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Politeismo e modernità

di Gianfranco Bertagni - 06/01/2006

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

Direi che sono tre gli autori di riferimento da tener presente come sfondo di quello che diremo. Nietzsche, Weber, Heidegger.
Autori di sfondo in che senso? Non semplicemente nel fatto che abbiano pensato la categoria di ‘politeismo moderno’ che ormai risulterebbe imprescindibile oggi. In realtà in tutti e tre il concetto di politeismo non è affatto centrale, se non assente. Tuttavia Nietzsche, Weber e Heidegger sono i pensatori di quella modernità che sono tra gli autori di riferimento tra chi oggi, anche senza fare esplicito riferimento a loro, ha usato il politeismo – volendo fare del politeismo un elogio – come chiave di lettura del mondo moderno e contemporaneo.
Weber parlò di politeismo, e più precisamente di “politeismo dei valori”. Però, ripetiamo: non è qualcosa di centrale in Weber, piuttosto è una conseguenza della sua sociologia. Cosa vuol dire politeismo dei valori?
E qui entra di scena Nietzsche, il quale aveva annunciato la morte di Dio. In che senso? Nel senso che siamo ormai tutti non cristiani e anche chi dice di credere in Dio non ci crede poi così tanto? No: in realtà Nietzsche ha una esplicita antipatia per il rozzo ateismo moderno. Dice Nietzsche: la morte di Dio come fenomeno della modernità non è l’ateismo, bensì il tramonto di tutti quei valori che furono un tempo ritenuti fondanti. Quindi la morte di Dio non per la vita degli Dei (anzi, Nietzsche del tutto coerentemente ne La nascita della tragedia scrive: “Tutti gli dei devono morire”; anche in Così parlò Zarathustra: “Morti sono tutti gli dei: ora vogliamo che viva il superuomo”, «Della virtù che dona», 3): non si tratta di politeismo contro monoteismo, in senso propriamente teologico. Si tratta invece della morte del mondo soprasensibile in quanto mondo degli ideali, delle idee eterne, delle (o della) verità: il mondo vero, autentico, quello veramente reale, in contrapposizione al nostro mondo, inteso come transeunte, apparente, mutevole, irreale.
Quindi morte di Dio vuol dire morte della metafisica: non c’è più nulla a cui l’uomo possa attenersi e secondo cui possa regolarsi. Il nichilismo batte alla porta. Tutta la metafisica, tutta la filosofia, lo stesso Occidente hanno come loro carattere il nichilismo, nella misura nella quale Platone fonda tutto nel sovramondano (inaugurando quindi la filosofia come nichilismo); ma solo noi moderni ce ne stiamo rendendo conto, chiamandolo con il suo nome. Quindi il nichilismo non è una corrente di pensiero a fianco alle altre: non è come dire idealismo, cristianesimo, positivismo, ecc; è invece il carattere, il destino dell’Occidente. Heidegger scrive: “La metafisica è l’ambito storico in cui diviene destino che il mondo ultrasensibile, le idee, Dio, la legge morale, l’autorità della ragione, il progresso, la felicità del maggior numero, la cultura, la civiltà perdano la loro forza costrittiva, e si annullino”; persino il cristianesimo potrebbe essere “un derivato e un momento dello sviluppo del nichilismo”. Queste parole Heidegger le scrive nel suo notissimo saggio “La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto»”. Heidegger è il grande interprete di Nietzsche nel ‘900: i suoi corsi universitari su Nietzsche tra il ’36 e il ’40 erano tesi a interpretare il pensiero di Nietzsche come compimento della metafisica occidentale. Oggi, in filosofia occuparsi di Nietzsche vuol dire anche confrontarsi con la lettura di Heidegger, e viceversa. Nietzsche e Heidegger: gli autori della modernità.
Ma cosa dice Nietzsche a riguardo del politeismo? C’è un pensiero (il 143) ne La gaia scienza che si intitola «Il vantaggio più grande del politeismo». Eccolo qui riportato:

Che il singolo si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti – questa fino ad oggi è stata considerata come la più mostruosa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé: in realtà quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la necessità di una apologia davanti a se stessi, ed essa di solito s’esprimeva in questi termini: «Non io! Non io! Ma un Dio attraverso di me!». Fu nell’arte e nella forza mirabili di plasmare dèi – il politeismo – che questo istinto potè disgravarsi, purificarsi, giungere a perfezione, nobilitarsi: infatti, in origine, era questo un istinto volgare e meschino, affine alla testardaggine, alla disobbedienza e all’invidia. Essere ostili a questo istinto di un proprio ideale: era questa, una volta, la legge di ogni eticità. Non c’era, allora, che una sola norma: «l’uomo» -  e ogni popolo credeva di possedere quest’unica e ultima norma. Ma, al di sopra e fuori di sé, in un lontano oltremondo, si poteva vedere una molteplicità di norme: un dio non era la negazione o la bestemmia di un altro dio! Qui per la prima volta furono permessi individui, qui per la prima volta si onorò il diritto degli individui. L’inventare dèi, eroi e superuomini di ogni specie, come pure esseri affini agli uomini o subumani, nani, fate, centauri, satiri, demoni e diavoli, costituì l’inestimabile propedeutica per la giustificazione dell’egoismo e della sovranità del singolo: la libertà che si accordava al dio contro gli dèi, la si attribuì infine a se stessi contro leggi e costumi e vicini. Il monoteismo, invece, questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico – la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono che dèi falsi e bugiardi – costituì forse il pericolo più grande nel corso dell’umanità fino a oggi; fu allora che rappresentò una minaccia per l’umanità quell’arresto prematuro, già da un pezzo raggiunto, per quel che c’è dato sapere, dalla maggior parte delle altre speci animali: in quanto esse tutte credono in un animale unico, normativo e ideale della loro specie e hanno definitivamente tradotto in carne e sangue l’eticità del costume. Nel politeismo era come preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità dell’uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali, sempre più nuovi e personali: cosicché per l’uomo soltanto, in mezzo a tutti gli animali, non esistono orizzonti e prospettive eterne.

Varietà, multilateralità, polisemia, polimorfismo, plurisignificati, pluralismo, poliarchia. Questi e altri termini analoghi vengono usati da sociologi, filosofi, psicologi, antropologi, storici che si confrontano con l’epoca moderna, un’epoca segnata dal politeismo, dal weberiano politeismo dei valori.
Certo, Weber non è Nietzsche, anche se c’è chi ha cercato tracce nietzschiane nel pensiero del sociologo tedesco; e ancor meno è Heidegger, ma certamente egli si muove all’interno di un pensiero post-nietzschiano, nella misura nella quale Nietzsche è stato il profeta della società moderna. Ogni società ha i suoi valori, ogni uomo ha i suoi valori – e quanto sono in concorrenza e in contraddizione i valori in un singolo uomo! –, i sistemi politici hanno i loro valori, ecc. Insomma, la modernità si connota come un campo di lotta fra diversi valori tra cui l’uomo deve prendere posizione e che non si conclude mai con la vittoria di un valore solo (o di un sistema di valori). Il mondo dell’esperienza non arriva mai al monoteismo, fermandosi al politeismo.
Inoltre, come causa ed effetto, crollano le verità metafisiche, le certezze teologiche; nel frattempo, sulla via dell’individualismo di derivazione cartesiana, scopriamo la persona come centro della vita, dei valori, delle esigenze; ma scopriamo anche l’estraneità, l’esistenza di società altre dalla nostra (altre nel loro sistema economico, politico, morale, religioso, ecc.). E allora: relativismo. Siamo proprio sicuri che i nostri valori sono gli unici e veri valori? E ancora: lo scontro e l’incontro tra culture. Chi si deve assoggetare a chi? Si deve ospitare l’altro, ma come si fa se non lo accettiamo in quanto altro? E il monoteismo in tutto ciò? Il monoteismo inteso come desiderio e volontà, nella storia di tutto l’Occidente, di cercare la norma unica, vera, incontrovertibile, valida universalmente; la legge, i valori; di ricondurre tutto all’uno, all’unico. In questo senso il monoteismo non sarebbe violenza nei confronti di chi non si riconosce in valori che scopriamo molto più culturalmente determinati di quello che non sospettassimo prima? Ovviamente metafisica e monoteismo in questo caso vanno a braccetto: l’uno non è che il presupposto dell’altro. Metafisica e violenza: un titolo di un noto saggio di un altro profeta della modernità molto seguito: Derrida.
Ecco allora che siamo arrivati a spiegare “politeismo dei valori”, in questo senso – sì – contrapposto al monoteismo dell’Occidente.
Anche la sociologia contemporanea ha accolto questa situazione. Prima i sociologi parlavano di melting pot, per cui gli immigrati avrebbero dovuto gradualmente abbracciare le modalità culturali dei paesi ospitanti. Ma con il tempo le minoranze culturali hanno voluto fare valere le loro differenze come ricchezze in quanto principi delle loro identità. Per questo ora la teoria del melting pot ha ceduto il passo a quella del salad bowl (insalatiera): ci si mescola, ma ognuno mantiene la sua identità culturale, con tutto ciò che è legato ad essa. Ovviamente tutto ciò non fa altro che decostruire ulteriormente la nostra stessa identità, già in crisi per il tramonto dei vecchi valori.

Un anedotto su Eraclito

Aristotele ci riporta il seguente anedotto su Eraclito. Alcuni stranieri volevano andare da lui per vedere come vive e che aspetto ha un pensatore quando pensa. Ma lo trovarono mentre si stava scaldando i piedi davanti al fuoco. “S’arrestarono sorpresi, soprattutto perché, vedendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli a entrare, con queste parole: «Anche qui sono presenti gli dei»”.
“Anche qui sono presenti gli dei”. Questa frase ha avuto un certo successo tra i filosofi. E guarda caso, Heidegger racconta l’anedotto appena citato nella Lettera sull’umanismo. Cosa dice ad Heidegger questa vicenda narrataci da Aristotele? È un esempio dell’autenticità che l’uomo deve assumere su di sé se non vuole cadere in un vivere quotidiano che sia pura chiacchiera, distrazione, vanità. Anche qui sono presenti gli dei vuol dire che è nella realtà quotidiana che vanno cercati e vissuti; ma questa realtà va interpretata in una maniera nuova rispetto al modo in cui svolgiamo la nostra vita solitamente. Bisogna pensare la realtà ridandole la sua dignità. Quando le diverse “cose”, situazioni, persone vengono guardate e vissute con autenticità, esse divengono qualcosa di nuovo: esse si offrono, si aprono, la loro esistenza si squaderna davanti ai nostri occhi. Ogni “ente” (tanto per usare un po’ di terminologia heideggeriana) ha una sua verità, una sua ricchezza, una sua incommensurabile profondità, una sua misteriosità, le quali vengono tutte chiuse, spezzate, cancellate davanti a uno sguardo leggero, non meditativo, inautentico. Possiamo stare in questa stanza e interpretarla come un luogo, e allora ci priviamo della possibilità di pensare la stanza. Allora ci sembrerà un’aula come un’altra. Non ci danno la prossima settimana questa aula, bene andiamo nell’altra. E così via. Ma se invece vediamo in questa stanza quell’ente che ci parla dei nostri incontri, degli anni passati qui, prima come studenti, poi come laureandi, poi ancora come laureati, dottorandi, ecc., delle persone viste, scordate, amiche, delle discussioni, dei progetti, delle intuizioni che è stato bello avere o ascoltare, delle sciocchezze che ci sono scappate, delle banalità, e via dicendo: bene, in questo caso non è poi così vero che un’aula equivale a quell’altra.
Troviamo la stessa frase di Eraclito in un altro teorico della modernità dello scorso secolo: Hans Blumenberg. Egli dice: per Eraclito tutto era pieno di dei, oggi tutto è pieno di teorie scientifiche; bisogna perciò riconquistarsi una nuova semplicità. Una semplicità che passa per la rivalutazione e una nuova amicizia verso i miti (e infatti Blumenberg ha scritto un libro poderoso sull’Elaborazione del mito). Questo in contrapposizione alla tirannia del Dio unico e onnipotente, del Logos onnipervadente: insomma contro la ragione monoteistica. Solo il politeismo può riaprirci spazi di libertà. Per rispondere agli interrogativi ultimi dell’uomo non basta la ragione filosofica (logos), ma bisogna andare al di là di se stessi per cogliere tutto in una giusta prospettiva: quindi solo il mito può essere questo appoggio esterno. “Il mito risolve le aporie del Logos”.
E ancora, passando a un altro autore, troviamo la frase eraclitea come titolo di un capitolo dell’ultimo libro di Salvatore Natoli, Stare al mondo. Dice Natoli: al politeismo antico non si torna; il politeismo moderno invece va concepito come emancipazione del pensiero dall’uno. Eppure un qualche ‘uno’ era presente anche nel mondo antico. Si trattava di un “sentirsi parte”, essere un momento della totalità. E Natoli fa riferimento all’idea di natura, alla grande madre. E anche la Grecia ebbe il suo pensiero dell’uno, con Parmenide. Ma questa unità, ancor prima che essere intesa come essere, lo era come natura, physis.
Il politeismo antico è altro dal monoteismo ma si formula come singolare monismo: coincidenza natura-tutto. Ma allo stesso tempo la natura è ciò che si differenzia, da essa nascono gli dei e gli uomini: è il luogo del molteplice illimitato e in cui tutto è divino. Per i greci l’unità non è un’entità separata, non è qualcosa che precede il mondo ponendolo in essere. Essa coincide con il mondo: deus sive natura.
Il monoteismo inaugura un ‘dualismo asimmetrico’ caratterizzato dalla dipendenza. I greci invece guardano alla varietà del mondo come molteplicità in unità. Quindi il politeismo non è semplicemente la credenza in più dei, ma è la percezione della divinità di tutte le cose (cerchiamo di leggere queste parole di Natoli avendo in mente il discorso che fa Heidegger – cui Natoli tra l’altro fa esplicitamente riferimento – e cioè vedere le cose senza sovrastrutture, aprendoci alla loro ricchezza).
C’è una differenza tra il politeismo antico e quello moderno: in quest’ultimo ogni parzialità pretende spesso l’unicità. In ciò sta l’eredità della prepotenza dell’uno. Nell’antico politeismo invece ogni determinazione è parte e momento di una totalità. Questa lettura del politeismo antico – scrive Natoli – valorizza il passato per il futuro. Il politeismo coglie le differenze come sfacettature del medesimo e il medesimo come dispiegarsi delle differenze. Ciò non esclude il conflitto, anzi a volte lo scatena. Nel contempo però si è invitati alla venerazione delle cose, sante nella loro fragile unicità.
Se Eraclito diceva che “anche qui ci sono gli dei”, ciò significa che il politeismo vede il divino ovunque e quindi invita alla pietas universale. La crudeltà è ineliminabile nella natura; la pietas sarà quindi un contromovimento, determinandosi come reciprocità e condivisione.
Essere fedeli alla terra. Questo era l’imperativo continuamente ribadito da Nietzsche, in contrapposizione alle teorie dell’altro mondo, del retro mondo, delle verità come principi, dei valori, delle teologie e metafisiche. Questo imperativo è ripreso più volte negli scritti di Salvatore Natoli. Si tratta di un filo rosso rinvenibile in tutti gli elogi del politeismo contemporanei: ormai non c’è più nessuna legge eterna che ci possa salvare o dare almeno la ricetta della verità e della felicità. Dobbiamo essere allora fedeli alla terra, alla nostra condizione di esseri umani, mortali, limitati, alle nostre piccole gioie sempre passeggere. E nel fatto che siano passeggere dobbiamo trovare motivo di maggiore felicità (sono così rare e preziose!) rispetto a quella che potremmo trovare in qualche teoria consolante che ci racconti la storiella dell’altro mondo eterno e buono. Tutto va valorizzato positivamente, anche ciò che la ragione monoteistica ha voluto per tutta la sua storia sopprimere. In un altro suo scritto (Nietzsche e i greci: il problema del tragico, ora contenuto in I nuovi pagani), Natoli cita da un paragrafo di Umano troppo umano di Nietzsche, dedicato al paganesimo dei greci. In che cosa consiste il paganesimo dei greci secondo Nietzsche? Essi prendevano tutto quello che era umano troppo umano e gli davano uno statuto di esistenza, invece di ingiuriarlo: una specie di diritto, anche se di secondo ordine. I greci non volevano negare completamente il male: esso c’è, è una realtà umana; “a loro basta che esso si moderi e non colpisca a morte o avveleni internamente ogni cosa – vale a dire essi pensano in modo simile ai plasmatori dello Stato greco e non sono stati i maestri e i precursori”.

Ora abbiamo parlato di diversi autori. Sarebbe interessante tornare ad Heidegger per vedere cosa dice degli dèi; sarebbe interessante, ma Heidegger è troppo difficile per poterne parlare in pochi minuti. Magari un’altra volta.
Ma almeno altri due autori – ce ne sarebbero tanti! – sono da citare obbligatoriamente: David L. Miller e Odo Marquard. Il primo ha scritto un libro dal titolo “Il nuovo politeismo” (prima edizione: ’74; seconda: ’81); il secondo un articolo (testo di una conferenza del ‘78) dal titolo “Lode del Politeismo – A proposito di monomiticità e polimiticità”. Sono veramente due testi di riferimento, basilari.


Bibliografia
- Odo Marquard, «Lode del Politeismo – A proposito di monomiticità e polimiticità», in: Id., Apologia del caso, Il Mulino, 1991;
- David L. Miller-James Hillman, Il nuovo politeismo, Edizioni di Comunità, 1983;
- Ugo Volli, «Fare dèi», in: Id., Fascino – Feticismi e altre idolatrie, Feltrinelli, 1997;
- Id., Per il politeismo – Esercizi di pluralità dei linguaggi, Feltrinelli, 1992, Parte prima;
- Roland Barthes, Miti d’oggi, Lerici, 1961;
- Hans Blumemberg, Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, 1967;
- Id., Elaborazione del mito, Il Mulino, 1991;
- Id., La leggibilità del mondo, Il Mulino, 1984;
- Emile Cioran, Il demiurgo cattivo, Adelphi, 1986;
- Alain De Benoist, Come si può essere pagani, Basaia, 1984;
- Carlo Formenti, Piccole Apocalissi, Raffaello Cortina Editore, 1991;
- Heinrich Heine, Gli dei in esilio, Adelphi, 1978;
- Serge Moscovici, La fabbrica degli dei, Il Mulino, 1991;
- William James, Un universo pluralistico, Marietti, 1973;
- Salvatore Natoli, «Anche qui sono presenti gli dèi», in: Id., Stare al mondo, Feltrinelli, 2002;
- Id., I nuovi pagani, Il Saggiatore, 1995;
- Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, in: Id., Segnavia, Adelphi, 1987;
- Id., «La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”», in: Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, 1968;
- Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, 1965;
- Id., Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1968;
- Id., Umano troppo umano II, Adelphi, 1967;