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Il canone RAI? E' illegittimo

di Carmelo R.Viola - 25/01/2006

Fonte: Rinascita

 

Il canone Rai è illegittimo, non illegale. La differenza è notevole e fondamentale: legale si riferisce semplicemente alla legge; legittimo si riferisce al diritto. Se è vero che la legge ha la funzione di legittimare, la logica aggiunge: “a condizione che essa rappresenti il diritto”. Quando non lo rappresenta è intrinsecamente e moralmente nulla. Il diritto non è figlio della legge, ma è esattamente il contrario. La legge è pura espressione del potere mentre il diritto appartiene all’uomo, il quale, pertanto, non lo può inventare ma può solo scoprirlo e “leggerlo” nei bisogni essenziali e costanti della propria specie, che vanno sotto la denominazione di “diritti naturali”.
Tornando al canone Rai, si tratta di un vero e proprio “pizzo di Stato” senza alcuna validità biogiuridica se non quella discendente dalla forza, in altre parole dal potere.

Il canone Rai è nato nel 1938 come tassa Eiar, per un ente radiofonico impegnato in un servizio pubblico. Oggi la democrazia si è ridotta a un giochetto elettorale mirato a legittimare il potere degli eletti, i quali fanno le leggi spesso ignorando il diritto. Pertanto, la locuzione aggettivale “di diritto” si risolve in un pretesto per l’imposizione delle leggi stesse. Il giochetto riesce e la dittatura del sistema è salva. Sta di fatto che il canone Rai vuole teoricamente finanziare un servizio pubblico. Esso invece finanzia un’azienda di Stato di tipo capitalistico e quindi in concorrenza con aziende similari capitalistiche private, nel caso specifico con Mediaset.

La descrizione di ciò che dovrebbe essere un servizio radiotelevisivo pubblico corrisponde alla puntuale denuncia dell’inesistenza della legittimità del canone in questione. Premesso che il pubblico – cioè il popolo – è la risultante di più componenti etniche, culturali e ideologiche, servizio radiotelevisivo pubblico può significare una sola cosa: fare in modo che tutte quelle componenti abbiano una loro “voce” in una “pluralità di voci” in seno alla quale sorgano e si sviluppino dialoghi, confronti e, ove possibile, sinergie e collaborazione. Si parla a vanvera di “par condicio” quando si pratica la più selvaggia delle sopraffazioni. La cronaca -soprattutto quella politica, interna e internazionale- non sarebbe di fatto monopolizzata ovvero ridotta entro i limiti del pensiero unico dominante. Non esisterebbero iniziative culturali costrette ai margini e alla penombra se non addirittura alla totale oscurità. Le lobbies industriali (dal cinema ai farmaci agli sport -sport imprenditoriali e commerciali, intendiamo-) e i fautori degli “ottuntori sociali” (dal tifo sportivo al “predaludismo” - giochi a premi tipo “preda”) e la pubblicità consumistica non si contenderebbero gli spazi radiotelevisivi, le ore di maggiore ascolto e la quantità di “udienza” a tutto scapito della suddetta “pluralità di voci” e della cultura, insomma di ciò che dovrebbe essere un vero servizio pubblico, che deve gareggiare solo con se stesso e nel solo tentativo di migliorare le proprie prestazioni.

Questo servizio pubblico non è stato mai effettuato dalla Rai. Si diceva ultimamente che la stessa si distingueva dalle TV private perché queste lavorano in funzione di commercio, insomma non per fare informazione e cultura semmai usando anche queste come altrettanti pretesti ed occasioni di commercio. Le TV private si sono dette, pertanto, commerciali per la loro caratteristica inconfondibile di trasmettere pubblicità (consumistica) senza misura, dalla quale ricevono milioni a palate. Si diceva per contro che la TV pubblica si distingueva dalla privata proprio perché non commerciale e perché, per conseguenza, consentiva la visione di un film e di uno spettacolo senza il fastidio delle interruzioni pubblicitarie: fastidio psicologico e deturpazione perfino di autentiche opere d’arte e capolavori con concomitante offesa agli autori delle stesse e della cultura in genere. Da tempo anche questo unica circostanza di distinzione (e di giustificazione del canone) è caduta: la Rai è totalmente simile alla radiotelevisione privata. In altre parole:

- è fautrice di un “pensiero unico”: quello del potere in carica e, pertanto, trasmette di peso le menzogne confezionate dal Pentagono e dalla Cia;
- non trasmette nessuna vera voce “diversa” e meno che mai dell’opposizione extraparlamentare;
- non contiene rubriche speciali per le varie ideologie o fedi religiosi, insomma, per fare qualche esempio, per giudaici, atei, razionalisti, anarchici, comunisti, nonviolenti e, perché no, fascisti, se si fa eccezione di una sul protestantesimo;
- la pubblicità consumistica v’impazza esattamente come in quella privata senza alcun rispetto nemmeno per l’aspetto estetico;
- le più varie lobbies vi si contendono spazio, diritti e potere;
- la Rai sconosce i fatti che il potere vigente vuole che si sconoscano come la verità sul terrorismo, che non è - non può essere - quella degli Usa che del terrorismo sono i maestri storici; e così via.

Vero è che nella stessa Rai ci sono tentativi di rottura di un “rapporto di inservienza al sistema e agli Usa”- come quelli esperiti da Rai Tre - o “dibattiti” da cui vien fuori qualche voce non allineata, ma questi tentativi isolati, praticamente sommersi, necessariamente costretti a ritagli marginali, in ogni caso “ossequiosi” dello status quo, non abilitati a caratterizzare l’intera area della Rai, confermano la realtà di una Rai al servizio non del pubblico ma del potere, di casa e d’oltremare.

Per queste inoppugnabili ragioni il canone in questione è un’estorsione legale con minaccia di violenza penale, analoga al pizzo della mafia. Quest’anno l’importo del canone-pizzo è di euro 99,60. Quel “99” ricorda i cartellini dei prezzi dei mercati aperti palermitani dove si fa abuso della cifra “9” per camuffare importi interi e non impressionare i clienti. In verità, i “9” palermitani spesso perdono il codino e diventano zeri per fare abboccare i distratti e quelli dalla vista corta. Purtroppo, la Rai non può farlo. Si tratta di quasi duecentomila delle vecchie lire che fanno paura al “cittadino” che vive di sola pensione sociale (vera elemosina di uno Stato asociale) e che è costretto a pagare sotto la minaccia del pignoramento di poveri suppellettili. La cosa più chiaramente ridicola è quello “0,60” dell’importo. Non sarebbe stato più semplice e più onesto dire 100 euro? I sessanta centesimi fanno pensare alla difficile scienza del calcolo dell’alta burocrazia sempre inaccessibile al popolo bue e pagatore, un po’ meno alla furbizia grossolana di chi esercita il potere.

Carmelo R.Viola
Fonte:
www.rinascita.info
Link: http://www.rinascita.info/cogit_content/rq_attualita/IlcanoneRaiEilleggittimo.shtml
19.01.06