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L’epidemia si diffonde sulle vie del commercio

di Giuseppe Remuzzi - 09/01/2006

Fonte: corriere.it

«One medicine» (una medicina): parrebbe l’uovo di Colombo, curare gli animali per curare l’uomo. C’è nel libro di Calvin Schwabe «Medicina veterinaria e salute dell’uomo» pubblicato negli Stati Uniti. Non è più tempo di specializzazioni. Gli studi sulle cause delle malattie degli animali e dell’uomo vanno fatti insieme, e veterinari e medici devono lavorare insieme. Un’idea niente affatto nuova: Claude Bourgelat, alla fine del ’700 proponeva con grande lungimiranza che il curriculum di studi dei veterinari dovesse prevedere la conoscenza delle malattie dell’uomo. Lo criticarono, come succede spesso nella scienza. Così per l’influenza dei polli non ha senso fare scorte di farmaci antivirali, se contemporaneamente non si vaccinano i polli. In primavera in un lago del nord della Cina sono morti 5.000, forse 6.000, uccelli migratori, ma le autorità cinesi non hanno voluto che i virologi ed esperti di altri Paesi studiassero gli uccelli sopravvissuti. E’ così che si perdono le opportunità di fermare il virus. E non ha un grande senso fare enormi sforzi negli Stati Uniti e in Europa, se lo stesso non succede in Cina, India, Russia. C’è abbastanza da fare per ciascuno. Riuscire a capire, per esempio, chi è che diffonde l’H5N1. Gli uccelli migratori si dirà. E sembrerebbe logico, considerata la diffusione del virus dall’Asia alla Siberia, al Kazakistan, alla Turchia forse alla Grecia, Macedonia, Romania e adesso all’Italia. Ma non è così sicuro che il virus venga dagli uccelli migratori. Si sono fatti prelievi da migliaia di uccelli migratori (sani) senza che si siano mai trovate anatre selvatiche o altri uccelli d’acqua che avessero addosso l’H5N1. E, a pensarci bene, è abbastanza logico perché gli uccelli ammalati non volano (il virus dà subito problemi al sistema nervoso) e così è difficile che possano diffondere il virus. E poi l’epidemia non segue veramente le vie della migrazione mentre ci sono evidenze abbastanza forti che siano state attività commerciali a diffondere l’epidemia dal Tibet alla Cina.