace dirlo) puerile considerazione che, se Cristo è un essere divino, come poteva non sapere che sarebbe risorto entro tre giorni? E, pertanto, come poteva temere la morte? Ma questo significa svuotare di senso il sacrificio di Cristo sulla croce: come si fa a non vederlo? Non basta: anche l'idea del peccato originale è abolita, perché l'uomo moderno - che, secondo Bultmann, pensa in termini scientifici e non mitologici - non può ammettere l'idea di una colpa preesistente al singolo individuo, che si riflette su di lui ancor prima della nascita. Ma come si può parlare così, e dirsi ancora cristiani?

Se abbiamo compreso qualcosa della teologia cristiana, ci sembra abbastanza chiaro che il peccato originale non è una "colpa" nel senso corrente della parola, bensì una disposizione al male preesistente alla singola azione malvagia, e tuttavia originata da un peccato della volontà, da un peccato di superbia che condiziona alla radice l'atteggiamento dell'essere umano nei confronti della realtà. Certo che l'idea di far morire un innocente per il riscatto dei colpevoli rispecchia una concezione legalistica della religione mosaica, propria dell'ebraismo antico: qui, sì, vediamo all'opera la dimensione "mitica" nel senso di "involucro" del messaggio di salvezza cristiano. Però da un teologo della levatura di Bultmann ci saremmo aspettati un senso delle distinzioni e delle sfumature un tantino maggiore. Infatti, una cosa è la cornice mitologica in cui l'idea del sacrificio di Cristo viene presentata nell'Antico Testamento, altra cosa è la dimensione assoluta e trascendente di quel sacrificio, che può benissimo parlare all'uomo di oggi così come a quello di duemila anni or sono. Strano che a fare simili considerazioni debba essere un laico che non si identifica con i contenuti del cristianesimo; bizzarrie della teologia razionalista che, a forza di voler fare del cristianesimo un prodotto di facile consumo per il palato esigente e sofisticato dell'uomo moderno, lo riduce a un involucro (scientifico, per carità!) sotto il quale non resta più nulla.

Tanto basti, crediamo, per mostrare che anche la visione scientifica del mondo è una visione mitologica: ogni visione del mondo, infatti, è una visione mitologica. Al posto di Zeus che scaglia la folgore, o di Poseidone che esce dal mare armato di tridente e alla guida del suo cocchio di mostri  acquatici, abbiamo posto la Ragione e la Scienza; al posto dei miracoli del soprannaturale, i pretesi miracoli della tecnica; al posto del peccato morale, l'ignoranza di chi non conosce la scienza; al posto della redenzione, il paradiso in terra tecno-scientifico. Anche la visione scientifica del mondo è una mitologia della salvezza, con tanto di caduta e peccato originale (l'oscurantismo antico e medioevale), di storia sacra popolata di santi (i grandi scienziati) e di martiri (il processo a Galilei, ecc.) e con la gloria finale della Parusia, quando la morte sarà sconfitta (con la clonazione, con l'ibernazione o altro) e l'umanità sarà divisa per sempre fra buoni e cattivi. Coloro che avranno creduto nella scienza, in questa scienza, materialista e riduzionista, saranno premiati e vivranno eternamente giovani, sani e senza rughe (magari fra qualche generazione, ma questo è l'obiettivo dato ormai per certo); gli altri, i cattivi, precipiteranno nell'inferno della malattia, della vecchiaia e della morte; a meno che, per il loro stesso bene, la società non decida di "curare" il loro strano atteggiamento anti-scientifico internandoli in manicomio o assoggettandoli a una cura psicanalitica intensiva, onde rimuovere i tremendi traumi sessuali della loro infanzia che li hanno fatti diventare degli adulti così complessati, inadeguati e antisociali.

 

Ma tutte queste incongruenze, nel ragionamento di Bultmann intorno al Nuovo Testamento, derivano, a nostro avviso, da un ulteriore e più grave errore, che abbiamo lasciato per ultimo solo perché, appunto, esso fonda e spiega tutti gli altri: l'aver totalmente sorvolato su una seria definizione preliminare di mitologia. Che senso ha parlare di una visione mitologica del mondo, propria dell'Antico Testamento (ma non, chissà perché, della modernità), se non si cerca di spiegare che cosa sia il mito? Questo, dal punto metodologico, è l'errore più grave che un filosofo (o un teologo) possa compiere: discutere di un dato argomento e sostenere tutta una serie di ragionamenti, poggiandoli assolutamente sul vuoto. Se Bultmann si fosse posto la domanda preliminare: «che cos'è il mito?» e, magari sulla scorta di Platone, si fosse preso la briga di elaborarne una definizione un po' articolata, che non desse per scontato che esso esprime la visione del mondo di una umanità rozza e bambina, forse si sarebbe accorto di quanto assurda fosse la fatica nella quale si stava cimentando.

Mythos, in greco, significa semplicemente "parola, discorso" e non è affatto sinonimo di racconto favolistico e leggendario, come i cosiddetti divulgatori scientifici che oggi vanno tanto per la maggiore vorrebbero farci credere (e come forse, nella loro immensa ignoranza e presunzione, realmente credono). Senza voler qui aprire una dotta ed esauriente discussione sui significati che al mito sono stati attribuiti nella storia del pensiero, ci limitiamo per ora ad affermare che il mito è un racconto che non richiede né pretende dimostrazione, al contrario del Logos, che si basa su argomentazioni razionali. Ma il fatto che un discorso non richieda, o non possa aspirare, a una dimostrazione razionale, non significa affatto che è qualitativamente e intrinsecamente inferiore a un discorso che sulla dimostrazione razionale si basa e vi cerca la propria certificazione di veridicità. A meno di credere che il Logos possa tutto spiegare e tutto dimostrare (come i nostri scientisti microcefali paiono davvero ritenere) e che, al di sopra - e non al di sotto - di esso non esistono altre forme di conoscenza.

Ma, di nuovo: c'era proprio bisogno di scomodare l'intelligenza e la raffinata cultura di un grande teologo per formulare un pensiero così piattamente riduzionista e materialista che, di fatto, sbatte le porte in faccia a ogni forma di trascendenza e riduce la fede a un'astrazione del pensiero, sottoponendola al vaglio preliminare dell'inquisizione scientista?