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Israele-Palestina, due pesi e una misura

di Alain Gresh - 14/01/2006

Fonte: ilmanifesto.it

 
Negli ultimi anni, in modo sottile e impercettibile, dirigenti e media europei hanno cambiato il loro modo di affrontare il dramma della Palestina e la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Durante tutto il periodo del cosiddetto «processo di Oslo», era chiaro che si sarebbe arrivati a una soluzione al termine di un insieme di trattative basate sul ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati nel 1967, compresa la parte Est di Gerusalemme, l'instaurazione di confini stabili tra lo stato palestinese e Israele, e una soluzione accettabile per i rifugiati palestinesi. Lo scoppio della seconda intifada, a fine settembre 2000, la repressione sanguinosa compiuta dall'esercito israeliano fin dai primi giorni - mesi prima che iniziassero gli attentati suicidi -, il progressivo aumento della violenza, l'elezione di Ariel Sharon a primo ministro, la moltiplicazione degli attentati contro i civili israeliani e poi la ripresa del totale controllo dei territori occupati da parte dell'esercito israeliano, hanno segnato gli ultimi anni. Eppure, sul piano del diritto internazionale e qualunque sia il giudizio sulla strategia e la tattica dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), i problemi di base rimangono: la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est restano territori occupati, Israele resta una potenza occupante e la creazione d'uno stato palestinese indipendente resta la chiave della pace. Ciò nonostante, le dichiarazioni dei dirigenti europei e le notizie che rimbalzano sui media producono un ribaltamento di prospettiva: ormai, tocca ai palestinesi - e cioè agli occupati - dar prova di buona volontà. I riferimenti dell'Unione europea agli obblighi di entrambe le parti mal nascondono l'adesione al punto di vista del primo ministro israeliano: ogni passo avanti sulla via della pace dipende dall'Anp, che deve riformarsi, liquidare i gruppi armati, dar prova di voler coabitare con Israele. Un adeguamento altrettanto visibile nei media, inclini a cancellare la realtà della politica israeliana, a sottovalutarne il carattere repressivo e contrario al diritto internazionale, a nascondere i crimini di guerra che commette.

Il ritiro dalla striscia di Gaza durante l'estate 2005 costituisce, da questo punto di vista, un altro esempio illuminante. Per settimane, i media internazionali hanno puntato i riflettori su qualche migliaio di coloni evacuati, dilungandosi sulla loro sofferenza e sul pianto dei soldati che dovevano farli andare via. Pochi giornalisti hanno ricordato che, per la Corte penale internazionale, la «colonizzazione» è un crimine di guerra. Che quei coloni sono per lo più fanatici pronti a sparare sui civili palestinesi. Che decine di migliaia di palestinesi di Gaza sono stati deportati nel corso degli ultimi anni, senza che ciò abbia suscitato la minima emozione in Occidente. Peggio, il ritiro da Gaza è stato presentato come un «gesto» significativo compiuto da Ariel Sharon, che gli ha fruttato un aumento d'immagine negli Usa e in Europa.

Eppure, come ricordano le Nazioni unite, Gaza rimane un territorio occupato, le truppe israeliane vi compiono numerose incursioni - il governo israeliano ha anzi deciso d'installare una «zona di sicurezza» sul territorio palestinese e perciò di espellere una parte della popolazione... E minaccia di staccare la luce a tutta la Striscia di Gaza - un'altra punizione collettiva contraria alle convenzioni di Ginevra. L'Ong Human Rights Watch, in un comunicato del 23 dicembre 2005, faceva notare che una misura simile costituirebbe una violazione delle leggi di guerra, come già era accaduto il 24 settembre e il 12 novembre, quando Tel Aviv aveva deciso d'impedire l'entrata sul suo territorio a 5.000 lavoratori palestinesi, aggiungendo così altra sofferenza a una popolazione che, al 68%, vive sotto la soglia di povertà.

Mustapha Barghouti, il candidato che ha ottenuto circa il 20 per cento dei voti alle elezioni presidenziali dell'Anp, che si è svolta nel gennaio 2005, e che lo ha visto competere con Mahmoud Abbas, ha recentemente scritto un articolo intitolato «La verità che non volete sentire», in cui traccia un bilancio della situazione concreta, in Cisgiordania e Gaza: un bilancio molto distante dalla versione israeliana che «dà un'immagine assolutamente opposta al vero», e anche molto distante dall'immagine che ha potuto trasmettere la maggioranza dei media occidentali. Barghouti racconta anche la quotidianità imposta dal muro che circonda completamente una città come Qalqilya, che ha una sola porta le cui chiavi sono nelle mani degli israeliani. «Per attraversare il muro ci vuole un permesso quasi impossibile da ottenere. Quand'anche ci si riesca, bisogna tener conto degli speciali orari d'apertura. A volte l'esercito dimentica di aprire le porte, e gli studenti, i professori, gli infermieri, i malati, e la gente normale deve aspettare all'infinito».

Le conseguenze della costruzione del Muro di separazione sulla città di Gerusalemme sono confermate da un recente rapporto dei responsabili di una missione dell'Unione europea a Gerusalemme est. Il documento mette in luce alcune direttive, fra le altre, che riguardano la politica israeliana nella città santa: il completamento, ormai prossimo, della barriera intorno a Gerusalemme est, lontano dalla linea verde (la linea del cessate il fuoco del 1967); la costruzione e l'espansione delle colonie illegali per iniziativa privata o del governo israeliano, all'interno e all'esterno di Gerusalemme est; la demolizione delle case palestinesi costruite senza permesso (permesso che è quasi impossibile ottenere); il piano d'espansione della colonia di Maaleh Adoumim, che rischia di stringere il cerchio intorno alla città mediante l'installazione di colonie ebraiche e di dividere la Cisgiordania in due aree geografiche.

E intanto i consoli europei a Gerusalemme sottolineano che «le azioni d'Israele a Gerusalemme violano gli accordi della Road map e il diritto internazionale». Il risultato di tutte queste verifiche? L'Unione europea ha coraggiosamente deciso di non pubblicare il rapporto...
Anche gli appelli alla democratizzazione dell'Autorità palestinese appaiono privi di senso. Alle presidenziali del gennaio 2005, era evidente che l'Unione europea volesse solo un vincitore, Mahmoud Abbas : le numerose pressioni esercitate dal Fatah sulla commissione elettorale non furono perciò denunciate dagli osservatori internazionali né riprese dai media. Ormai, Javier Solana, commissario dell'Unione europea per la politica estera e per la sicurezza comune (Pesc) minaccia l'Autorità palestinese di toglierle il sostegno di Bruxelles, in caso di vittoria di Hamas nel gennaio 2006. Insomma, l'Europa dei 25 accetta le elezioni a patto che vincano i candidati che preferisce...

Come stupirsi allora che l'Ue rafforzi le relazioni con Israele, che sia più pronta a far pressione sull'Anp che a mettere in atto le sanzioni previste dagli accordi euromediterranei in caso di violazione dei diritti della persona, violazioni quotidiane nei territori occupati; come stupirsi che riceva i leader israeliani per «incoraggiarli» a proseguire su questa via, quando essa porta direttamente all'annessione di gran parte della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Il «processo di pace» aperto dagli accordi di Oslo è morto e sepolto. Si può pensare che avrebbe potuto essere una via per la stabilità, che si sono mancate delle occasioni. Sia come sia, non è più possibile tornare indietro. I palestinesi continuano a vivere sotto occupazione, la loro vita quotidiana è insopportabile, le loro aspirazioni all'indipendenza, schernite. E' un'illusione pensare che si possa assistere, in un futuro, a un cambio d'indirizzo del governo israeliano senza costanti pressioni internazionali per fare applicare il diritto internazionale, nient'altro che il diritto internazionale, il completo diritto internazionale. La resistenza dei palestinersi e la mobilitazione della frangia pacifista dell'opinione pubblica israeliana devono essere sostenute dalle sanzioni internazionali. 


Giornalista di Le Monde diplomatique.