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Stato stazionario e decrescita

di Mauro Tozzato - 11/04/2008

 

 

In un benevolo commento al mio ultimo intervento veniva giustamente precisato che Georgescu-Roegen aveva più volte, a suo tempo, criticato l’ipotesi di una dinamica del sistema economico tendente a evolversi in direzione di uno stato stazionario. In un testo che raccoglie alcuni suoi saggi e interventi, ed è intitolato Bioeconomia (Bollati Boringhieri – Torino 2003), Georgescu-Roegen scrive:

<<consideriamo il processo economico nella sua totalità, e guardiamolo soltanto dal punto di vista puramente fisico. […] La risposta alla domanda circa che cosa questo processo materiale faccia è semplice: esso non produce né consuma materia-energia, ma soltanto la assorbe e la espelle, il tutto ininterrottamente. […] Un economista eterodosso – come chi scrive – direbbe che ciò che entra nel processo economico rappresenta risorse naturali preziose, e ciò che ne viene espulso scarti senza valore. […] Dal punto di vista della termodinamica, la materia-energia entra nel processo economico in uno stato di bassa entropia e ne esce in uno stato di alta entropia.>>

A questo punto l’economista rumeno cerca, con successo, di spiegare il significato dell’entropia mettendolo in relazione, oltre che al mondo fisico, anche alla dimensione economica, e quindi sociale della realtà:

<< L’energia esiste in due stati qualitativi: energia disponibile o libera, sulla quale l’uomo ha un quasi completo controllo, ed energia non disponibile o legata, che l’uomo non può usare in nessun modo. L’energia chimica contenuta in un pezzo di carbone è energia libera, perché l’uomo può trasformarla in calore o, se vuole, in lavoro meccanico. Ma, per esempio, il favoloso ammontare di energia termica contenuto nelle acque marine è energia legata. Le navi si muovono in cima a quest’ energia, ma per farlo hanno bisogno dell’energia libera di un combustibile o del vento. Quando un pezzo di carbone brucia, la sua energia chimica non ne risulta né diminuita né aumentata. Ma l’energia libera iniziale si è a tal punto dissipata sotto forma di calore, fumo e ceneri, che l’uomo non può più usarla. Si è degradata in energia legata. Energia libera significa energia che esibisce un livello differenziale, come risulta evidente dall’esempio semplicissimo della differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno di una caldaia. L’energia legata è, al contrario, energia caoticamente dissipata. […] E’ questa la ragione per cui l’entropia è definita anche come una misura del disordine.>>

Ma questa analisi scientifica di tipo meramente “fisico” non può immediatamente determinare delle conseguenze riguardo al modo di organizzare l’economia e la produzione:

<<…non si può assolutamente sperare di ridurre il valore economico a una coordinata fisica. Il valore economico è condizionato dalla bassa entropia tanto della materia quanto dell’energia, ma non è a essa equivalente […]. E’ nella bassa entropia e nello sforzo del lavoro (altro flusso immateriale) che consistono le radici del valore economico.>>

La “quarta legge della termodinamica” (1) enunciata da Georgescu-Roegen rappresenta, perciò, un vincolo entro cui ci muoviamo ma non una asserzione predittiva di natura deterministica. Rispetto alle tesi di Daly che affermano essere possibile raggiungere uno stato stazionario che comporti “una ricchezza fisica (capitale) costante e uno stock costante di esseri umani (popolazione)” lo scienziato rumeno osserva che la possibilità della stabilità in un sistema sociale “chiuso” è esclusa dalla “quarta legge” della termodinamica. Nel caso di  sistemi aperti come le società industriali e postindustriali odierne Georgescu-Roegen trova che i problemi sono comunque difficilmente risolvibili. In un sistema capitalistico mondializzato, come è quello in cui viviamo, si renderebbe particolarmente evidente <<un’accessibilità decrescente della materia-energia>> di cui abbiamo bisogno. Ne consegue, secondo Georgescu-Roegen, che

<<se questa circostanza non è controbilanciata da innovazioni tecnologiche, il capitale deve necessariamente essere aumentato e le persone devono lavorare di più, se la popolazione deve rimanere costante .[…] Se le innovazioni compensano l’accessibilità decrescente, il capitale non può restare costante in un qualche senso definito. La difficoltà principale consiste allora nell’impossibilità che le innovazioni continuino all’infinito in un sistema chiuso.>>

A questo punto mi pare necessario rilevare che  l’economista rumeno sembrava ipotizzare una condizione sistemica per la quale a livello, oggi diremmo, globale si andava verso una condizione di chiusura del sistema stesso – dovuta appunto all’accessibilità decrescente e alla scarsità sempre maggiore delle risorse e dell’energia reperibili, eventualmente, all’esterno delle formazioni sociali particolari e/o di quella globale -  con la conseguenza di ricadere nella limitazione della “quarta legge”, cioè di andare incontro ad un rapido e consistente aumento del livello dell’entropia. Egli riteneva, inoltre, che l’innovazione tecnologica, pur valutata positivamente in termini neg-entropici, non potesse nel lungo periodo impedire il degrado ecologico e la penuria di materia-energia e tantomeno creare una condizione di “stato stazionario”. Goergescu-Roegen  apriva così la strada alla proposta di una politica di decrescita  - pur non specificandone ancora le forme o formulandone il progetto in dettaglio – ritenendola l’unica alternativa valida sia rispetto all’economia dello “stato stazionario” che a quella dello “sviluppo globale”. Egli infatti scriveva, sempre nel libro già citato, :

<<In ultima analisi, è questa mania della crescita che John Stuart Mill e i sostenitori moderni dello stato stazionario vogliono arrestare. Ma essi hanno ragionato un po’ come se la negazione della crescita dovesse sfociare in una stato stabile. Probabilmente, in quanto economisti, non potevano pensare anche a uno stato di “decrescita”. Ora, vale la pena rilevare che la maggior parte degli argomenti a favore dello stato stabile milita ancor più a favore di quest’altro stato.>>

Enrico Del Vescovo, inoltre, in un interessante articolo introduttivo sull’economista rumeno (2), scrive :

<<L’intuizione fondamentale alla base della sua teoria sta nella distinzione tra il concetto di ciclo chiuso e quello di ciclo aperto. […] L’attività umana consiste prevalentemente in una trasformazione che si esplica soprattutto attraverso cicli aperti>> e quindi <<in processi di trasformazione delle risorse naturali di tipo prevalentemente irreversibile in contrasto con quanto avviene in natura, dove la vita prosegue proprio grazie a cicli chiusi e reversibili. […] Da qui deriva il principio di degradazione della materia, in un certo senso analogo al principio fisico di degradazione dell’energia noto come legge dell’entropia.>>   

Di fatto  egli non crede neanche che l’avvento di una ipotetica “nuova” economia, legata all’informazione, possa portare a uno sviluppo il quale richieda una quantità di energia e materia decrescente perché nella sua visione del mondo pensare di poter sfuggire all’irreversibilità dell’impoverimento delle risorse naturali appare semplicemente una illusione. Alla fin fine, a me pare, comunque, che Georgescu-Roegen pur propendendo per una visione pessimistica non se la senta di escludere in termini assoluti che la tecnologia e le innovazioni di processo e di prodotto possano svolgere un ruolo di “controbilanciamento” delle tendenze degenerative. Anche Del Vescovo nel suo articolo conclude in maniera tutto sommato problematica:

<<Certamente la tecnologia può rallentare questa tendenza, ma fino a quando ? Fino a quando potrà durare la società opulenta di cui parla J.K. Galbraith nel suo libro La società opulenta ? Questo è l’interrogativo che da tempo ha iniziato a farsi strada presso ambienti accademici, scientifici e non solo … facendo vacillare certezze di sempre>>.

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In un articolo apparso su Lettera internazionale (n. 92 del 2007), col titolo di Che cos’è lo sviluppo sostenibile ?, Herman Daly afferma:

<<che cos’è che il cosiddetto sviluppo sostenibile dovrebbe sostenere ? […] Per alcuni, la risposta è l’utilità; lo sviluppo sostenibile cerca cioè di evitare il decrescere dell’utilità per le generazioni future […]. Per altri, la risposta è invece il throughput (3): lo sviluppo sostenibile cerca di evitare il decrescere del flusso fisico entropico che dalla fonte naturale si immette nell’economia e da lì fa ritorno all’ambiente naturale. […] Bisogna dunque conservare intatto il capitale naturale, per far sì che anche nel futuro restino accessibili, almeno allo stesso livello del presente, le risorse e le prestazioni biofisiche che l’ecosistema ci fornisce.>>

Ritorniamo qui sempre al problema di come ci si debba regolare per quanto riguarda lo sviluppo della produzione attuale; e in che maniera, entro quali limiti e per quali gruppi sociali si debba sacrificare, l’incremento di benessere possibile oggi, nei confronti non di indeterminate “generazioni future”, ma di determinati gruppi sociali e popolazioni di “regioni” e Stati, nei prossimi decenni. Nella sua polemica con l’ “economica” ortodossa Daly tenta di definire lo sviluppo in termini non monetari, come se la natura monetaria e finanziaria del capitalismo fosse da considerare un semplice epifenomeno dell’aspetto “reale” dell’economia, intesa qui principalmente come un processo  fisico-materiale. Daly scrive:

<<Il modo più fruttuoso di trattare lo “sviluppo” sarebbe definirlo come l’aumento dell’utilità per unità di throughput, distinguendolo in ciò dalla “crescita”, che indicherebbe invece l’aumento di throughput complessivo.>>

Di fatto però lo stesso Daly è costretto a ricorrere a categorie economiche per spiegare quella che viene da lui chiamata la “crescita antieconomica”. Così egli considera che quando  il sistema macroeconomico

<< accresce la propria dimensione fisica (throughput), non cresce nel vuoto infinito, ma in, e a spese di, un ecosistema finito, trovandosi spesso a dover pagare i costi di opportunità (4)  di quei capitali e servizi naturali che aveva a disposizione. Questi costi di opportunità (esaurimento o inquinamento delle risorse, servizi non più forniti dall’ecosistema), causati dalla crescita del throughput, possono essere, e spesso sono, di gran lunga maggiori dei benefici della produzione aggiuntiva che questa stessa crescita comporta.>>

Sia la nozione di esternalità che quella di costo opportunità mi sembrano diversamente valutabili e comprensibili a seconda se consideriamo il loro rapporto esclusivamente con l’equilibrio degli ecosistemi o piuttosto  con un sistema più complessivo che tenga conto del fatto che il potere di disposizione di ricchezza astratta in forma monetaria, nell’attuale formazione sociale globale capitalistica, costituisce il fattore determinante per un sistema-paese e/o un area geopolitica sottosviluppata per uscire dalla penuria. La pura considerazione dei valori d’uso e delle utilità come caratteri materiali delle cose utili in relazioni a persone irrelate e a ambienti fisici desocializzati - prescindendo dalla natura di merce dei prodotti e dei beni appropriabili – rende l’economia ecologica priva di capacità esplicativa e impotente rispetto al problema - del quale pure si occupa molto in astratto - della povertà e della miseria dei popoli e delle nazioni. In Daly si ritrovano anche concezioni, che volendo contrapporsi all’economia ortodossa, provocano semplicemente un forte indebolimento della capacità analitica di un apparato concettuale che vorrebbe presentarsi come radicalmente critico. Dopo aver affermato che <<più crescita è meglio che meno crescita, almeno fino a un certo punto>> l’economista americano propone una serie di considerazioni particolarmente confuse e curiose:

<< Se non è impossibile che la crescita di un paese ricco risulti antieconomica, è probabile che quella di uno povero, in cui cibo, vestiti e abitazioni costituiscono la gran parte del PIL, sia invece “economica”; cibo, vestiti e abitazioni sono infatti bisogni assoluti, cioè bisogni degni di questo nome (al contrario dei bisogni relativi), perché la crescita atta a soddisfarli è portatrice di effettivo benessere.>>

La distinzione scolastica dei neoclassici tra bisogni “primari” e bisogni “secondari” (o di “civiltà”) a questo punto risulterebbe persino preferibile. Daly mostra di considerare l’economia come una sorta di scienza “naturale” allo stesso modo che i neoclassici ne fanno una specie di scienza “esatta”; le determinazioni storiche e sociali della produzione ( e quindi della distribuzione, della circolazione, dello scambio e del consumo) lasciano spazio ad una natura “assoluta” ed astorica dei bisogni e quindi del modo concreto degli uomini di soddisfarli all’interno di una struttura storico-sociale. A questo punto possiamo affermare tranquillamente che le nostra concezione del mondo è lontana milioni di miglia da simili amenità. Un ultimo accenno alla questione dello stato stazionario. Bisogna ammettere, correggendo in parte il mio ultimo intervento, che in Daly, probabilmente, esso viene inteso - quasi esclusivamente -  nel senso di un modo di organizzare l’economia  teso al  mantenimento di un equilibrio biofisico. Si tratterebbe di arrestare    il degrado ambientale attraverso <<un accordo con l’equilibrio biologico e con la complessità del sistema naturale. [Tiezzi-Daly, 1999]>> per cui lo stato stazionario di Daly risulterebbe infine definito dal suo maggiore teorico in questi termini:

<<se usiamo il termine crescita per indicare un cambiamento quantitativo e sviluppo per riferirsi a una modifica qualitativa, allora possiamo dire che l’economia in stato stazionario si sviluppa ma non cresce, proprio come la Terra di cui l’economia umana è un sottosistema. [Daly, 1999]>>

 

Note:

 

(1)      <<in un sistema chiuso, l’entropia della materia deve tendere verso un massimo>> Bioeconomia,2003

(2)      Enrico Del Vescovo – Nicholas Georgescu-Roegen padre della decrescita – Marzo 2007

 

(3)      <<Flusso fisico entropico di materia-energia che proviene dalle fonti naturali, attraversa l’intera economia umana, e ritorna alla natura sotto forma di scarti. [Nota di S. Salpietro]>>

 

(4)      <<Costo opportunità o costo di sostituzione: il costo di un bene o di un fattore della produzione misurato in termini di utilità che si sarebbe potuta ricavare facendone un altro uso. [Nota di S. Salpietro]