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Guarnieri: la repressione del brigantaggio fu come in Vietnam o in Iraq

di Ranieri Polese - 03/03/2008

Il romanzo torna al Risorgimento


Forse è per via di un anniversario (i 160 anni dalle Cinque Giornate di Milano: vi accenna Valerio Evangelisti nella introduzione a Controinsurrezioni, edito negli Oscar Mondadori, pp. 120, e 8,40) ma forse no. L'interesse per il Risorgimento fra i narratori italiani di oggi è, comunque, un fatto. Il '48 va per la maggiore: Una storia romantica di Antonio Scurati, uscito da Bompiani nell'autunno scorso, si ambienta nella Milano insorta contro gli austriaci. Poi ci sono Antonio Moresco ed Evangelisti (quest'ultimo sui giorni estremi della Repubblica romana del '49). Luigi Guarnieri si sposta un po' più in là: il suo I sentieri del cielo (Rizzoli, pp. 327, e 19) parla della guerra al brigantaggio nella Calabria del 1863. Di queste prove narrative, quella di Antonio Moresco, nata come un soggetto per un film, sfrutta i mezzi cinematografici (montaggio incrociato, flashback eccetera) per moltiplicare i piani temporali con un passare continuo tra la Milano delle barricate del '48 e la Napoli del 1799, dai pensieri atei di Leopardi alla morte di Pisacane, a Sapri, 1857.
Comune a tutti e quattro gli scrittori la scelta di un periodo storico dimenticato, cancellato dalla memoria collettiva, tanto che oggi nessuno sa più che cosa e chi rappresentino i monumenti e le statue celebrative che, erette all'indomani dell'Unità, devitalizzarono una storia fatta di sangue, passioni, coraggio, morti. È, nei fatti, una ripresa della lettura gramsciana del Risorgimento in termini di «rivoluzione passiva», della nascita dello Stato unitario come conquista regia, della mancata rivoluzione sociale che approfondì il divario tra le minoranze dei patrioti e le grandi masse contadine. Tra le due Italie, il Centro-Nord e il Meridione dove, appunto, braccianti delusi dalla mancata distribuzione delle terre e soldati sbandati del disciolto esercito borbonico dettero vita, dopo il 1860, a una guerra civile etichettata con il nome di brigantaggio.
Per tutti questi scrittori vale quello che ha dichiarato Scurati: è il Risorgimento «l'unica stagione epica del nostro immaginario poetico-nazionale a essere la più dimenticata». Ed è quella che — sempre Scurati — suona come una «condanna dell'avvilente piccineria del nostro presente ». Gli fa eco Moresco che presentando il suo racconto lo descrive come «una cosa che ha qualcosa di forte da dire nella situazione di oggi, in mezzo agli anniversari e alle celebrazioni retoriche e vuote del Risorgimento che coprono una profonda e grottesca restaurazione in ogni campo».
Certo, Scurati, Moresco ed Evangelisti scelgono il momento — il biennio 1848-49 — in cui è la linea radicale a prendere l'iniziativa; qui c'è una «tensione etica », anche un furore giacobino che non si ritroveranno certo nel programma della monarchia piemontese e nei moderati del partito di Cavour. La sconfitta mazziniana del '49 e la caduta della Repubblica romana segnano infatti la svolta verso la «conquista regia». Diversa è la situazione storica del romanzo di Guarnieri: conquistato il Sud da Garibaldi, 100 mila soldati del nuovo Regno vengono mandati a combattere contro i banditi del Meridione, con massacri, fucilazioni sommarie, violenze che la storia ufficiale non riporterà.
Un passato, insomma, doppiamente rimosso: censurato all'epoca, dimenticato poi (nonostante il folcloristico revisionismo filo-borbonico di quest'ultimo decennio). Per i soldati del 1863 le illusioni, gli ideali non contano più, c'è solo una sporca guerra da vincere a ogni costo. Ma pure per Guarnieri qui c'è «materia epica, un'occasione unica per un narratore di oggi, che voglia con realismo raccontare fatti storici dimenticati». E tutti questi scrittori sono concordi nella convinzione che solo il romanzo può servire a capire, far capire il nostro passato. «Solo la narrativa può restituire, in parte, il sapore di ciò che accadde. Gli odori, i colori: una verità che lo storico, vincolato a criteri quantitativi e a valutazioni asettiche, non può permettersi» scrive Evangelisti. Ai romanzi, dunque, spetta il compito di non disperdere una volta ancora «la vivacità sovversiva dei fatti d'arme — cruenti più di quanto non si creda — che ci hanno fatto nazione. Solo gli scrittori potrebbero rianimare il Risorgimento, e farlo uscire dal sacello, simile alla ghiacciaia di un frigorifero, in cui è rinchiuso. Conservato bene, però freddo freddo».
Calabria, inverno del 1863. Lo squadrone di soldati a cavallo, comandato dal maggiore Albertis, perlustra la Sila in caccia della banda di Evangelista Boccadoro, il capo-ribelle che dal suo rifugio sui monti conduce una guerriglia spietata contro i «piemontesi», i latifondisti che si sono spartite le terre, i borghesi che hanno giurato fedeltà al nuovo Stato. Siamo nel culmine della Guerra del Brigantaggio, la tremenda guerra civile che durò nel Meridione d'Italia per circa dieci anni dopo l'Unificazione. Una guerra spietata, condotta con poteri eccezionali sanciti, nel 1863, dalla Legge Pica. Un conflitto contrassegnato da una serie di barbari rituali, come le fotografie post mortem dei banditi, le loro teste mozzate esposte come monito per le popolazioni. Un dispendio di vite, una quantità di efferatezze incalcolabili. Anche i banditi, dal canto loro, si comportavano con altrettanta ferocia, sterminando le famiglie dei possidenti, ammazzando il bestiame, avvelenando i pozzi, dando fuoco alle colture, castigando con la morte e le mutilazioni i traditori e le spie.
«Ho voluto raccontare una guerra rimossa, che la storia ufficiale ha cercato di far dimenticare: il nuovo Stato voleva vincere a tutti i costi, certo però fece di tutto per nascondere i metodi e l'ampiezza di quel conflitto», spiega Guarnieri. «Ci fu, è vero, una commissione parlamentare d'inchiesta, ma molti dei suoi atti furono occultati. Doveva passare una sola versione: che si trattava di una rivolta di briganti analfabeti armati dai Borbone e dallo Stato Pontificio». Tornano in mente le parole di Antonio Gramsci, che già nel 1920, su Ordine nuovo scriveva: «Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti». «Per questo non uso mai la parola briganti nel libro», continua Guarnieri. «Certo, non copro, non maschero nemmeno le azioni terribili degli insorti: il racconto dei pochi mesi di quell'inverno 1863 registra atrocità da una parte e dall'altra. Sì, questi soldati mandati in un mondo arretrato di cui non capiscono la lingua e non conoscono gli usi, le tradizioni, le credenze, ricordano i militari americani in Vietnam, Afghanistan, Iraq. E c'è un'altra concordanza: l'aver sciolto l'esercito borbonico e rimesso in libertà quei soldati fornì ai ribelli un'enorme massa di sbandati. Un po' come è successo in Iraq con l'esercito di Saddam ».