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Il divorzio fra "Mos Maiorum" e "Humanitas" è all'origine della nostra crisi attuale

di Francesco Lamendola - 29/10/2007

 

Se dovessimo dire a quale epoca storica passata maggiormente somiglia la nostra, specialmente sul piano culturale e spirituale, risponderemmo senza esitare: alla Repubblica romana del II secolo avanti Cristo e, in particolar modo, alla situazione venutasi a creare dopo il 168 a. C. con la battaglia di Pidna. Sconfitta la maggiore potenza ellenistica dell'epoca, ossia la Macedonia, per Roma iniziava una trasformazione radicale del suo tessuto culturale e spirituale e anche di quello economico-sociale, caratterizzata da una massiccia penetrazione di idee e valori di provenienza greca e orientale che si sovrapposero e si sostituirono a quelli della tradizione, il cosiddetto mos maiorum. In tale contesto il circolo degli Scipioni, imbevuto di cultura ellenistica, costituiva il segnale più evidente di una simile trasformazione: il desiderio di raffinatezza in luogo della rustica semplicità; l'apertura culturale cosmopolita in luogo del chiuso patriottismo romano; il culto delle arti e delle belle lettere in luogo dell'etica del lavoro e del sacrificio; l'individualismo in luogo dei valori collettivi; lo scetticismo in luogo della religiosità; l'innovazione, la "modernità", il "progresso" in luogo della tradizione.

Si tratta di un fenomeno analogo a quello, planetario, che si è verificato come conseguenza della Rivoluzione scientifica del XVII secolo e di quella industriale del XVIII e che è penetrato nelle diverse società in tempi e forme diversi, ma sotto il comune denominatore dell'alternativa fra la tradizione, percepita come obsoleta, asfittica e 'retrograda', e l'innovazione, percepita come un valore positivo in sé stesso, autoevidente ed autoreferenziale; il tutto accompagnato da un notevole aumento del benessere del cittadino medio e da una disponibilità di beni e servizi prima impensabili, perché riservati a piccolissime minoranze. Il benessere della Roma tardo-repubblicana era finanziato, direttamente o indirettamente, dalla distruzione e dal saccheggio sistematico dell'Impero cartaginese e dei regni ellenistici, primo fra tutti quello macedonico; nell'Occidente moderno, dalla distruzione e dal saccheggio sistematico delle società del cosiddetto terzo e quarto mondo. Per l'Italia, ad esempio, tale svolta si è verificata all'incirca nei settant'anni che vanno dalla fine dell'Ottocento al boom del secondo dopoguerra; nelle megalopoli del Sud della Terra è stata molto più recente e si è prodotta a macchia di leopardo, lasciando ampie sacche di quelle società in una condizione pre-moderna e, per molti aspetti, conflittuale o totalmente estranea al resto del tessuto economico e culturale.

Si badi: non è una contrapposizione tra positivo e negativo, fra progresso e regresso, come i cantori ufficiali della modernità vorrebbero farci credere; e non è neanche, come vorrebbero i nostalgici ultra-passatisti, una contrapposizione a ruoli invertiti, con la tradizione nel ruolo di valore positivo e l'innovazione in quello di valore negativo. Si tratta di una trasformazione molto più complessa e, per molti aspetti, fondamentalmente ambigua, dove positivo e negativo sono fortemente mescolati in senso trasversale e dove esiste sempre il pericolo, già chiaramente denunciato da Marx, di scambiare la propria ideologia (di classe, di religione, di popolo) con l'ideologia tout-court: come se "progresso" e "regresso", tradizione e innovazione, fossero termini assolutamente neutri e indipendenti dall'uso che se ne fa, dal contesto in cui si collocano e dalla condizione di chi li adopera.

Scrivono Angelo Diotti e Massimiliano Singuaroli in Nova Lexis, Paravia-Bruno Mondadori Editori, 2004, vol. II, p. 150:

 

"La vittoria di Pidna del 168 a. C. segna uno spartiacque significativo nella storia della società e della cultura di Roma antica: dopo la vittoria sulla macedonia, Roma gode di un ventennio di pace e nella città affluiscono non solo enormi ricchezze sotto forma di tributi e bottini di guerra, ma anche numerosi uomini di cultura greci. La società romana comincia ad aprirsi all'influenza della cultura e delle tradizioni greche e orientali e l'enorme ricchezza e potere accumulati in tante vittorie introducono e diffondono stili di vita ben lontani dalla frugalità dei padri. Una famiglia in particolare, quella degli Scipioni, che poteva annoverare alcuni degli uomini più in vista non solo del momento, ma dell'intero secolo, come Scipione l'Africano o Scipione Emiliano, incarna pienamente i nuovi valori e la nuova cultura. Ora vene considerato un valore l'otium, inteso come il tempo passato lontano dagli affari e dalla politica, da dedicare a studi fini a se stessi, come la filosofia e la poesia; a questo nuovo stile di vita verrà in seguito dato il nome di humanitas, un complesso di valori morali e di presupposti culturali che si allontana molto dalla rigidità del mos maiourm."

 

Ma che cos'è, esattamente, il mos maiorum? E si tratta di un complesso di valori e di uno stile di vita proprio esclusivamente agli antichi Romani, oppure possiamo accostarlo al sottofondo di tutte le culture tradizionali che, oggi, si possono definire pre-moderne? Secondo gli stessi Autori (op. cit., vol. 2, p. 149):

 

"Il mos maiorum è il 'costume degli antenati', il patrimonio della tradizione su cui si basa l'intera struttura della repubblica e poi dell'impero romano. Si tratta di un insieme di valori, ideali, concetti, tradizioni di varia natura, nel quale si può riconoscere un nucleo originario appartenente alla società agraria, ovvero alle origini stesse di Roma: i valori principali di questo nucleo sono infatti virtù 'contadine' come la frugalitas, la pietas, l'industria, il pudor, il decorum, l'abstinentia, la constantia, la temperantia, la severitas, la gravitas, la magnitudo animis, la probitas. A causa dell'espansione militare, la società di Roma si apre agli influssi di altre culture, in particolare quella greca e orientale; inoltre, la crescita della potenza economica della città e la conseguente ricchezza che affluisce su di essa contribuisce a modificare il quadro dei valori fondamentali. Sallustio individua in questo la crisi della repubblica romana, ma di fatto a partire da un certo momento, nel corso del II secolo  a. C., il mos maiorum viene attenuato o comunque deve far fronte a nuove esigenze, soprattutto culturali."

 

Frugalità; amore per la famiglia, la patria e gli dei (pietas); laboriosità; pudore; decoro, ecc.: sono i tipici valori delle società patriarcali, come quella, ad esempio, dei Malavoglia (prima, beninteso, che anch'essa venisse afferrata e squassata dalla malefica "fiumana del progresso"); sono i valori di Padron 'Ntoni. E sono i valori delle società islamiche, valori che esse, oggi, contrappongono con fierezza alla decadenza, corruzione e promiscuità morale tipiche dell'Occidente. Se, dunque, il 'costume dei padri' è un insieme di valori culturali e spirituali proprio di tutte le civiltà pre-moderne, e particolarmente contadine (compresa la Repubblica romana, prima che venisse investita dalla nascita di un'economia schiavista di massa e si trasformasse da agricola in commerciale), il passaggio alle raffinatezze della modernità è segnato sia da una maggiore attenzione verso 'le cose dello spirito', intese come nettamente distinte dalla vita di ogni giorno, sia dallo sfoggio di beni e servizi che evidenziano il passaggio a uno stato sociale superiore.

D'altra parte, il concetto di humanitas elaborato dal circolo degli Scipioni costituisce realmente un valore universale e possiamo considerarlo come la traduzione e la generalizzazione di quello greco, preesistente, di filantrophia, ossia "benevolenza". E tuttavia il concetto di humanitas non è stato affatto 'inventato' dagli Scipioni, poiché esisteva già - sia pure con diversa accezione - nella cultura latina anteriore. Per Terenzio, ad esempio, l'humanitas è una concezione etica basata sull'ideale di un'umanità fiduciosa in sé stessa, ottimista, capace di nutrire sentimenti autentici e valori collettivi che gettino, per così dire, un ponte fra gli individui. Sua è infatti la celeberrima espressione homo sum: nihil humani a me alienum puto.

Dunque il ritagliare degli spazi dalla vita sociale e politica per dedicarli alle arti liberali (otium) e, più in generale, l'adozione di uno stile di vita basato sulla benevolenza, sull'apertura, sulla "umanità" (humanitas) non sono necessariamente qualcosa che si contrappone al 'costume dei padri', ma che, al contrario, potrebbe coesistere con esso, nel rispetto dei valori tradizionali, arricchendoli piuttosto che stravolgendoli. Se, storicamente, si è verificata invece una rottura ogni qualvolta l'innovazione si è presentata come alternativa e sostitutiva della tradizione, cio è stato dovuto - a nostro avviso - al vero 'peccato d'origine' di molte di tali trasformazioni e cioè al fatto che lo stimolo al cambiamento è giunto sulla scia di una ridistribuzione ingiusta e violenta delle risorse materiali a disposizione dei popoli.

La distruzione di Cartagine e di Corinto e l'asservimento di milioni di esseri umani, nel bacino del Mediterraneo, alle ambizioni imperiali di Roma antica, stanno idealmente in relazione diretta con la distruzione degli Indiani d'America e con la schiavitù di milioni di Africani che fornirono le condizioni idonee al perseguimento del "destino manifesto" degli Stati Uniti d'America. Ora, la civiltà occidentale moderna non è che un prolungamento di quel "destino manifesto" di matrice americana (il filosofo Berkeley, che era meno sognatore di quanto comunemente si creda, aveva visto giusto quando diceva che il futuro del mondo stava sorgendo ad Ovest); pertanto, nel bene e nel male, noi siamo i figli di quella trasformazione e di quel contrasto fra i valori del mos maiorum (i valori patriarcali di padron 'Ntoni e, oggi, dell'Islam) e quelli della humanitas (l'arte e la cultura slegate dalla vita pratica e la loro inevitabile degenerazione in senso edonistico e ultra-individualistico).

Il contrasto si è verificato non solo tra diverse aree del mondo e tra diverse culture e religioni, ma anche all'interno della civiltà occidentale moderna, che più di ogni altra ha innescato la marcia del "progresso" e, di conseguenza, la svalutazione e la lotta indiscriminata contro il passato. Oggi, nel mondo post-industriale dell'Occidente opulento, è in corso una crisi generazionale senza precedenti, che evidenzia come i figli non siano in grado di proseguire l'opera dei padri, anzi neppure di amministrarla dignitosamente. Sempre più spesso si assiste allo spettacolo di imprese industriali e commerciali, piccole e medio-piccole, realizzate con pazienza e sacrificio dai nonni, che cambiano di proprietà perché figli e nipoti non possiedono né lo spirito di sacrificio né il solido senso pratico necessari a rilevarle e farle ulteriormente prosperare. Patrimoni messi insieme con tenacia e abilità si dissolvono in pochi anni di gestione irresponsabile: è il destino del patrimonio accumulato, a prezzo di sacrifici durissimi e quasi disumani, da mastro-don Gesualdo, e che si ripete oggi in migliaia e milioni di situazioni analoghe.

Eppure, come si è detto, i valori della tradizione e quelli del rinnovamento non sono antitetici in se stessi: lo diventano quando la tradizione si irrigidisce in una difesa sterile di ciò che non è più condiviso intimamente, mentre l'innovazione si pone come modernità, ossia come valore auto-referenziale che esclude, per principio, tutti quelli del passato, come un nuovo Dio geloso e intollerante che dichiara guerra a oltranza a tutte le vecchie divinità. Il senso della nostra crisi attuale, dal punto di vista spirituale, è essenzialmente in questo contrasto e in questa contraddizione; e anche, in parte, nell'inconscio senso di colpa per il fatto che l'abbondanza e lo spreco della nostra raffinata civiltà sono costruiti sullo sfruttamento inumano di altre civiltà e di altri popoli (cattiva coscienza che, tra le altre cose, ci rende stranamente indulgenti nei confronti del fenomeno dell'immigrazione extra-europea che si dovrebbe chiamare, più propriamente, invasione incruenta - ma pur sempre invasione).

La via d'uscita, se esiste, dovrebbe a questo punto apparire abbastanza chiara: ricucire la divaricazione fra mos maiorum e humanitas e, all'interno di quest'ultima, fra cultura e vita; perseguire le forme e i contenuti del pensiero unitivo, sia all'interno della propria cultura che a livello interculturale, piuttosto che quelli del pensiero oppositivo; valorizzare e recuperare tutti gli aspetti vitali della tradizione, senza perciò chiudersi all'innovazione ma anche senza considerare quest'ultima come un valore in se stessa. Tutto dipende da che cosa si vuole innovare, da dove si vuole andare, da ciò - in ultima analisi - che si considera importante. E che merita si facciano, per conseguirlo, dei sacrifici.