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Le cinquanta ore di vergogna a Cassino

di Fernando Ricciardi - 18/06/2008

 



Il 26 novembre del 2004, a Cassino, si è tenuto un convegno sulle vicende dell’ultimo conflitto bellico. La manifestazione si è svolta nella totale indifferenza della città e degli organi di informazione che, evidentemente, hanno preferito dirottare la loro attenzione su problematiche di ben altro spessore. Eppure si è trattato di un momento assai importante, oserei dire ‘storico’. Tra i relatori, infatti, vi era anche Ahmid Benhraalate, Presidente della ‘Union National des Anciens Combatents Marocains’ il quale ha finalmente riconosciuto le responsabilità dei soldati marocchini per le gravi violenze perpetrate sulle popolazioni del Lazio meridionale nel maggio del 1944. Responsabilità che il governo francese (le truppe di colore erano inquadrate nell’esercito transalpino) continua imperterrito a disconoscere. Un atto di coraggio, sia pure tardivo, che ha conosciuto il suo momento più solenne quando il prof. Benhraalate ha chiesto scusa al popolo italiano. Tutto iniziò quando il comando alleato decise di affidare al generale Juin il compito di aggirare la linea Gustav per costringere i tedeschi a sgomberare il campo. L’ufficiale francese aveva ai suoi ordini 12.000 ‘goumiers’ marocchini e algerini specializzati nella guerra di montagna. Juin prima di accettare l’incarico chiese per i suoi uomini tre giorni di ‘carta bianca’. Il comando anglo-americano gliene accordò due, anzi, per l’esattezza, 50 ore. Il generale riunì gli ufficiali e stabilì il piano d’attacco. Promise ai suoi uomini che se fossero riusciti a superare lo sbarramento tedesco avrebbero avuto più di due giorni di totale libertà, avrebbero potuto fare di tutto su quella terra oltre la linea del fronte. Quella terra dove c’era cibo in abbondanza, vino, case da razziare ma, anche e soprattutto, donne. Donne belle, dalla carnagione candida, disponibili, un boccone troppo appetitoso per non profondere in battaglia tutte le energie necessarie. L’attacco cominciò il 12 maggio e fu subito coronato da successo. I tedeschi per non rimanere accerchiati si ritirarono verso Roma lasciando campo libero alle truppe di colore. I rudi soldati africani, con tanto di turbante, mantello e scimitarra, poterono sfogare i loro istinti più brutali. Il Lazio meridionale si trasformò in terra di conquista. Un’orda selvaggia sciamò inditurbata per le campagne e per i centri abitati alla frenetica ricerca di donne e di cibo. Quei soldati avevano stravinto la battaglia e ora volevano ciò che era stato loro promesso. E dovevano fare anche in fretta. Alla fine il bilancio fu gravissimo. Una stima verosimile parla di 2.000 donne stuprate e 600 uomini sodomizzati. Esperia, Monticelli, Ausonia, Lenola, Pico, Pastena, Castro dei Volsci, Vallecorsa e Amaseno furono i centri più colpiti. Poche donne riuscirono a farla franca. Molte furono stuprate anche dieci volte nel corso della stessa giornata. Alcune di esse persero la vita, altre finirono per impazzire. I soldati di colore non risparmiarono né anziane né bambine. Gli uomini che tentarono di difendere l’onore delle proprie mogli, figlie o sorelle, furono uccisi sul posto oppure sottoposti a patimenti inenarrabili. Don Alberto Terilli, parroco di E-speria, aveva tentato di nascondere alcune donne nella sagrestia. Tutto, però, risultò vano. I marocchini stanarono quelle poverette e le violentarono.
Quindi portarono il sacerdote nella piazza e lì lo sodomizzarono a ripetizione. Qualche tempo dopo, consumato dal dolore e dalla vergogna, passò a miglior vita. Tante le vicende collegate a questa pagina così triste e oltraggiosa. Come quella di due sorelle che vennero violentate da più di 200 uomini: l’una morì, l’altra diventò pazza e fu rinchiusa in un manicomio. “Arrivarono quelle bestie con i fucili spianati, immobilizzarono gli uomini sparando dei colpi per terrorizzarli, poi, mentre alcuni li tenevano fermi con le baionette alla gola, gli altri a forza di botte, pugni e schiaffi, calci e spintoni, davano inizio alla violenza. Poveri chi ci capitava… Purtrop-po anche qui una nota del tutto particolare: chi fu veramente violentata lo ha taciuto per pudore; invece molte di quelle che non lo furono, fecero domanda di pensione”: così ricorda Antonio Colicci di Pontecorvo che all’epoca aveva soltanto 12 anni. Un dramma nel dramma dunque: la vergogna di tante donne che, subita la bestiale violenza, per pudore, hanno preferito tenerla celata.
Quasi che il fatto fosse imputabile ad un loro comportamento colposo. Si racconta che a Pico furono presi tre giovani, un maschio e due femmine: la madre morì poco dopo di crepacuore. I figli, invece, sopravvissero nascondendo per sempre ciò che avevano patito. Subito dopo la guerra, in quei posti, quando una donna ingrassava e poi dimagriva in breve lasso di tempo, si diceva: “Quella l’hanno presa i marocchini”. Non mancarono storie di eroismo ormai perse nell’oblio. A Esperia si trovava sfollata una famiglia di Pontecorvo. Con essa vi era una prostituta non più giovanissima ma ancora piacente. Quando vide arrivare i soldati di colore, invece di scappare, si fece loro incontro, offrendo le sue grazie. Ciò consentì alle nipoti di farla franca. Tanti altri gli episodi che si potrebbero raccontare. La sostanza, però, non cambierebbe di molto. Le violenze marocchine nei paesi del Lazio meridionale restano una pagina orribile, drammatica, quanto poco conosciuta. Vero è che, al giorno d’oggi, molti dei testimoni di quello scempio non sono più in vita. Ma non è solo per questo. La materia sembra quasi scottare. Di essa non si parla molto volentieri. E la cosa è quanto mai strana e singolare. Non sarà, forse, per il fatto che tra i cosiddetti ‘liberatori’ vi erano anche i soldati marocchini?