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L'anima criminale come problema filosofico

di Francesco Lamendola - 06/10/2007

 

 

 

 

Nell'estate scorso la polizia russa ha catturato un giovane di 32 anni, Aleksandr Pichushkin, accusandolo di aver commesso 49 omicidi seriali: tutti in un parco a sud di Mosca, tutti con la stessa tecnica: chiedeva a degli sconosciuti, in genere anziani, di bere un po' di vodka con lui, per consolarlo di aver appena seppellito il suo cane. Poi, quand'erano ubriachi, fracassava loro il cranio a colpi di martello o con un altro corpo contundente. All'inizio gettava i cadaveri nello scarico della fogna, poi aveva cominciato a lasciali deliberatamente in luoghi molto visibili, per esempio ai lati della strada. Voleva che li trovassero al più presto, voleva che tutti parlassero dei suoi delitti. Lui, per la verità, qualche giorno fa ha detto di averne uccisi non 49, ma 62: e che avrebbe continuato, almeno fino a 64: tanti quante le caselle di una scacchiera, poiché gli scacchi sono il suo gioco preferito. Dopo ogni delitto, segnava una crocetta su una casella della scacchiera.

I medici che l'hanno esaminato dicono che è certamente disturbato, ma non pazzo, e che quindi era in grado di intendere e di volere. Interrogato sulle ragioni che lo spingevano a uccidere, ha risposto che per lui uccidere era necessario, esattamente come lo è il mangiare e il bere per tutti gli esseri umani. Ha aggiunto che dopo ogni delitto provava un senso di esultanza incontenibile, saltava e correva come inebriato e si sentiva così "caricato" che avrebbe potuto abbattere un albero. Circa le sue vittime, pare abbia detto che si considerava un po' il loro padre, perché le faceva nascere ad un'altra vita, liberandole dal peso di quella terrena.

Nella ricostruzione del suo passato, è emerso che era rimasto orfano quand'era molto piccolo, per poi  essere preso in casa da un nonno col quale si trovava bene. In seguito, però,  il nonno si era risposato; e ciò avrebbe generato in lui un senso di frustrazione e di abbandono, come se fosse stato tradito dall'unica persona che amava e dalla quale si sentiva amato. Ha commesso il suo primo omicidio a soli 18 anni: la vittima era stata un coetaneo, ucciso per futili motivi. Poi, non si è più fermato. Nessun pentimento, anzi: l'idea di diventare famoso lo esaltava, voleva sfidare la polizia per fare vedere quanto era bravo. In effetti, è stato preso in circostanze altamente improbabili: una delle sue vittime, sopravvissuta miracolosamente all'aggressione, lo ha riconosciuto e lo ha fatto arrestare.

La sua vicenda ricorda da vicino quella di un altro serial killer russo, Andrei Chikatilo, passato tristemente alla storia come "il mostro di Rostov", autore di 53 omicidi nel periodo che va dal 1978 al 1990, tutti commessi contro donne e bambini. La sua infanzia era stata particolarmente travagliata: un padre fucilato dai Tedeschi durante la seconda guerra mondiale, un fratello (almeno così diceva la madre, ma pare fosse gravemente squilibrata) ucciso e divorato dai contadini affamati durante una carestia, verso il 1930. Nato nel 1936, il "mostro di Rostov" era solo un bambino quando la Wehrmacht invase l'Unione Sovietica in un crescendo  apocalittico di violenze contro la popolazione civile; ne aveva già 42 quando incominciò a uccidere e 58 quando, condannato a morte da un tribunale, cadde sotto il piombo di un plotone d'esecuzione.

La vicenda di questi spaventosi assassini seriali costituisce un autentico enigma antropologico e pone degli interrogativi inquietanti anche sul piano filosofico. Non si tratta, infatti, di individui semplicemente malvagi (cfr. il nostro articolo L'uomo e la malvagità), perché l'uomo malvagio, per quanto possano essere discutibili o futili le ragioni per le quali fa del male al prossimo, agisce comunque in base a delle motivazioni concrete. Egli vuole impadronirsi di qualcosa che appartiene alle sue vittime, oppure vuole vendicarsi di un torto ricevuto (vero o supposto), oppure ancora vuole proteggersi da un pericolo, magari immaginario. Commette violenze morali o fisiche sui suoi simili, ma come mezzo per raggiungere un risultato, non come fine a se stesse.

Invece, casi come quello di Pichushkin ci lasciano totalmente sconcertati, anzi orripilati, perché per individui del genere il male è del tutto fine a sé stesso. Si tratta, in sostanza, del puro piacere di uccidere, del puro piacere di fare del male e di veder soffrire degli esseri umani. Le pseudo-spiegazioni a tali azioni fornite talvolta dagli stessi assassini seriali, ad esempio che essi vogliono  "aiutare" le proprie vittime a raggiungere "la pace", paiono piuttosto dei tentativi di razionalizzazione a posteriori, se non dei veri e propri tentativi di depistaggio nei confronti dei giudici. Se la motivazione fosse quella, uomini come Pichushkin dovrebbero agire come per un tragico dovere, con la commossa serietà di chi compie un estremo atto di pietà verso i suoi simili: non abbandonarsi a una danza sfrenata, orgiastica come se si fossero ubriacati o eccitati  sessualmente.

Tuttavia, la nostra mente vacilla davanti all'idea che possano esistere individui del genere. I criminali nazisti o stalinisti agivano in base a ordini superiori o per spontanea adesione a una ideologia politica, per quanto aberrante; i delinquenti che si scatenano in preda agli effetti della droga, come nel film Arancia meccanica di Stanley Kubrick (o come i due rumeni che hanno commesso l'orribile delitto di Gorgo al Monticano, in provincia di Treviso), hanno i sensi e la mente sconvolti dalle sostanze stupefacenti; e quelli che si sono affiliati a qualche setta dedita alla magia nera e all'evocazione dei demoni, come le cosiddette "Bestie di Satana", hanno stretto un patto col Maligno, dal quale affermano di ricevere ordini e che esige il versamento di sangue umano quale segno della loro assoluta fedeltà e obbedienza. Ma  che cosa si deve pensare dell'esistenza di persone che, secondo certe apparenze, paiono avere in sé una sorta di predisposizione costituzionale al male? Se una cosa del genere fosse possibile, che fine farebbe il libero arbitrio? E che cosa può significare il fatto che vi siano delle persone in cui la voce della chiamata spirituale è totalmente soffocata da un coro demoniaco di voci maligne, da un esercito di presenze diaboliche che le spingono fatalmente sulla via di una crudeltà senza senso e senza possibilità di redenzione?

Se la persona è, come altra vola l'abbiamo definita, sostanza spirituale incarnata e dotata di libera volizione, individui come Pichushkin che cosa sono, esattamente? Sono ancora persone, o appartengono a un altro genere di creature? Sono forse creature demoniache? E, se sì, come si può conciliare l'idea di un Bene Supremo, al quale ogni creatura è chiamata sin dall'inizio,  con il fatto che esse - apparentemente senza concorso della volontà, e dunque senza colpa - sono quello che sono? Come si concilia una tale idea con quella di un ordine cosmico ordinato in senso provvidenziale, ove la ragione e la volontà ci sono date in dono proprio per scegliere liberamente fra il bene e il male, divenendo responsabili dei nostri atti?

 

Leggendo le memorie di Atkins Slosser, una delle ragazze della banda di Charles Manson che parteciparono alla strage di Bel Air (nella quale fu barbaramente trucidata, incinta, la moglie del regista Roman Polanski, Sharon Tate), si ha l'impressione che tali anime demoniache esistano realmente, anche se potrebbero essere divenute tali attraverso la frequentazione di gruppi o sette di ispirazione satanica.

Ecco come la ragazza,  rinchiusa in carcere dopo che la sua condanna a morte era stata commutata nella pena dell'ergastolo,  rievoca la sanguinosa notte del massacro e, in particolare, descrive un altro giovane membro della banda di assassini che partecipò attivamente a quella macabra orgia di violenza. ( nel suo libro-confessione Figlia di satana, figlia di Dio, Milano, Sperling & Kupfer, 1979, p. 166):

 

"Mentre tutti uscivano dal soggiorno correndo e azzuffandosi, la mia mente in fiamme registrò una scena che non avrei mai più dimenticato. Era l'immagine del mio buon amico Tex, con la rivoltella in una mano e il coltello nell'altra, entrambe le braccia tese, mentre un terribile misto di urla e risate gli usciva dalla bocca spalancata. Si librava a oltre un metro di altezza dal pavimento, sospeso nell'aria, un essere posseduto dal demonio, invasato. Benché sconvolta, ricordai proprio in quel momento le strane parole pronunciate da Linda una sera dopo aver fatto all'amore con Tex: «Mi sento come se fossi posseduta dal demonio». In quell'istante mi resi conto che Tex non era un essere umano. Era una creatura d'altro genere."

 

Da un punto di vista filosofico e teologico, che è quello che qui ci interessa, si tratta di una questione decisiva sapere se queste creature demoniache diventino tali in seguito a una serie di libere scelte o se siano dominate, sin dall'infanzia, da forze più grandi di loro, che praticamente le trasformano in ciechi schiavi di una malvagità insensata e senza limiti.

Ecco l'opinione di un illustre studioso di tali problemi, Étienne De Greef, che fu professore alla Scuola di Scienze Criminali di Lovanio (Anime criminali, Roma, Edizioni Paoline, 1973, pp. 8-9) e che ebbe conoscenza diretta di molti problemi umani nella realtà carceraria del suo Paese, giungendo a una visione meditata e complessa del problema.

 

"L'uomo che diventa criminale lo diventa in genere solo dopo un periodo di precriminalità, durante il quale il processo che lo portò all'atto criminoso si andava precisando nel suo pensiero, oprava in tutte le regioni dell'anima una specie di anestesia particolare, deformava i valori, trasformava i princìpi, fondava la sua legittimità.  Questa preparazione al crimine si trova sia negli esseri patologici sia in quelli normali; e quando non esiste si può dire, quasi a colpo sicuro, che si è in presenza di una personalità morbosa. Un crimine commesso durante un parossismo emotivo improvviso e senza la preesistenza di uno di quei processi criminogeni, un tal crimine, così spesso descritto in tribunale, non esiste. Senza dubbio, il crimine 'gratuito, immotivato' di cui si parla a destra e a sinistra, si trova qualche volta ma riguarda sempre una personalità chiaramente patologica.

"Checché ne dicano i benpensanti, essi non sono 'liberi' di uccidere o non uccidere il prossimo. Dicendo: Lo uccido se voglio, invocano una libertà solo teorica.

"L'esperienza insegna, tuttavia, che esseri  normali, in conseguenza di un lungo scadimento morale, possono arrivare a uccidere senza motivo apprezzabile, a commettere con semplicità un atto grave come l'omicidio, quasi si trattasse d'un atto ordinario. Bisogna allora che il senso morale sia stato precedentemente deformato, e ciò presuppone un rilassamento durevole e un'atmosfera dissolvente e corruttrice che spingono un soggetto a rifiutare, per ciascuno dei suoi atti, ogni controllo morale. Forse occorre anche, per arrivare a tal punto, una componente psichica morbosa, qualcosa che renda possibile al colpevole una tale evoluzione.

"L'idea secondo cui un galantuomo è colui che, potendo scegliere di diventare criminale, sceglie di rimanere onesto, e criminale colui che, di fronte alla stessa alternativa, sceglie di diventare criminale, è una di quelle idee semplicistiche che l'esperienza smentisce tutti i giorni. Noi siamo realmente liberi solo in una zona ristretta che varia da popolo a popolo, da generazione a generazione, da paese a paese. L'uomo moralmente perfetto è un'astrazione; un galantuomo è un soggetto che si trova costantemente in equilibrio instabile; è sempre in pericolo di perdere la sua onestà, è sempre nella possibilità di ritrovarla. L'esistenza di tali oscillazioni è normale; l'uomo vede il suo tentennamento verso l'atto reprensibile  e, se giudica se stesso sinceramente e obiettivamente, immagina  in sé tendenze criminali ben maggiori della realtà. (…) [Viceversa,] dall'esaltazione con cui un uomo insorge contro un peccato, si misura l'ampiezza delle sue difficoltà; egli è il solo a non sapere ciò che tutti leggono in lui."

 

In altri termini, secondo Étienne De Greef tutti gli esseri umani sono, potenzialmente, capaci di commettere il male, anche nelle sue forme più brutali e apparentemente gratuite: e bisogna dire che diversi recenti fatti di cronaca nera, che vedono protagonisti - sempre più spesso - individui apparentemente normalissimi, per non dire banali, sembra confermare una tale analisi. Se essa è inquietante, specie quando si accompagna a una durezza di cuore che non concede spazio al pentimento e che soffoca il rimorso sotto una corazza di ghiaccio (cfr. il nostro articolo La rimozione della colpa), è pur vero che appare comunque meno terribile della concezione secondo la quale vi sarebbero delle anime perdute fin da prima di sviluppare una autonoma libertà di scelta morale.

Non vogliamo aprire qui, per varie ragioni, una discussione sulla natura ontologica del male: se esso sia, come pensava, a un certo punto,  Sant'Agostino, una semplice carenza di bene, o se non sia una realtà sussistente in quanto tale, dotata di autonomia e capace di sedurre gli esseri umani agendo, per così dire, dal di fuori di essi, oltre che facendo leva sulle loro debolezze e cattive inclinazioni. A questa seconda concezione appartiene l'idea di un Male personale, di una presenza maligna che si manifesta oggettivamente nel mondo e il cui "compito" è quello di tentare le creature e di indurle a volgere le spalle al Bene e alla Grazia.

Carl Gustav Jung, al termine della sua pluridecennale ricerca spirituale, era giunto a elaborare una concezione nella quale Bene e Male non si contrappongono frontalmente, come per gli gnostici, ma costituiscono, in qualche modo, due facce di una medesima realtà - concezione, fra parentesi, abbastanza vicina a quella dell'Induismo, che in genere rappresenta le stesse divinità ora sotto l'aspetto benefico e costruttivo, ora sotto quello malvagio e distruttivo.

Nel suo libro Ricordi, sogni, riflessioni (Milano, Rizzoli, 191981, pp. 387-389), il grande psicologo svizzero afferma:

 

"…Dobbiamo guardarci dal considerare il male e il bene come due opposti.

"Il criterio dell'azione morale non può consistere più nella semplice concezione che il bene ha la fora di un imperativo categorico, e che il cosiddetto male può essere assolutamente evitato. Il riconoscimento della realtà del male necessariamente relativizza sia il bene che il male, tramutandoli entrambi nella metà di un contrasto, i cui termini formano un tutto paradossale.

"Praticamente, ciò significa che il bene e il male perdono il loro carattere assoluto, e noi siamo costretti a riconoscere che ciascuno di essi rappresenta un giudizio…

"(…) chi desideri avere una risposta al problema del male, così come si pone oggi, ha bisogno, per prima cosa, di conoscere se stesso, e cioè della maggior conoscenza possibile della sua totalità. Deve conoscere sena reticenze quanto bene può fare, e di quale infamia è capace, guardandosi dal considerare reale il primo e illusoria la seconda. Entrambi sono veri in potenza ed egli non sfuggirò interamente né all'uno né all'altra, se vuole vivere - come naturalmente dovrebbe - senza mentire a se stesso e senza illudersi."

 

Come si sarà notato, pur partendo da premesse molto diverse e traendo, anche, conclusioni divergenti, Jung formula una tesi che presenta molte analogie con quelle del criminologo cattolico De Greef: ciascun essere umano è capace di tutto il bene e di tutto il male possibile. Ed è abbastanza  facile convincersene, aggiungiamo noi, semplicemente osservando per un poco il comportamento dei bambini, creature pre-morali per eccellenza: anch'essi sono capaci di toccare i vertici della bontà e, al tempo stesso, della cattiveria. Certo, Jung va molto oltre questa semplice considerazione e si spinge a ipotizzare che non solo l'animo umano, ma anche la Realtà ultima sia il prodotto di un'interazione tra due principi opposti che appaiono, riduttivamente, come "bene" e "male" solo nella misura in cui vengano isolati l'uno dall'altro e considerati in termini astratti. Nella loro dialettica concreta, essi sono di fatto inseparabili, e dalla loro azione reciproca si origina la totalità. Non è questa la sede per discutere tale teoria junghiana, le cui implicazioni ci porterebbero davvero troppo lontano dal nostro assunto iniziale. Ci limiteremo perciò a osservare, per adesso, che una simile concezione conferma che delle anime totalmente e irrimediabilmente criminali non esistono e che anche nello scadimento morale più grave, come nel caso degli assassini seriali (astrazion fatta, beninteso, dalla componente patologica), esiste un barlume di coscienza che, almeno nelle fasi iniziali di tale deterioramento, potrebbe ancora consentire una scelta morale relativamente libera.

 

Ciò detto, ci rendiamo conto di non aver spiegato proprio nulla e restiamo muti e consci della nostra piccolezza davanti al mistero del male morale, della cui spiegazione non abbiamo potuto oltrepassare neanche la soglia. È un mistero così grande e fitto, così sconvolgente, che - forse - tutto ciò che possiamo fare davanti ad esso è restare pensosi in reverente silenzio, come si fa dinanzi a uno spettacolo della natura così grandioso e, al tempo stesso, così pauroso, da confinare col sublime; come faremmo se, penetrati in una foresta misteriosa, ci imbattessimo nella bocca spalancata di una grotta immensa, di cui non si riesce a vedere il fondo, e dalla quale nessuna eco  risale se vi facciamo cadere intenzionalmente una pietra, per cercar di stabilirne la profondità.

Così, lo sguardo duro e impenetrabile di un uomo come Aleksandr Pichuiskin, che ha ucciso senza movente decine e decine di persone e che non prova alcun rimorso o rammarico per quanto ha fatto, è destinato per noi a rimanere un grande, insondabile, pauroso mistero.

 

Tutto quel che possiamo fare, come ci insegna Jean Vanier, è ricordarci che "ogni uomo è una storia sacra" e pertanto che, se la società ha ogni diritto di difendersi e di proteggersi dal male che gli individui commettono, noi però non possiamo pretendere di giudicare realmente quel che avviene all'interno del mistero più grande di tutti: quello dell'anima umana.