Difendere la notte
di Antonello Colimberti - 11/01/2006
Fonte: Antonello Colimberti
Note di ecologia del tempo
È possibile leggere i grandi momenti di passaggio da un paradigma sociale ad un altro anche attraverso il modo di rapportarsi alla dimensione spazio-temporale.
Così, il passaggio dalla società tribale a quella agricolo-patriarcale si caratterizzò come una <<civilizzazione>> di spazi e di luoghi pur sempre limitata (sussistevano le terre denominate dalle antiche carte geografiche come hic sunt leones con annessi i favolosi racconti sugli uomini selvatici).
La società industriale, invece, ha esteso il proprio dominio a tutto lo spazio, ma non ha voluto e/o potuto controllare tutte le ore, i giorni, i mesi dell’anno (anche di qui il fascino della notte per ogni cultura <<alternativa>>, dal Romanticismo in poi).
Solo con la presente <<terza ondata>> post-industriale (o super-industriale?) la colonizzazione spazio-temporale trova la sua piena realizzazione con il superamento delle <<frontiere della notte>> (questo il titolo di un volume discutibile ma documentatissimo del sociologo americano Murray Melbin, tradotto nel 1988 per le Edizioni di Comunità).
L’estensione dell’attività umana diurna all’intera notte, proprio perché ancora in fase iniziale in Italia, merita di essere discussa da varie angolazioni e con il contributo di varie discipline sia sotto il profilo analitico che sotto quello operativo.
Infatti, se per un certo verso la scomparsa della notte come dimensione <<altra>> rispetto al giorno investe ogni abitante del pianeta, non va neppure dimenticato che le gerarchie rischiano non solo di riprodursi, ma di rafforzarsi.
Per fare un esempio, il citato Melbin, che non è certo un operaista né un radical, ricorda che <<il lavoro serale e notturno riguarda principalmente operai e tecnici più che impiegati e professionisti e, in genere, più la gente di colore che i bianchi>>; inoltre, <<molte aziende, specie nei paesi europei più industrializzati, affidano il lavoro notturno alla mano d’opera straniera>>.
Le motivazioni che i sostenitori della colonizzazione della notte adducono sono molteplici, dalle più sciocche alle più sottili e insidiose: alla prima categoria appartengono quelle, ad esempio, secondo cui <<verrà un giorno, e nemmeno tanto lontano, in cui riusciremo a fare a meno del sonno; la scienza è già riuscita a curare la sterilità, ad allungare la vita, a trapiantare organi da un corpo all’altro, a creare nuovi organismi con la biogenetica: finirà senz’altro con l’abolire il sonno>>.
La seconda categoria di risposte è del tipo di quelle fornite laddove si pretende radicalmente la chiusura delle produzioni nocive ed inquinanti: l’esigenza di aumentare la produzione ed incrementare i consumi come unico modo di accrescere il benessere e favorire l’uguaglianza sociale.
Ciò, tuttavia, non è affatto scontato e deve essere oggetto di discussione.
Già alcuni anni fa l’antropologo Marshall Sahlins in un lavoro di grande importanza (in Italia tradotto da Bompiani con il titolo L’economia dell’età della pietra ) descriveva due strade verso l’abbondanza: intensificare la produzione oppure contenere i propri bisogni; la prima è la strategia dell’economia di mercato, l’altra è quella dell’economia <<selvaggia>> di società non-patriarcali e non-statuali.
Ciò dovrebbe spingere il dibattito sulla colonizzazione della notte ad affrontare finalmente quella parola chiave nella questione dell’ambiente che in Italia ancora pochi hanno il coraggio di pronunciare: <<autolimitazione>>, parola, che non ha niente a che vedere con le <<politiche dell’austerità>>, bensì con la critica radicale del modello di sviluppo espansivo e con la ricerca di modelli decelerati, non-violenti, comunicativi, anti-gerarchici, partecipativi, di produzione e consumo.