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Europa: quando i popoli parlano bocciano l’eurocrazia

di Antonio Martino - 17/06/2008

 

 

 

L’esito del referendum irlandese ed i commenti che ha suscitato mi hanno confermato nell’opinione che nulla cambia in Europa. Nel giugno 1992 il referendum in Danimarca bocciò la ratifica degli accordi di Maastricht e, allora come oggi, vennero versati i proverbiali fiumi di inchiostro. Gli euroentusiasti sostennero che non avesse senso che l’1,4% dell’elettorato di un Paese la cui popolazione rappresentava soltanto lo 0,16% della popolazione totale dei dodici Paesi della Comunità potesse bloccare un processo che interessava il restante 99,84%.   

 

Lo stesso accade oggi col referendum in Irlanda: ha senso che uno scarto di 100 mila voti contrari alla ratifica blocchi un trattato che interessa oltre 400 milioni di europei? Dopo 16 anni il copione si ripete: il voto popolare, date le modeste dimensioni, viene considerato scarsamente significativo, quasi che avessimo la certezza che i restanti 400 milioni di europei fossero compattamente convinti della assoluta necessità di quell’accordo per il futuro loro e dell’intero Vecchio Continente. Nel 2005 due Paesi fondatori dell’Europa, Francia ed Olanda, sottoposero a referendum popolare un altro trattato europeo (Nizza); anche in questo caso il voto popolare ebbe esito negativo ma la cosa non scalfì le certezze degli europeisti.

 

 I fautori dell’accordo sono europeisti e, quindi, hanno ragione; gli irlandesi contrari alla ratifica del trattato di Lisbona vogliono bloccare il processo di unificazione dell’Europa e, quindi, hanno torto. Neanche il tribunale della Santa Inquisizione era tanto posseduto dalle sue certezze: come si può essere certi che il trattato di Lisbona rappresenti la soluzione infallibile ed assolutamente necessaria ai problemi dell’unità europea? Come si può implicitamente essere convinti che il suo contenuto sia condiviso dai popoli d’Europa, specie quando è certo che solo una minoranza numericamente insignificante lo conosce?

 

Franco Venturini in un fondo del Corriere della sera (14 giugno) ricorda questi smacchi all’europeismo dominante e suggerisce come soluzione «la rifondazione (dell’Europa) a opera di un gruppo ristretto di integrazionisti pragmatici».

 

La soluzione non mi convince per una serie di motivi.  Anzitutto, non credo affatto che sia inevitabile rinunziare all’idea di un’Europa grande, inclusiva e aperta, e puntare ad una Unione basata su un club ristretto di Paesi che condividono la stessa visione del loro futuro. Una Unione siffatta non realizzerebbe gli ideali di "voce" nel mondo che chi crede nell’unità europea auspica che essa realizzi.

 

In secondo luogo, mi sembra tutta da dimostrare l’idea che esista un piccolo gruppo di (grandi?) Paesi disposti a perseguire assieme gli stessi obiettivi, per esempio in politica estera.

 

Solo i nostalgici del "capitalismo renano", di un’unione dominata dall’accordo franco-tedesco, possono crederci. Infine, siamo davvero certi che le bocciature siano imputabili all’immaturità o allo scarso spirito europeo degli elettori che non capiscono che la direzione verso cui muovere è quella indicata dai trattati che l’Europa propone? 

 

A me sembra altra la causa di questi fallimenti dell’europeismo di maniera: se vogliamo che i popoli europei capiscano il senso dell’europeismo abbiamo il dovere di renderlo esplicito. Cosa vogliamo che sia fatto a livello europeo, cosa a livello nazionale o locale? Quali sono gli obiettivi che, non potendo essere perseguiti efficacemente a livello nazionale, devono essere affidati all’Unione? 

 

Finché non avremo reso inequivocabile questo aspetto, gli europei non capiranno e saranno contrari ad un progetto la cui ambizione è pari alla incomprensibilità. 

 

Le Costituzioni si scrivono sulla carta ma vivono nella mente e nel cuore di quanti sono tenuti a rispettarle, per essere rispettate devono essere rispettabili e comprensibili.

 

Finché gli eurocrati verranno meno al fondamentale dovere di chiarezza potranno fare affidamento sulla generale ostilità degli europei.