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Fiducia cieca nel progresso scientifico

di Jacques Testart* - 16/01/2006

Fonte: greenplanet.net


OGM, una sorta di «fede» nel progresso scientifico impedisce un qualsiasi dibattito pubblico sugli orientamenti della ricerca. È scontro tra ragione e dogmatismo.

 
 Il 15 novembre, José Bové è stato condannato a quattro mesi di prigione senza condizionale per aver falciato alcune piante di mais transgenico. Ma i «falciatori» non sono forse portatori di un ragionevole dubbio, rispetto a un'attività dalle conseguenze poco conosciute? Una sorta di «fede» nel progresso scientifico impedisce un qualsiasi dibattito pubblico sugli orientamenti della ricerca. È scontro tra ragione e dogmatismo.

Le religioni hanno fortemente segnato la storia delle scienze, rifiutando quei progressi della ragione che contraddicevano i dogmi stabiliti.
Il fenomeno riguarda soprattutto la religione cattolica, poiché essa trionfava al momento della comparsa della scienza moderna.
Infatti, quale altro potere, se non la Santa Inquisizione, avrebbe avuto i mezzi per imbavagliare Galileo e bruciare Giordano Bruno (1)?
Per fortuna, nei paesi industrializzati lo sviluppo scientifico si è accompagnato a quello della democrazia, e Charles Darwin è stato risparmiato.
Tuttavia, anche se le religioni non hanno più il potere di eliminare gli scienziati blasfemi e le teorie sacrileghe, spesso si rifugiano nel divieto imposto al loro gregge o addirittura a intere popolazioni.

Così, in molti stati degli Stati uniti, la Chiesa riformata esige ancora che l'insegnamento della teoria dell'evoluzione non sia privilegiato rispetto al racconto biblico.
Così l'insegnamento della fisica è privo dalla teoria del Big-Bang in molti paesi dove la religione ufficiale è quella musulmana.
Così la Chiesa cattolica continua ad opporsi ovunque alla contraccezione o alla procreazione assistita.
Né si può trascurare il fatto che l'islam o il giudaismo continuano a proclamare norme obbligatorie, in particolare alimentari, le cui motivazioni non hanno alcuna giustificazione razionale.
Ma la storia del lysenkismo e della pseudo-ereditarietà dei caratteri acquisiti in Urss (2) dimostra che le religioni non sono gli unici poteri che rivendicano il controllo della scienza e di ciò che essa produce.
Di fatto, ogni potere costituito cerca di negare o di strumentalizzare la scienza, perché questa influenza la vita spirituale e materiale dei cittadini. È così per il «socialismo scientifico» come per le «commissioni scientifiche» di cui si fa bella la maggior parte dei partiti politici.

I poteri politici europei hanno scelto di riconoscere nella scienza la fonte privilegiata della verità e della ricchezza. Ma questo non comporta automaticamente che la scienza sia diventata neutra e universale.

Lo testimonia la rigidità di cui danno prova, in questi ultimi anni, i notabili dell'istituzione scientifica nei confronti delle rare idee rivoluzionarie proposte dai ricercatori.
Come, ad esempio, per la teoria ancor oggi non dimostrata di Jacques Benveniste sulla «memoria dell'acqua» (3) o per quella, poi coronata da un premio Nobel, di Stanley B. Prusiner sui prioni.
Non è forse tipico di un'ideologia, meglio di un'ideologia religiosa, istituzionalizzare le verità del momento come immutabili, farle difendere da preti intoccabili, guardiani del grande libro della scienza, e respingere violentemente ogni nuova idea, se costringe a correggere i dogmi su cui si fondano gli antichi paradigmi?
L'economista Serge Latouche dimostra che il progresso è una rappresentazione «auto-evidente» e che quindi «il suo emergere non può essere raccontato che come il trionfo di una luminosa verità eterna, già presente, ma nascosta e bloccata dalle tenebre (4)».

È un dato di fatto che lo stato della scienza non è in grado, momento per momento, di spiegare situazioni complesse e prevedere il loro epilogo.
L'incertezza delle previsioni appare evidente, visto che le conclusioni degli esperti sono considerate «ottimistiche» o «pessimistiche» invece che «vere» o «false». Il ritorno del dato soggettivo viene così a chiudere la proclamata obiettività del metodo scientifico.

Gli ottimisti hanno dalla loro un argomento inoppugnabile: il peggio non è dimostrato finché non si verifica.
Ma l'opzione ottimistica non dovrebbe autorizzare, per esempio, a negare l'effetto delle attività umane sui cambiamenti climatici o sperare, al massimo, che la temperatura media aumenti di due gradi piuttosto che di cinque o sei nel corso di questo secolo, una situazione che comunque obbligherebbe alle stesse misure precauzionali dell'opzione pessimistica.
Ugualmente per la disseminazione dei transgeni nella natura o l'inquinamento radioattivo dovuto all'industria nucleare: non si dovrebbe discutere dei fenomeni in sé, ragionevolmente ineluttabili, ma semmai del tempo necessario perché diventino insopportabili.

In conclusione, ciò che fa la differenza tra ottimismo e pessimismo è la fede.
Quella fede che fa credere agli ottimisti che il peggio non può succedere, perché si troverà una soluzione non ancora immaginata.

Qui lo scienziato, sottoposto al catechismo della tecnoscienza, spesso sceglie la profezia al posto del rigore. La più alta istanza francese in materia, l'Académie des sciences, da vent'anni continua a sbagliare per ottimismo su tutti i rischi relativi alla salute, che siano amianto, diossina o mucca pazza, senza parlare delle piante geneticamente modificate (Ogm).
Ogni volta, l'Accademia ha lodato l'innovazione e condannato l'oscurantismo dichiarando che non si può fermare il «progresso scientifico».

Il genoma, da informazione a programma
Ma il progresso scientifico non è necessariamente quello umano, a meno che non si accetti che il nostro destino debba essere regolato dagli interessi dell'industria e della Borsa.
Dopo lo scandaloso rapporto sugli Ogm (5), l'associazione Attac ha chiesto inutilmente un dibattito parlamentare sugli eventuali conflitti d'interesse nell'Accademia, ma gli esorcismi degli accademici contro «l'oscurantismo» (perfino in mancanza di veri argomenti scientifici), dimostrano che i conflitti sono anche ideologici.
È l'inserimento sul mercato della scienza che ha provocato il suo dogmatismo missionario, o è il contrario?
Quando la tecnoscienza diventa, nella più completa impunità, la sorgente di trovate potenzialmente pericolose, quando la sua capacità di fare rivela e consolida la dimensione ideologica dell'attività scientifica, allora il credo viene innalzato a conoscenza esatta e approfondita.

Non è quindi esagerato ritenere che alcuni aspetti della scienza rimandino ad un'attitudine religiosa che mal si accorda con la razionalità rivendicata (6).

Secondo il credo della scienza ufficiale, che si può definire magico o addirittura mistico, tutto, prima o poi, troverà una risposta, e questa risposta chiarirà la realtà nella sua interezza, perché le zone d'ombra e le contraddizioni sono tutte spiegabili.
Da questo punto di vista, si noterà quale posto privilegiato occupino, nella fede verso una scienza onnipotente, gli scienziati che credono in Dio.
Costoro sono tra i più devoti dello scientismo, come per farsi perdonare la loro intimità con l'irrazionale.
Oppure è la loro granitica impostazione di credenti che li spinge ad adorare l'aspetto religioso che scorgono nella scienza ritenuta onnipotente?

Lo scientismo può anche venire in aiuto della religione, come quando il futuro papa Benedetto XVI, nel 2000, per «scientizzare» la sua concezione dell'uomo, dichiarava: «Secondo le mie conoscenze di biologia, un individuo porta in sé, fin dall'inizio, il programma completo dell'essere umano, che poi si sviluppa (7)...».
Considerando il genoma un programma, invece che un'informazione, il cardinale Ratzinger avalla la scienza genetica più ortodossa, senza preoccuparsi del posto della libertà... o dell'anima.

Mentre «la casa brucia (8)», si può insistere nel peggiorare le cose continuando a stigmatizzare gli «oscurantisti», coloro che in nome di un principio di precauzione «eccessivamente cauto» desiderano controllare lo sviluppo della tecnoscienza.
Eppure, il controllo politico di un preteso predominio tecnico trova la sua giustificazione nel fatto che, come dice Paul Virilio, la tecnoscienza è un'importante deviazione del sapere. Nel mondo sempre più incerto che costruiamo, l'ottimismo non dovrebbe essere considerato un valore positivo, ma piuttosto un riflesso puerile della fede che ci consente di giustificare la politica dello struzzo per mascherare un comportamento suicida.

Ogni volta che si fanno osservare i rischi indotti dalla tecnoscienza, un'affermazione chiude qualsiasi velleità di approfondimento: «Non c'è scelta»...
Il che fa supporre che l'umanità non sarebbe libera di scegliere il suo destino.
Quando, in nome degli «interessi propri della scienza», i più alti responsabili della ricerca si dichiarano ostili al principio di precauzione, lasciano pensare che esistano attività prodotte dall'uomo il cui interesse sarebbe superiore a quello degli stessi esseri umani: A quanti ritengono che il reattore nucleare Iter o gli Ogm dimostrano che la nostra è l'epoca del «dominio», si può opporre che, al contrario, tali artifizi, le cui promesse sono ancora da verificare, fanno parte della vecchia utopia (9).

Ed è certamente la mistica del progresso e il credere in una «provvidenza laica» che permettono a chi ne ha interesse di intestardirsi con la coscienza pulita, e agli altri di non opporsi seriamente.
Una tale disposizione alla fede non vale solo per la scienza, tragica negazione dell'atteso trionfo del rigore grazie alla conoscenza scientifica!
Accanto alla criminale preoccupazione di sostenere la competitività (di imprese, laboratori, regioni, stati...) correndo più veloce del vicino verso il precipizio comune, un motivo meno triviale, ma altrettanto miserabile, spiega la passività delle popolazioni: l'umanità non può perdere proprio quando conquista il progresso tecnologico.
Siamo di fronte ad una concezione magica dell'evoluzione, secondo la quale, tra le specie animali, la nostra sarebbe la sola capace non solo di cambiare il mondo (il che è un fatto reale), ma anche di controllare i cambiamenti che induce (il che resta da dimostrare).

L'uomo è in grado di risolvere tutti i problemi che si pone?
È all'altezza delle proprie ambizioni di controllo?
Rispondere affermativamente, significa riconoscere una volontà creatrice sovrumana, ipotesi che, in genere, gli scienziati respingono.
Rispondere negativamente, o anche accettando il dubbio, vuol dire darsi qualche possibilità di agire con precauzione, con umiltà.

È forse nel campo della genetica che questo credo è particolarmente evidente.
Secondo due sociologhe americane, «così come la nozione di anima nel cristianesimo ha fornito il concetto archetipo che permette di capire la persona e la persistenza dell'io, nella cultura di massa il Dna ha assunto i caratteri di un'entità simile all'anima, o meglio di un oggetto da adorare, santo e immortale, o ancora di un universo proibito (10)».

Così, Téléthon può raccogliere in un giorno 100 milioni di euro (l'equivalente del bilancio annuale per il funzionamento della ricerca medica in Francia) lasciando credere che guarire le miopatie sia solo una questione finanziaria.

Quanto alle colture di Ogm, che pure presentano dei rischi ancora mal analizzati per l'ambiente, la salute pubblica e l'economia, e che fino ad oggi non hanno apportato alcun vantaggio ai consumatori, sono imposte alle popolazioni con il pretesto che i vantaggi arriveranno, inevitabilmente.

Questa scommessa secondo cui «andrà bene, per forza» è la testimonianza di un atteggiamento in cui la conclusione, necessariamente ottimistica, precede la dimostrazione, evidenzia, cioè, un atteggiamento non scientifico.

Nel 2000, il primo ministro francese, il socialista Lionel Jospin dichiarava, a proposito delle cellule staminali embrionali: «Grazie alle cellule della speranza (...) i bambini immobilizzati potranno finalmente camminare, uomini e donne menomati potranno alzarsi (11)».

E perché no la moltiplicazione dei pani?
Credere in simili miracoli permetterebbe perfino di saltare la dimostrazione preliminare di fattibilità e innocuità grazie alla sperimentazione animale.
Si potrebbe dimostrare che gli sviluppi dell'industria nucleare o delle nano-tecnologie, ad esempio, sfuggono anch'essi al rigore scientifico, come alla democratizzazione delle scelte sociali.

Fascinazione tecnofila
Come giustificare che in bioetica non esistano «princìpi» (o anche semplici riferimenti nelle aspirazioni o nei valori), contrariamente a quanto è successo, per esempio, per i diritti umani?
Perché la proibizione assoluta della schiavitù, e invece solo misure provvisorie (oppure niente) contro la trasformazione artificiale dell'umano, o contro l'eugenetica consensuale? Se si accetta che ogni regola bioetica sia rivista alla luce della realizzazione tecnica, l'etica non sarà altro che una morale del destino.
Poiché magnifica il credo di progressi miracolosi e illimitati, l'etica utilitarista finisce sempre col vincere le reticenze.

Michel Onfray, filosofo auto-nominatosi portavoce dell'ateismo, intende sostenere «tutto ciò che, poco o tanto, contribuisca alla messa a punto delle tecniche indispensabili all'avvio della medicina postmoderna: ectogenesi, clonazione, selezione sessuale, transgenesi (12)»

Per questo si oppone «all'opzione tecnofoba», argomentando che «la scienza in quanto tale è neutra». Per arrivare a questa certezza, è però costretto ad affermare alcune contro-verità («l'energia nucleare non ha mai ammazzato nessuno...» salvo Hiroshima e altre sbandate attribuibili solo a «delirio militare») e a prendere lucciole per lanterne, come nella successione delle due seguenti proposizioni in cui l'ipotesi si trasforma in certezza: «La rivoluzione transgenica permette di prevedere nuovi metodi di cura: questi eviteranno, grazie alle medicine predittive, l'instaurarsi delle malattie».

La fascinazione tecnofila può fornire facili sostituti ai miti che si crede di combattere.
Allora, sempre più spesso, una bioetica d'ispirazione scientista cortocircuita la fase di elaborazione di princìpi, che rischierebbero di paralizzare una situazione contraria alla dinamica competitiva.
Di conseguenza, la bioetica diventa solubile nel tempo, come lo è già nello spazio (da cui il «turismo medico») e nella casistica (si cede progressivamente, a partire da una concessione motivata fino alla generalizzazione di una pratica).
È la convinzione che un mondo migliore sta per realizzarsi, grazie alla scienza, che impedisce di interrogarsi per definire quell'umanesimo laico che manca alla bioetica.
Dire che «la scienza va più veloce dell'etica» vuol dire in realtà che la tecnoscienza precede e domina le scelte sociali.
La scienza non è quella costruzione solo razionale che abbiamo idealizzato, iconografia che la protegge dalle incursioni della critica.
Strumento forgiato dall'uomo, la tecnoscienza testimonia il suo saper fare e le sue carenze, e contribuisce alla liberazione della specie solo in quanto se ne sappiano contenere gli eccessi.
Nel gennaio 1982, nel corso delle Assisi nazionali della ricerca, il ministro della ricerca, Jean-Pierre Chevènement, propose di «bloccare certi pregiudizi contro la scienza e la tecnologia, emarginare i movimenti antiscientifici».

Termine in cui includeva tanto le cartomanti, quanto gli ecologisti.
Ora, a vent'anni di distanza, le preoccupazioni degli ecologisti trovano conferma e sono oggetto di rapporti allarmanti da parte della scienza ufficiale.
Tuttavia, lo scientismo resiste: durante il Vertice di Rio (1992) sullo «sviluppo duraturo», scienziati eminenti, tra cui molti premi Nobel, hanno lanciato l'appello di Heidelberg contro «l'emergere di un'ideologia irrazionale che si oppone al progresso scientifico e industriale e nuoce allo sviluppo economico e sociale».

L'interesse degli industriali e di molti ricercatori è di mettere a punto e diffondere innovazioni in grado di occupare porzioni di mercato.
Una motivazione così competitiva spiega ampiamente il trasformarsi della scienza in tecnoscienza.
Ma ci si poteva attendere una qualche opposizione da parte dei cittadini, quando la scienza, forza di emancipazione, devia invece verso la produzione di invenzioni, molte delle quali pongono problemi più seri di quelli che risolvono.

Come ha detto lo storico e sociologo Jacques Ellul, «le leggi della scienza e della tecnica stanno al di sopra di quelle dello stato, per cui il popolo e i suoi rappresentanti vedono largamente diminuito il proprio potere (13)».
In realtà, lo scientismo non è appannaggio degli scienziati; è un'ideologia ampiamente condivisa nella società, soprattutto da quando la ricerca di un credo non ha più trovato proposte accettabili nella religione o nella politica.
La promessa mistica del paradiso e quella militante di un domani migliore hanno perso colpi, mentre avanzava il Progresso avvolto nel nuovo manto della razionalità.

Non avendo altri santi cui votarsi, i cittadini moderni si sono messi in attesa dei prodotti della tecnoscienza, senza nemmeno immaginare che potrebbero pretendere di essere loro, a scegliere quello che i ricercatori stanno preparando in loro nome.
È questo il primo passo da fare: visto che la tecnoscienza esiste, bisogna osare pensare che la si può inserire nella democrazia, come tutte le attività umane (trasparenza, dibattito pubblico, contro perizie, razionalità delle scelte, ecc.) (14).
Come dice il fisico Jean-Marc Levy-Leblond, «un tempo la Chiesa condannò Galileo, ma ora dai suoi successori ha da temere solo una certa concorrenza. Riconosciamo che una nuova laicizzazione del nostro rapporto col sapere dovrebbe permettere di prendere una certa distanza da tutti gli attuali dogmatismi (15)».

La laicità è il «principio di separazione della società civile e della società religiosa, dal momento che lo stato non esercita alcun potere religioso e le Chiese alcun potere politico» (È divertente costatare che il dizionario Robert spiega questa definizione con una citazione di Ernest Renan, un aspirante prete diventato scientista estremo).
Se ci si accorda nell'identificare nella scienza un «sistema di convinzioni e di pratiche, che implicano delle relazioni con un principio superiore, e proprio ad un gruppo sociale» (definizione, nel Robert, del termine «religione») si comprende meglio la frase di Levy-Leblond relativa alla «laicizzazione del nostro rapporto con il sapere».

Recentemente, Bertrand Hervieu, ex presidente dell'Institut national de la recherche agronomique (Inra), ha dichiarato che «il processo di dissacrazione, la fine delle trascendenze assolute e il cammino per la ricostruzione della scienza in una società democratica e laica non sono completati (16)».
In questa direzione, si può pretendere dai ricercatori un atteggiamento più umile e rispettoso del bene pubblico. È quanto avevamo proposto con il manifesto «Dominare la scienza» (Le Monde, 19 marzo 1988) ed è anche il senso del «Giuramento degli scienziati» proposto da Michel Serres nel 1997.

Infatti, qui come altrove, la parola chiave è democrazia.
Ellul ricordava il totalitarismo della tecnica, che ci fa entrare in una logica «tecnofagocitante» da cui non si può più uscire, e esprimeva il timore che alla fine una dittatura mondiale rischiasse di essere «il solo mezzo per permettere alla tecnica di svilupparsi appieno e risolvere le enormi difficoltà che va accumulando».
Di recente sono state aperti dei canali perché le scelte scientifiche non sfuggano più ai cittadini e gli sviluppi tecnologici siano rispondenti alle necessità espresse dalla società (17).
Rimane da aiutare la società a superare il mito del progresso ereditato dal secolo dei Lumi, il quale le impedisce di pensare che, anche nei confronti della scienza e dei suoi prodotti, gli uomini possono essere liberi e uguali.



*Biologo della procreazione, direttore di ricerca presso l'Insitut national de la santé et de la recherche médicale (Inserm). Autore (con Christian Godin) di Au bazar du vivant, Seuil, coll. «Point - Virgule», Parigi, 2001. Questo teso è un estratto della conferenza tenuta nel corso del seminario «Laïcité» organizzato dalla Lega dell'insegnamento (Valence, aprile 2005).


note:

(1) Giordano Bruno è un prete che si scontra con la gerarchia sulle questioni del dogma della Trinità. Nel 1576, mentre è in corso un'istruttoria per dichiararlo eretico, abbandona il saio domenicano.

(2) Trofim Lyssenko (1898-1976), biologo sovietico, attacca ripetutamente la genetica classica e contrappone la «scienza borghese» (che sarebbe legata alle pratiche del capitalismo) alla «scienza proletaria» (che si baserebbe sul materialismo dialettico).

(3) Michel Schiff, Un cas de censure dans la science, Albin Michel, Parigi, 1994.

(4) Serge Latouche, La Méga-Machine, La Découverte, Parigi, 2004.

(5) Si legga Bernard Cassen, «Ogm, gli accademici al servizio dell'industria», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2003.

(6) Si legga André Bellon, «Des savants parfois schizophrènes», Le Monde diplomatique, giugno 2002.

(7) «Le cardinal et l'athée», Le Monde, 2 maggio 2005.

(8) «La casa brucia e noi guardiamo altrove...», discorso di Jacques Chirac al Vertice sullo sviluppo duraturo, Johannesburg, 2002.

(9) «Les utopies technologiques: alibi politique, infantilisation du citoyen ou lendemains qui chantent», Global Chance, n. 20, Suresnes, febbraio 2005.

(10) Dorothy Nelkin e Susan Lindee, La mystique de l'Adn, Belin, Parigi, 1998.

(11) Giornata annuale organizzata a Parigi dal Comité consultatif national d'éthique pour les sciences de la vie et de la santé, 29 novembre 2000.

(12) Michel Onfray, Fééries anatomiques, Grasset, Parigi, 2003.

(13) Jacques Ellul, Le Système technicien, Calmann-Levy, Parigi, 1977.

(14) Nota n° 2 della Fondation sciences citoyennes, Parigi, ottobre 2004 (http: //sciencescitoyennes.org)

(15) Jean-Marc Lévy-Leblond, La Pierre de touche, Gallimard, coll.
«Folio-essais», Parigi, 1996.

(16) Agrobiosciences, Castanet Tolosan, settembre 2004.

(17) Nota della Fondation sciences citoyennes, ottobre 2004: (http://sciencescitoyennes.org).
(Traduzione di G. P.)

 
 
Le Monde diplomatique - dicembre 2005