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Gestell, democrazia e nichilismo

di Alessandro Amato - 23/12/2005

Fonte: Arianna Editrice

 

 

 

 

    Alain de Benoist riprende con profodità la nozione heideggeriana di Gestell, (Comunità e decrescita. Critica della ragion mercantile, Arianna). Il filosofo d’oltralpe, come sua abitudine originale e provocatorio, ha accostato la figura di Marx a quella di Heidegger, in riferimento alla critica che entrambi sferrano nei confronti della Forma-Capitale. Proprio il concetto di Gestell, ad avviso di de Benoist, spiega bene “l’impadronimento di tutti gli enti in vista della produzione generalizzata, ovvero dispiegamento planetario dell’inautentico” che caratterizza l’ideologia del libero mercato, contro cui Marx ha strutturato tutta la sua speculazione teorica. Lo spunto di de Benoist è stimolante, ma prima di “iniziare il dialogo costruttivo con il marxismo”, forse è bene soffermarsi su quel tanto discusso Gestell ed offrire di esso una chiarificazione politica.

    Il termine tedesco Gestell è stato tradotto da Gianni Vattimo con imposizione  (Saggi e discorsi), mentre Franco Volpi ha adottato la parola impianto (Conferenze di Brema e Friburgo). Entrambe le soluzioni esprimono, l’una nei termini di fondamento costituente (impianto), l’altra nei termini di effetto costitutivo (imposizione), l’essenza che Heidegger attribuisce al Gestell: “la riunione (das Versammelnde) di quel ri-chiedere (stellen) che richiede, cioè pro-voca, l’uomo a disvelare il reale, nel modo dell’impiego, come fondo” (Conferenze di Brema e Friburgo, p. 15). Il Gestell quale essenza della tecnica – ovvero il lato non materiale delle macchine che l’uomo moderno maneggia – è una sistematica riduzione delle cose a risorse, è una trasformazione ed erogazione di esse a mezzo in vista della produzione, o meglio, del lavoro. Impiantandosi al suolo, la tecnica moderna fissa il destino dell’umanità nell’unica cifra dello sviluppo di sé medesima, imponendo in tal fatta un dominio che non è azzardato definire totalitario.

    E’ bene ricordare come l’interesse di Heidegger per la tecnica sia nato a seguito della pubblicazione dell’opera fondamentale di Ernst Juenger, Il lavoratore (1932), nella quale lo scrittore tedesco descrive con lungimiranza il processo di globalizzazione tecnologica e di unificazione politica del pianeta ad opera di questa nuova figura titanica e della civiltà a cui appartiene: l’Occidente. Il Gestell heideggeriano, quindi, mira a interpretare la forma del lavoro juengeriana come dispositivo che funzionalizza l’uomo e la natura in vista di un lavoro fine e sé stesso; in questi termini Heidegger colloca l’opera di Juenger nel solco della metafisica della volontà di potenza, ovvero volontà di volontà, la quale erode il significato originario delle cose del mondo (oblia l’essere proprio perché volente solo il potenziamento di sé), stabilizzando il nichilismo e non superandolo, come era nell’intento di Nietzsche.

    Ora, la nozione di Gestell può bene essere applicata alle categorie politiche della modernità, in particolare alla procedura con cui nasce lo Stato moderno e al fenomeno della rappresentanza politica. L’impianto-impositivo, infatti, nel suo processo di reductio ad unum manifesta quella netta dicotomia soggetto-oggetto – affermatasi in modo definitivo col cogito ergo sum cartesiano, per cui il soggetto è esperito in senso assoluto, sì da dominare, manipolare e padroneggiare l’oggetto senza alcun limite – che connota il frutto del contrattualismo moderno: il Leviatano.

    L’interpretazione che Heidegger fornisce della tecnica, iscrivendola nel solco della metafisica di Nietzsche, offre la chiave interpretativa dei risvolti politici del Gestell. La “morte di Dio”, infatti, implica la disgregazione del cosmos entro cui si collocavano la polis greca, l’imperium romano, e la res publica christiana, ovvero relega l’uomo ad uno stato di natura e disordine. Qui l’uomo non si colloca in un quadro che lo trascende e gli detta senso, ma il suo fondamento ontologico è l’autoconservazione di sé medesimo. Per uscire dallo stato di pericolo in cui l’individuo è immerso, occorre costruire la società civile; ciò significa che l’ordine, anziché essere pre-costituito e indipendente dalla volontà umana, è artefatto dal soggetto creatore: l’Uebermensch. L’individuo si pone così a fondamento della Stato. Alienando ogni prerogativa sulla cosa pubblica – seconda la teoria della rappresentanza intrinseca nel patto – l’individuo arroga a sé il diritto assoluto di esplicare tutte le sue facoltà nell’ambito privato, in cui si iscrive lo sviluppo tecnico-scientifico.

    S’istaura così una dicotomica ed aporetica situazione: da un lato il potere politico si obbliga a tutelare l’individuo nella pratica delle libertà acquisite, dall’altro l’individuo si obbliga a non mettere in discussione quel potere solo grazie al quale è definita la sua libertà assoluta. Lo Stato moderno si regge su questa netta faglia tra governanti e governati, quella medesima frattura che si ha tra un soggetto che domina e un oggetto dominato, tra chi padroneggia lo strumento tecnico e chi è oggetto di tale manipolazione. Dicotomia che spiega il comune orizzonte assiologico di individualismo-liberale e collettivismo-totalitario: là dove vi è la massima forma di soggettivismo, si produce la massima forma di oggettivazione.

    Si capisce come la nozione heideggeriana di Gestell bene si addica alla natura oggettivante dello Stato moderno, ove appunto gli individui sono identici nella loro dipendenza dal potere politico e in tal senso costituiscono un tutto omogeneo privo di differenze. La centralizzazione del potere che si ha con l’istituzione del Leviatano rispecchia la medesima logica della meccanica riduzione alla linea in-differente che Heidegger attribuisce al Gestell. Lo Stato, impiantatosi nella storia dell’uomo, impone il proprio dominio spaziale, misconoscendo l’identità dei soggetto concreti, spogliandoli della libertà di definire pubblicamente sé stessi, alla stregua di come l’incedere della tecnica annichilisce i sistemi di riconoscimento propri di ogni popolo.

    Inoltre, quella che viene issata a vessillo di libertà per antonomasia, ovvero il sistema della rappresentanza, in realtà cela un sistema onnipervasivo e totalitario, teso a mortificare e dequalificare il cittadino. Infatti, sebbene lo Stato moderno abbia introdotto la procedura della rappresentanza e della sovranità popolare – coinvolgendo così i cittadini al controllo pubblico del potere – è proprio questa accezione liberl-democratica che spinge i governanti a rendere gli elettori un fondo su cui esercitare le proprie tecniche di persuasione, mascherando la matrice oligarchica del potere con la legittimità estorta. Lo spazio politico deve, di fatto, essere conquistato e dominato, in modo da assicurare un consenso fine a sé stesso, che prescinde da ogni sostanzialità politica, erodendola, e che alimenta quella “volontà di volontà” propria dell’essenza del Gestell.

    In questi termini appare chiaro l’eterogenesi dei fini in cui sono incappati contrattualismo e individualismo; la tecnica, strumento con cui l’individuo ha potuto, per concessione, esplicare la propria volontà assoluta, ha incatenato l’uomo ad una situazione in cui non può che pensarsi quale oggetto di un soggetto altro da sé: è la massima forma di alienazione, di nichilismo. Proprio perché la tecnica è simbolo di potenza, essa si accorda con il sistema d’ordine dello Stato moderno e anziché costituirsi fruitore delle libertà individuali, inalienabile e indisponibili, diviene dispositivo con cui estrarre il fondamento della democrazia liberale: il consenso. La sovranità non è una conquista del cittadino, ma è il frutto della volontà di abili comunicatori che adottano ogni mezzo pur di potenziare il loro bacino elettorale. Il cittadino si trova così in uno stato permanente di manipolazione; l’unica libertà concessagli è quella di scegliere il proprio dominus.

    La sfiducia di Heidegger nei riguardi della democrazia è nota (basti pensare all’intervista rilasciata allo Spiegel Ormai soltanto un Dio ci può salvare), in ragione non di simpatie nazional-socialiste quanto di antipatie per sistemi politici che obnubilano le coscienze dei cittadini in modo meno appariscente di quanto abbiano fatto i dittatori, ma altrettanto pericoloso. La democrazia liberale, infatti, è risultata vincente per il fatto di essere riuscita ad accogliere nella maniera più radicale tecnica e lavoro; in quanto Stato neutro, ovvero vuoto contenitore che non accoglie alcun valore poiché li accoglie tutti, essa fa emergere l’unica sostanza in grado di riempirla: la volontà di potenza. Il Gestell heideggeriano esprime questo intreccio tra nichilismo e democrazia, ove la tecnica implica la consunzione di ogni attribuzione di senso e consola l’individuo con il vuoto e ripetitivo potenziamento di sé stessa.

    Heidegger vicino a Marx? Certo, la critica di entrambi, pur movendo da genealogie differenti, approda alla comune considerazione secondo cui il lavoro capitalistico è espressione dell’in-umano. Tuttavia, mentre la “proposta” di heideggeriana rifugge dalla pretesa di totalità, ovvero dalla volontà di oggettivare l’essere, di renderlo razionalmente conoscibile e per questo oggetto di una filosofia dell’atto, quella marxiana s’iscrive nel solco della tradizione rivoluzionaria, ovvero nelle parole scalfite da Nietzsche, per cui, morto Dio, l’uomo può e deve frasi promotore di un progetto totale. In Marx l’apertura alla possibilità dell’altro trova un ferreo sbarramento dinnanzi all’Uguale (la classe), alla stregua di come il Differente diviene uniformità ad opera del Gestell. Heidegger, invece, proprio perché l’uomo è “pastore dell’essere” e non suo creatore, come è per Marx, cerca di mantenere viva la differenza all’interno del Medesimo e con accenti quasi kantiani afferma:

“Il medesimo si lascia dire solo quando è pensata la differenza. Nel determinarsi (Austrag) del differente viene in luce l’essenza riunente (versamlende) del medesimo. Il medesimo esclude ogni ansia di risolvere il differente sempre nell’uguale. Il medesimo riunisce il differente in una unione (Einigkeit) originaria” (Saggi e discorsi, p. 129).

    Mentre l’universalismo di Marx vuole farsi storia, quello di Heidegger è per definizione manchevole; ciò significa che non può mai attualizzarsi, pena la sua negazione. L’essere, ancora, non è oggettivabile, il che, in ambito politico, implica una decisa critica alla pretesa di totalità di una parte (lo Stato, la Nazione, la Classe, il Mercato), e una strenua difesa della molteplicità: i variegati modi di vivere dei popoli.