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Paura. Una storia culturale

di Elisabetta Del Soldato - 07/07/2008

    
Joanna Bourke, autrice del saggio Paura. Una storia culturale, ha analizzato lo sviluppo storico del sentimento della paura nel Regno Unito e negli Stati Uniti negli ultimi 150 anni. Intervistata da Elisabetta Del Soldato, l’autrice riflette sulle difficoltà di chi è impegnato a studiare la storia non di un evento ma di un’emozione. Alla prospettiva di lungo periodo si aggiunge l’esigenza di adottare metodologie differenti da quelle tradizionali. Tra i risultati della ricerca scopriamo che la paura del terrorismo non è peculiare del nostro tempo, ma nacque già negli anni ‘70.
Oltre a mutare le cause e gli obiettivi della paura, cambiano anche le soluzioni: col tempo, alla comunità e alle Chiese, si sono sostituiti i medici, ma soprattutto la paura ha assunto una dimensione individuale.


Analizzare la storia culturale di un’emozione come la paura è un compito molto più complesso che analizzare un singolo evento storico, ci spiega Joanna Bourke, autrice di Paura. Una storia culturale pubblicato recentemente da Laterza (pagine 476, euro 20,00). La docente di Storia all’Università «Birkbeck» di Londra esamina le paure predominanti in Gran Bretagna e Stati Uniti negli ultimi 150 anni e invita ad esplorare le paure che ci hanno scosso nei secoli, fino alle recenti riflessioni sulla «Guerra al terrore».

Professoressa Bourke, come si sono evolute nel tempo le nostre paure?
«È particolarmente interessante il contrasto tra le paure predominanti del XIX secolo e quelle che proviamo oggi. Nel XIX secolo la paura della morte, per esempio, era legata a una paura dell’aldilà o di una morte prematura, che significava non aver tempo di soffrire per purificarsi dai peccati e prepararsi al ricongiungimento con Dio. Oggi, al contrario abbiamo paura di una vita forzatamente prolungata dai farmaci e di perdere, nella sofferenza, la nostra dignità. I medici, oggi, hanno un’influenza su di noi superiore a quella dei leader religiosi e i dibattiti su eutanasia e morte assistita lo dimostrano.
Mentre, nel passato, l’individuo spaventato si rivolgeva alla propria comunità o alle istituzioni religiose in cerca di consiglio e conforto, con l’avanzare del secolo la paura ha assunto sempre più una connotazione individuale, proprietà dello psicoterapeuta o del medico».
Lei ha analizzato la paura nelle società americana e britannica: non crede che sia diversa nel resto dell’Europa o in America latina?
«Decisamente nei paesi latini il contesto sociale è diverso e la figura religiosa ha un peso più importante. Le famiglie sono più unite e sentono la responsabilità di prendersi cura dei parenti malati.
Di conseguenza da parte della persona malata esistono meno sensazioni di sentirsi un peso per i familiari e la paura della perdita della dignità».

Gli studiosi non hanno mai fornito una spiegazione di cosa essa sia veramente, e quali siano le sue conseguenze.
«Gli storici tendono a voler discutere sulle risposte razionali e sul concetto di causalità, ma non amano parlare di irrazionalità e dunque di emozioni. Il mio interesse per la storia delle emozioni è nato dopo aver capito che nei miei libri precedenti avevo esplorato alcuni tra i momenti più traumatici della storia moderna con occhio distaccato. Avevo impiegato un decennio a leggere lettere e diari di uomini e donne che durante la guerra si trovavano al fronte ma non ero riuscita a capire le loro emozioni. È molto difficile distinguere tra la paura e le altre emozioni. Rabbia, disgusto, odio e terrore contengono tutti caratteristiche della paura.
Pensiamo alla gelosia come alla paura di perdere un partner, alla colpa come paura della punizione divina o alla vergogna come la paura di essere umiliati. È impossibile ripercorrere la storia di ogni aspetto della paura. Il mio interesse si è dunque spostato su due questioni fondamentali: ‘Come veniva usata la parola ‘paura’ nei diversi contesti culturali?’ e ‘Quali erano le norme sociali che intervenivano nell’espressione della paura?’»

È possible che la politica della paura sia diventata una caratteristica dei nostri tempi?
«Non c’è dubbio che sia diventata una caratteristica dei nostri governi. I governi devono però essere prudenti nell’usare questa politica: in una società democratica è inconcepibile che un individuo debba vivere sotto la costante oppressione della paura».

Tra le paure contemporanee dove colloca quella del terrorismo?
«Il terrorismo è considerato il protagonista della nuova Guerra fredda, ma non è certo una novità.
La paura del terrorismo si è diffusa a partire dagli anni ‘70. Tra il 1977 e il 1978, l’85-90% degli americani e dei britannici considerava il terrorismo un serio problema. Per farvi un esempio, tra il 1989 e il 1992 solo trentaquattro americani furono uccisi dai terroristi in tutto il mondo, ma nelle librerie americane si potevano contare più di 1300 titoli alla voce ‘terrorismo’. Una delle conseguenze, paradossalmente rassicurante, dell’11 settembre è stata quella di dare un volto alla paura. Dopo l’attacco alle Torri gemelle si poté finalmente dare un nome al nemico. Il nemico non erano più i servizi segreti o un cittadino impazzito, ma i fondamentalisti islamici. Il nemico poteva ora essere identificato: era il ‘musulmano’».