Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / È la perdita dell'ingenuità la «malattia mortale» del mondo moderno

È la perdita dell'ingenuità la «malattia mortale» del mondo moderno

di Francesco Lamendola - 09/06/2008

 

 

Ci siamo orami abituati a pronunciare o ad udire frasi come: «Quell'uomo è veramente un po' troppo ingenuo»; «È stata una ingenuità davvero imperdonabile!»; «Non avrei mai immaginato che tu fossi ingenuo fino a questo punto»; e così via.

Insomma, nella nostra pratica ed efficiente società dei consumi, si dà per scontato, o quasi, che una propensione all'ingenuità sia un grave difetto per una persona adulta. Passi per un bambino (per quanto, di questi tempi…); ma un adulto ancora ingenuo non suscita alcun sentimento di tenerezza, sibbene di irritazione e quasi di riprovazione. Ma andiamo, come si fa ad essere così ingenui? Che è, più o meno, quanto dire: come si fa a essere così minchioni? Insomma, se poi quel tale va a finire male (imbrogliato, per esempio), in un certo senso bisogna pensare che se l'è proprio andata a cercare. Essere ingenui, in un mondo di furbi, è (per parafrasare il buon vecchio Talleyrand) molto peggio che un delitto: è un errore.

Orbene, a dispetto di un tale sentire comune, noi non la pensiamo affatto così.

No, non pensiamo che essere ingenui sia una cosa brutta, o turpe, o un segno d'infantilismo; al contrario, siamo convinti che il mondo sarebbe assai migliore se un po' della ingenuità dei bambini sopravvivesse negli adulti. Abbiamo detto "un poca", perché è chiaro che, quando oltrepassa una certa misura, essa diviene un serio inconveniente, tanto per il singolo individuo, quanto per la società nel suo insieme. Non però una cosa brutta o deprecabile: ribadiamo il concetto. Un uomo o una donna che non possiedano nemmeno un po' di ingenuità sono, inevitabilmente, degli esseri cinici e incapaci di vedere il lato fascinoso della vita.

 

Ma cosa intendiamo, esattamente, con il termine "ingenuo"?

Nel linguaggio comune, la parola è divenuta sinonimo di "innocente, candido, inesperto, privo di moine" (Zingarelli); ma, in effetti, essa deriva dal latino ingenuus che, in quanto "indigeno", designava qualche cosa di innato e, perciò, di degno di un uomo (propriamente: nato dentro una stirpe). Indicava, inoltre, colui che era nato libero, ossia da genitori liberi (e non schiavi); per traslazione, venne poi a designare ciò che è degno di un uomo libero, ciò che è onesto e schietto; in breve, ciò che è "liberale".

Pertanto, conservare un certo grado di ingenuità vorrebbe dire, etimologicamente, conservare ciò che è veramente onesto e degno di un essere umano; conservare un tratto della propria umanità originaria, "primitiva". Non solo: essere ingenui significa, evidentemente, conservare anche un legame originario, immediato col mondo; sentirsi a proprio agio nella rivelazione aurorale delle cose - come avviene, appunto, al bambino -, piuttosto che nelle forme e nelle categorie stabilite dalla "civiltà" e codificate dalla silenziosa dittatura della generazione presente. Ecco perché la persona ingenua appare sempre un po' stranita, un po' spaesata e fuori moda rispetto al suo tempo: non ha la nozione, o non se ne cura, di ciò che pensano i suoi contemporanei, di come si vestono, di come sentono, di come vestono, di come passano il tempo libero, e così via.

La persona ingenua è se stessa, e basta: ed è se stessa in modo originario. Di conseguenza, è onesta: non si nasconde dietro cento maschere, non gioca a sembrare quel che non è, o a indurre in inganno il prossimo. Se ne va dritta per la sua strada, incurante di astuzie e stratagemmi; non desidera piacere a nessuno, non perché non ami i suoi simili, ma perché ama prima di tutto la verità che sa di portare in se stessa. Non vede gli sguardi di commiserazione che gli gettano dietro le spalle; e, se li vede, soffre in silenzio, ma non cerca nemmeno di cambiare il suo modo di essere. Dal momento che è se stessa, non lo potrebbe, neanche volendo: chi si possiede, non può mutare la propria natura per scendere al livello di chi vive superficialmente, all'insegna dell'avere e non dell'essere.

Questa è anche la ragione profonda della segreta invidia e della appena dissimulata malevolenza con cui lo guardano i suoi contemporanei, "popolari" e aggiornati secondo i dettami dell'ultima moda. Nel caso di un intellettuale, l'ingenuo è colui che non sgomita e non si affanna per pubblicare i suoi libri o per comparire in qualche programma televisivo; sa che sta lavorando su un piano di consapevolezza assoluto, e che quanti vivono immersi nel relativo non potrebbero capirlo. Non si vanta del proprio isolamento, tuttavia, né cede alla facile tentazione di atteggiarsi a scrittore "maledetto", vomitando la sua frustrazione per l'esclusione di cui è fatto oggetto, mentre tanti mediocri gli passano avanti e divengono i beniamini della stampa e della cultura "ufficiale". Se lo facesse, mostrerebbe con ciò di non muoversi affatto sul piano dell'assoluto, di non essere affatto un "ingenuo" e un onesto; ma solo un disonesto meno fortunato o meno abile degli altri, divorato, però,  dai loro stessi appetiti e dalle stesse, inconfessabili ambizioni. Dimostrerebbe di essere, come loro, schiavo del relativo e zimbello di tutti gli umori e di tutti i capricci del suo tempo, della sua generazione.

La generazione corrente finge, talvolta, di ammirare le persone che hanno l'onestà di essere, ma segretamente le detesta, perché la loro semplice esistenza è un tacito rimprovero alla loro mediocrità e inautenticità. Vorrebbe vederle abbassate al proprio livello; per questo gode quando un grande rotola nella polvere. Ma non sempre chi è "grande" per la folla, si può veramente considerare tale; anzi, in genere è vero il contrario. La folla giudica secondo i  propri parametri, e spesso reputa grandi coloro che, in realtà, sono solo dei piccoli furbi.

 

Il problema cruciale della modernità è che il suo carattere essenziale consiste nella sostituzione della folla alla comunità. Ovunque le comunità scompaiono, subentrano le folle: aggregati anonimi e casuali, sempre freneticamente agitate ed eccitate; manipolabili e strumentalizzabili a piacere da coloro che possiedono le bacchette magiche capaci di incantare qualunque folla: stampa, radio, cinema, televisione e rete informatica. Il tutto, con la piena approvazione del regime tipico della società ridotta a una folla: la democrazia plutocratica e asservita ai poteri dell'informazione.

Dunque, la modernità è l'epoca della storia in cui il singolo si trova più fortemente sottoposto alla pressione della folla, più condizionato, ricattato, alienato. Contrariamente a quel che la vulgata positivista vorrebbe far credere delle società pre-moderne, non sono stati il Medioevo o la civiltà contadina a esercitare il massimo condizionamento sull'individuo, ma lo è l'epoca attuale: con la tecnica, la scienza, i miti del progresso e del "benessere".

E poiché al cuore della modernità vi sono un rifiuto, un abbandono e perfino una avversione all'idea di verità, in nome del cosiddetto "pensiero debole", in tutte le sfumature possibili e immaginabili, ecco che tutti coloro che celebrano la morte di Dio, la fine dei valori e delle certezze, il trionfo del Nulla, sono carezzati e vezzeggiati dalle folle plaudenti; mentre i pochi che non seguono la moda sono derisi o, nel migliore dei casi, ignorati.

Alla folla non piace una musica che sia troppo impegnativa per i suoi orecchi molli e delicati; non piace la musica onesta degli ingenui: apprezza e pretende la musica languida e dolciastra che carezza morbidamente la sua pigrizia e le sue false sicurezze.

 

Controcorrente come sempre, ma geniale come sempre, Sören Kierkegaard lo aveva perfettamente compreso e lo diceva apertamente; anzi, egli vedeva nella perdita dell'ingenuità uno dei segnali più allarmanti dell'imbarbarimento della civiltà moderna.

Nel suo scritto - non molto conosciuto, in verità - La dialettica della comunicazione etica ed etico religiosa (all'interno del volume Scritti sulla comunicazione, a cura di Cornelio Fabro; Edizioni Logos, Roma, 1979, pp. 75-78), così scriveva il filosofo danese:

 

A voler concentrare in una sola parola la confusione della filosofia moderna, specialmente da quando, per usare un'espressione, essa abbandonò la "onorevole via" di Kant e, per così dire, buttò via i famosi 100 talleri per diventare teocentrica: allora io non so dir altro che denunziare ch'essa è disonesta. E se la scienza deve essere l'occhio della generazione, allora essa non c'è più nella generazione quando l'occhio è confuso. Si deve pertanto dire - io non conosco termine più appropriato - che la filosofia moderna è disonesta.

Disonestà. Io desidero chiarire subito il senso esatto e legittimo di questo termine. Per disonestà si pensa forse innanzitutto ad un inganno intenzionale. E in questo senso non si potrebbe veramente dire che il nostro tempo è disonesto: la questione piuttosto è se il tempo non è confuso a tal punto che l'inganno intenzionale - e la verità - non sono in fondo caduti in disuso. Cervelli angusti, lettori di romanzi, giovani ragazze si fanno volentieri un'idea fantastica di ciò che nella vita sono i mascalzoni, gli ipocriti, i gesuiti, i seduttori, ecc. Quest'idea è per lo più fantasia. Un vero ipocrita è una figura molto rara, specialmente in questi tempi, perché un vero ipocrita è un uomo di carattere. Perciò fiorisce oggi un altro genere d'inganno: l'autoinganno, di cui però si parla assai di rado.

Caratterizzare l'autoinganno come disonestà è certamente del tutto legittimo. L'ipocrita può benissimo rendersi conto della sua disonestà, ma chi s'inganna da sé, è nel buio pesto ed allora egli non è mai senza colpa nell'errore del suo autoinganno con se stesso e di se stesso e perciò si può con ragione usare a questo riguardo il termine "disonestà". Pensiamo ora cosa si dovrebbe dire di un individuo degenerato, che ha cominciato 17 cose ma non ne ha portato a termine nessuna; costui sa che tutto è possibile per i caratteri decisi ma che non serve a nulla; egli ha fatto 17 volte il proposito di mutar vita ma altrettante 17 l'ha dimenticato, e in questo continua ad andare di palo in frasca - perché insieme non manca di doti naturali e molte volte si è applicato con diligenza, sia pure arrancando - è portato a parlare di qualsiasi cosa e molto spesso in modo che riesce a farsi ascoltare: ecco che in questo individuo noi abbiamo l'esempio della disonestà più dolorosa e spaventosa ed insieme all'apparenza la più brillante ed innocente.

Una vita all'inizio può presentarsi con molte premesse e poi subito combinarle in grovigli così imprevedibili ch'è impossibile parlarne: anche una simile vita è disonesta. È in questo senso che noi possiamo parlare della disonestà dell'età moderna, e perciò noi possiamo anche, perfino, sostituire una espressione più mite dicendo: l'età moderna manca d'ingenuità. Non è affatto segno di maturità il perdere completamente l'ingenuità, ancor meno è naturale per l'esistenza umana il non esserlo mai stata. All'esistenza umana sana e onesta appartiene sempre fino all'ultimo un certo momento d'ingenuità.

Qualcuno potrebbe forse chiedere come ciò conviene a una generazione; l'antichità era ingenua e da ciò segue di per sé  che l'epoca moderna non può esserlo. Ma è proprio qui che noi abbiamo la disonestà dei tempi moderni. La scienza moderna ha voluto insegnarci che noi tutti abbiamo imparato troppo da essa per abolire la categoria dell'individualità e sostituirla con quella della generazione. È questo proton pseûdos che ha introdotto nell'esistenza un'inquietudine, una fretta che rende inevitabile una baraonda tremenda, e per questo anche la disonestà. Ma ciò che ora suona come l'epigramma più amaro di questa disonestà dei tempi moderni è che appunto questo tempo il quale, per attizzare ancora il fuoco sotto le pentole della confusione, ha inventato di voler avere il merito di cominciare completamente senza premesse. Non vi è niente di più pericoloso di quando il ladro si camuffa da poliziotto, niente di più pericoloso di una cura radicale che fallisce e diventa incentivo della malattia. Niente di più pericoloso di quando uno si è incagliato in qualche cosa e dice: io voglio fare un estremo disperato sforzo per liberarmi, costui allora con questa corsa inciampa sempre più. Che le premesse (i presupposti) prima di Hegel avessero preso il sopravvento sugli uomini, è chiaro; ma poi, per via di questa impresa grandiosa, portare la confusione dei presupposti ad un grado ancora più alto, questa è la cosa più nefasta: in parte perché la confusione aumentò e in parte perché la si nascondeva a se stessi con quell'immaginazione e illusione di aver una volta per sempre dominato la baraonda dei presupposti. Non vi è, credo, niente di più tremendo come quando ciò che eccita lo stupore di tutti come un lavoro gigantesco per eliminare la malattia, invece non fa che alimentarla. E lo sforzo enorme di Hegel per dominare i presupposti era appunto influenzato dalla stessa idea dei presupposti. Era un annientamento quantitativo invece che qualitativo. Per curare la confusione del pensiero causata dall'autoriflessione, l'unica salvezza è l'etica, e di etica appunto Hegel non s'intendeva. Ma ogni altro rimedio non è che gradito alla malattia perché esso l'alimenta.

Invece di parlare della disonestà dei tempi moderni che è mancanza d'ingenuità, si potrebbe anche dire ch'essa è mancanza di primitività. Fermiamoci perciò su questo termine.

Poniamo che un uomo sia educato in un certo modo, e poi viva senza aver mai di se stesso, ricorrendo sempre a comparazioni: ecco un esempio di disonestà. E questo è proprio il caso dei tempi moderni. La storia della generazione segue il suo corso - è vero - ma ogni singolo individuo dovrebbe però, mi pare, avere la sua impressione primitiva dell'esistenza - per essere uomo. E come con ogni uomo, così con ogni pensatore. Ma il pensatore che sacrifica la sua primitività e la fa abortire come si fa abortire un feto immaturo, per essere, in fretta e furia, compreso dai contemporanei, per avere in fretta e in furia un po' d'influsso, e per partire col treno della generazione che parte proprio adesso: costui è peggio di una ragazza che sacrifica la sua virtù per un guadagno disonesto e pecca realmente verso Dio, ed egli non è meno abominevole e non meno mostruoso della madre che si procura un aborto.

Ecco, quando si è in questo caso, allora la parola d'ordine è data; la disonestà ha libero corso e ad ogni secondo la confusine cresce. Specialmente dopo Hegel è diventata tremenda perché egli scoprì il metodo storicizzante che abolì del tutto ogni primitività e in fondo non fa che arrangiare. Che affaccendarsi! Che confusione, come in un terremoto! Giovani, quasi ancor bambini, hanno conoscenza come tutto sia fallace, e che non conta nulla essere un uomo! Che si tratta di accodarsi alla generazione, di seguire le esigenze del tempo, che però sono continuamente fluttuanti! Così fermenta e ribolle la vita della generazione senza soste, benché tutto sia un vortice, si sente lo squillo della carica, il rintocco della campana, che significa il Singolo che ora, ora in questo secondo, scánsati: scaccia tutto da te, la riflessione, la tranquilla meditazione, il pensiero riposante dell'eternità, altrimenti arrivi troppo tardi, così che non arrivi con la spedizione della generazione che proprio ora sta passando. Ed allora? Allora, quale orrore! Quale orrore, ahimé! E dire che tutto è calcolato per alimentare la confusione, questa disgraziata fretta di caccia selvaggia. I mezzi di comunicazione diventano sempre più progrediti, si stampa sempre più in fretta, con una fretta incredibile. Le comunicazioni diventano sempre più attive e sempre più confuse. E se qualcuno ora, in nome sia della primitività come di Dio, si pronunciasse contro, guai a lui! Come il Singolo è afferrato dal vortice dell'impazienza per farsi subito intendere, così la generazione è ambiziosa di voler subito intendere il Singolo.

Ecco, questo lo dà la disonestà. Scompaiono i concetti, la lingua diventa confusa, ci si combatte gli uni gli altri a destra e a sinistra; condizioni più felici non ci potrebbero mai essere per tutti i chiacchieroni perché la confusione generale nasconde il loro squilibrio mentale (quanto essi son confusi!). È l'età d'oro dei chiacchieroni.

 

A cominciare da quel chiacchierone di Hegel, l'età della folla segna l'avvento di una nuova figura antropologica: quella del chiacchierone. Di colui che parla, parla, parla sempre, non sa e non può stare mai zitto: dalla politica all'economia, dalla cultura alla morale, parla di tutto e su tutto, e non ha assolutamente nulla da dire.

Quanti ne vediamo, quotidianamente, di questi chiacchieroni impenitenti, specialmente sulla stampa e alla televisione. Non solo parlano, gridano; non solo gridano, insultano; non solo insultano: vaneggiano. E ci tocca stare a sentirli, anche se non vorremmo: non c'è scampo, bisognerebbe rinchiudersi un monastero di clausura, forse, per avere un po' di tregua dalla persecuzione implacabile dei moderni chiacchieroni.

Viviamo in una società che odia il silenzio, perché odia la riflessione: e odia la riflessione, perché ha il terrore che, da essa, possa nascere la consapevolezza di quanto siamo caduti in basso, e di quanto ci stiamo compiacendo di essere caduti così in basso.

Eppure, solo dal silenzio e da un salutare bagno di solitudine può venire una possibilità di salvezza; lontano dai mille e mille chiacchieroni prezzolati che ci rintronano gli orecchi con il loro insulso chiacchiericcio.

Chissà, facendo un po' di silenzio, potremmo riscoprire perfino il sussurro della nostra anima. Ammesso che ne abbiamo ancora una.

Ma, per averla, bisogna che siamo stati capaci di conservare almeno un po' di onestà interiore: ossia di sana, benefica, "primitiva" ingenuità.