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Home / Articoli / Rileggendo Lucrezio: l'uomo è un assurdo gettato a caso in attesa del nulla?

Rileggendo Lucrezio: l'uomo è un assurdo gettato a caso in attesa del nulla?

di Francesco Lamendola - 09/07/2008

 

 

Tito Lucrezio Caro, sulle orme di Epicuro - da lui ammirato e venerato quasi come un Dio - era profondamente persuaso che l'uomo, come del resto ogni altro vivente e come ogni altra cosa, non sia il risultato di un piano provvidenziale degli dei - i quali, beati, vivono negli intermundia, senza curarsene affatto -, ma un prodotto casuale di atomi: nato dal caso e destinato a scomparire senza residui, anche l'anima essendo di natura mortale.

Che il mondo non possa essere governato dagli dei, Lucrezio lo dice con estrema chiarezza nel libro secondo del De rerum natura (versi 1.090-1.104):

 

Quae bene cognita, si teneas, natura videtur

libera continuo, dominis privata superbis,

ipsa sua per se sponte omnia dis agere expers.

Nam pro sancta deum tranquilla pectora pace

Quae placidum degunt aevum vitamque serenam,

quis regere immensi summam, quis habere profundi

indu manu validas potis est moderanter habenas,

quis pariter caelos omnis convertere et omnis

ignibus aetheriis terras suffire feraces,

omnibus inve locis esse omni tempore praesto,

nubibus ut tenebras faciat caelique serena

concutiat sonitu, tum fulmina mittat et aedes

saepe suas  disturbet et in deserta recedes

saeviat exercens telum quod saepe nocentes

praeterit exanimatque indignos inque merentes?

 

Per la traduzione, ci serviamo qui della edizione del De rerum natura a cura di Francesco Vizioli (Newton & Compton, Roma, 2000, pp. 141-43):

 

Solo così pensando noi potremo comprendere

che la natura, affrancata da qualsivoglia padrone,

può sempre agire da sola senza un dio che intervenga.

Se pensiamo agli dei, che sono sempre sereni,

ed al ritmo tranquillo che guida la loro esistenza

quale reggerà il mondo con polso fermo e sicuro

governando il timone di questo intero universo?

Quale divina persona saprà far muovere i cieli

e riscaldare col sole tanti terreni feraci,

pronto sempre e dovunque ad interventi solleciti,

oscurando di nubi il cielo quando è sereno,

scatenandovi il tuono e lanciando la folgore

perfino sui propri templi? E che sappia lanciare

in tal modo i suoi strali, anche se spesso non colgono

i bersagli malvagi ma solo colpiscono i buoni?

 

Lucrezio è una natura pensosa, addirittura tragica. Nel suo ateismo - ché l'immagine degli dei beati ed estranei alle umane vicende non è che una concessione alla religiosità del tempo, ma il cuore del suo sistema è decisamente ateistico - non ha nulla della cinica e scanzonata facondia di un Luciano di Samosata. Lucrezio dichiara di aver trovato pace e serenità nella filosofia epicurea, e un tale dono egli vorrebbe elargire ai propri lettori; ma è facile accorgersi che in lui non vi è serenità, né pace, ma l'intimo rovello di un animo religioso che non si rassegna - come quello di Leopardi - alle fredde e desolanti verità che la pura ragione gli addita.

Sia come sia, Lucrezio sostiene - adoperando il tipico ragionamento epicureo "a rovescio" - che proprio l'immensa complessità del cosmo non ammette che un dio possa, da solo, provvedervi costantemente; o che, se pure il dio lo potesse fare, ciò gli impedirebbe di vivere sereno, costringendolo ad immergersi in mille preoccupazioni legate alle cose terrene.

Naturale conseguenza di questo ateismo pratico - gli dei ci sono, ma, per l'uomo, è come se non ci fossero - è la convinzione che il mondo non possa essere fatto per gli uomini; e che, anzi, l'uomo è l'essere più misero dell'intero universo. Egli, infatti, sin dalla nascita, è debole e bisognoso di tutto; mentre le fiere sono molto più adatte di lui ad affrontare la fame, il caldo, il freddo e i pericoli di cui è fatta la condizione dei viventi (libro quinto, versi 195-234).

Come scriveva il latinista Luciano Perelli nel suo commento al De rerum natura (S. Lattes & C. Editori, Torino, 1981, pp. 175-176):

 

Lucrezio combatte l'opinione degli stoici che una Provvidenza divina governi il mondo, e che esso sia stato creato dalla Provvidenza stessa nel modo migliore per l'uomo, e quasi posto al suo servizio. L'evidenza stessa delle cose prova il contrario: vediamo infatti che monti e foreste selvagge, mari e paludi rendono inabitabile gran parte della terra, due terzi della quale, la zona glaciale e la zona torrida, non consentono vita umana. E là dove vive l'uomo, la terra deve essere lavorata con fatica assidua perché dia ciò che è necessario al sostentamento, e la siccità, il gelo o la tempesta possono vanificare questa fatica. Perché poi la natura fa crescere le fiere ostili all'uomo? Perché le malattie e le morti precoci? Fin dalla nascita l'uomo è bisognoso di tutto, di protezione e di aiuto, degli alimenti che da solo non sa procurarsi, delle cure e dei vezzi della nutrice; il suo vagito è un lugubre presagio dell'infelicità di tutta a vita. Le stirpi animali invece crescono e prosperano con ciò che offre loro la natura, non abbisognano di vestiti, di armi e di mura, e perciò sono tanto più felici dell'uomo.

Su questo passo, di un pessimismo leopardiano avanti lettera, molto si discute per decidere se esso rispecchi la dottrina di Epicuro oppure rappresenti un tradimento del discepolo al pensiero del maestro. Nonostante il tentativo fatto dal Bignone, imitato, o meglio creduto ciecamente da molti altri, di dimostrare la sostanziale fedeltà del passo ai principi dell'Epicureismo, esso è da ritenersi una digressione personale del poeta, che alla negazione della Provvidenza ordinatrice del cosmo, negazione tratta da Epicuro, aggiunge argomentazioni pessimistiche tratte da altri pensatori. In particolare è da escludere che Epicuro affermasse l'inferiorità naturale dell'uomo in confronto agli animali e del resto Lucrezio stesso contraddirà a questa opinione nel corso del libro quinto, là dove egli seguirà più da vicino Epicuro. Paradossalmente, anziché seguire il positivismo ottimistico di Epicuro, Lucrezio qui accoglie le tesi di filosofi a tendenza mistica che presentano la vita terrena come sofferenza ed espiazione, il corpo come punizione ed un segno della colpa, ed assegnano all'anima umana un destino trascendente; evidenti analogie col passo lucreziano si trovano infatti in Empedocle, nel sofista Prodico di Ceo, nel dialogo pseudoplatonico Assioco, e in Carneade, il quale si vale di queste argomentazioni a puro titolo polemico contro gli Stoici; per una più ampia trattazione dell'argomento rimando al mio saggio Lucrezio contro Epicuro in V, 1952-234, in Riv. fil. class., 1961, pp. 239-282.

L'infelicità umana apparirà altrove, nel finale del libro, come dovuta in gran parte a colpa dell'uomo stesso; qui invece è proprio la condizione naturale dell'uomo che lo rende misero e infelice, ed esso ci appare come un essere reietto dalla natura, costretto a vivere a lottare in un ambiente ostile, zimbello delle forze immense e crudeli che lo soverchiano. E questa miseria dell'uomo non viene circonfusa di pietà, ma investita dal disprezzo e dallo scherno del poeta. C'è una violenza polemica, un'acredine rabbiosa contro il genere umano ed i suoi ottimisti laudatori, che non riesce a trasformarsi tutta in poesia. Forse è il confronto  col ritmo serenamente astrale e con la purezza malinconica del Canto Notturno leopardiano, per tanti rispetti affine, che ci desta questa impressione; del resto anche la Ginestra ha la sua parte polemica, sarcastica, e per questo men viva. Ma pure il cumulo delle argomentazioni e delle domande che sembrano voler flagellare ed annullare l'uomo con una sorta di sadico compiacimento di autodistruzione, raggiunge una sua forza espressiva, tanto più che si associa costantemente all'immagine di una natura grandiosa e sconfinata, indifferente alle ansie dei piccoli mortali, che essa domina dall'alto delle sue solitudini o delle sue collere terribili. Soggiogato ed affascinato dall'onnipotenza della natura, l'uomo Lucrezio non lamenta come Leopardi la sua crudeltà, ma non attaccala stolta superbia degli uomini che pretendono di essere il centro dell'universo, mentre non sono che vermi. E dalla parte polemica si stacca l'immagine lugubre, tintorettiana, del fanciullo che esce nudo alla luce del giorno, in un orizzonte foco e senza speranza. Il sorriso della natura, madre benigna degli altri animali, a lui è negato; l'uomo è un assurdo, uno sbaglio nell'ordine naturale, è come il figlio spurio che sconta una colpa ignota e nasce con un marchio ineliminabile di inferiorità e di dolore.

 

Ci sembra che gli argomenti di Luciano Perelli siano sostanzialmente condivisibili e che, nella  parte del libro quinto dedicata al posto occupato dall'uomo nella natura, si possa effettivamente parlare, se non proprio di un tradimento di Lucrezio nei confronti di Epicuro, certo di un suo significativo allontanamento dalla dottrina del pur tanto ammirato maestro. Allontanamento inconsapevole, per quanto ciò possa apparire strano, viste le entusiastiche lodi di Epicuro, che è presentato da Lucrezio più che come un semplice umano, quasi come un essere di natura divina, venuto a rischiarare la strada degli uomini che il pensiero della morte e degli dei rischia di sospingere negli oscuri terrori primordiali.

Certo, è strano che Lucrezio non si sia reso conto, almeno in apparenza, di quanto la sua concezione dell'uomo e della vita finisca per discostarsi, pur partendo dalle medesime premesse dell'atomismo democriteo, da quella di Epicuro; e non solo nei toni - come pure è stato autorevolmente osservato - ma anche nella sostanza. Il fatto è che Lucrezio non possedeva un autentico rigore speculativo; la filosofia, per lui, non era sforzo del pensiero e ardore di autonoma ricerca intellettuale, bensì una sorta di porto di quiete, ove riposare le stanche membra e rasserenarsi dalla conturbante meditazione sulla infelicità della condizione umana.

La grandezza di Lucrezio non è filosofica, ma poetica. Lucrezio è stato uno dei poeti più grandi nella storia dell'umanità: la sua forza espressiva, la sua potenza drammatica, la sua straordinaria capacità di trasmettere vividamente immagini, suoni, atmosfere, passioni e sentimenti ha pochi uguali, non solo nella storia della letteratura latina, ma in quella della poesia di tutti i tempi e paesi. Molti suoi passi esprimono una vis epica e scultorea degna in tutto e per tutto del miglior Dante e del miglior Michelangelo.

Ecco, dunque, i versi in questione, dal secondo libro del De rerum natura (195-234):

 

Quod si iam rerum ignorem primordia  quae sint,

hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim

confirmare aliisque ex rebus reddere multis,

nequaquam nobis divinitus esse paratam

naturam rerum: tanta stat praedita culpa.

Principio quantum caeli tegit impetus ingens,

inde avidam partem montes silvaeque ferarum

possedere, tenent rupes vastaeque paludes

et mare quod late terrarum distinet oras.

Inde duas porro prope partis fervidus ardor

adsiduusque geli casus mortalibus aufert.

Quod superest arvi, tamen id natura sua vi

sentibus obducat,ni vis huama resistat,

vitai causa valido consueta bidenti

ingemere et terram pressis proscindere aratris.

Si non fecunda vertentes vomere glebas

terraique solum subigentes cimus ad ortus,

sponte sua nequeant liquidas exsistere  in auras;

et tamen interdum magno quaesita labore

cum iam per terras frondent atque omnia florent,

aut nimisis torret fervoribus aetherius sol

aut subiti peremunt imbres gelidaeque pruinae,

flabraque ventorum violento turbine  vexant.

Praeterea genus horriferum natura ferarum

humanae genti infestum terraque marique

cur alit atque  auget? Cur anni tempora morbos

apportant?Quare mors immatura vagatur?

Tum porro puer, ut saevis proiecta ab undis

navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni

vitali auxilio, cum primum in luminis oras

nixibus ex alvo matris natura profudit,

vagituque locum lugubri complet, ut aequumst

cui tantum in vita restet transire malorum.

At variae crescunt pecudes armenta ferraeque

nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast

almae nutricis blanda atque infracta loquella

nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli,

denique non armis opus est, non moenibus altis,

qui sua tutentur, quando omnibus omnia large

tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

 

Ancora la traduzione di Francesco Vizioli (Op. cit., pp. 259-261):

 

Anche senza sapere come tutto abbia origine,

potremo sempre affermare, solo osservando gli eventi

che accadono in cielo, e molti altri fenomeni,

che ciò che vediamo non nasce per un volere divino:

basti pensare, del resto, al male che è sparso nel mondo.

Alludo a quello che accade sotto l'arco del cielo

ai precipizi rocciosi ed alle oscure foreste

popolate di belve, alle paludi malsane,

alle distese del mare che uniscono rive lontane

e a tante terre del mondo che sono infestate

da un soffocante calore o da un gelo mortale:

la stessa natura, da sola, concederebbe assai poco

di quel che possiede se l'uomo con il suo sforzo

non riuscisse a carpirlo, e se il bisogno di vivere

non lo spingesse a poggiare col piede sopra l'aratro.

Se il vomere bene affilato non segna quel solco

con cui si prepara il terreno a ricevere il seme

nessun germoglio cresce a portare i suoi frutti:

re quando poi questi frutti, pure ottenuti a fatica,

sono ben maturati, e lieti adornano i campi

spesso accade che il sole per troppo calore li bruci

o la pioggia li pieghi, cadendo improvvisa e gelata,

o il vento col suo turbinare li trascini lontano.

Come mai si moltiplicano, per le terre e nei mari

moltitudini orrende di tanti animali feroci

che sono nemici dell'uomo? Perché le stagioni

ci portano le malattie? Perché tanti giovani muoiono?

Ogni bambino che nasce assomiglia ad un naufrago

solo sulla battigia, senza alcuna difesa

che lo aiuti ad esistere dopo il momento nel quale

la natura, forzandolo, lo aveva strappato alla madre:

può solo farsi sentire con disperati vagiti

che sembrano far presagire mille mali futuri.

Ciò non accadde alle bestie, siano mansuete o feroci,

che non richiedono i baci, né le carezze, né i vezzi

che le nutrici rivolgono ai figli dell'uomo:

non hanno bisogno di abiti adatti alle varie stagioni

e neppure di armi: a loro non servono mura

dietro cui trincerarsi, perché la natura e la terra

recano sempre a ciascuno quel che gli occorre.

 

Lucrezio, come è stato detto, in questo brano sembra mostrare piuttosto disprezzo che pietà per la miserrima condizione degli esseri umani; o, quanto meno, una pietà aspra e sofferta, celata e quasi sepolta dietro un atteggiamento di spregio che è, forse, una maschera auto-imposta per non lasciarsi coinvolgere intimamente dalla durezza del destino a noi riservato.

Comunque ciò sia, non si può dire che questo stato d'animo emerga improvviso nel quinto libro del poema, perché fin dal terzo, parlando del timore della morte che attanaglia gli umani, e perfino coloro i quali fan professione di filosofia, era emerso un atteggiamento non solo di disprezzo, ma, più ancora, di disgusto, verso gli uomini che indugiano ad aggrapparsi alla vita che sfugge loro, pur se tribolati da infiniti mali dai quali, se non altro, la morte giungerebbe a liberarli una volta per tutte.

Non si tratta dell'esaltazione del suicidio quale estrema ratio per difendere la propria dignità, come volevano gli stoici; bensì - ancora - di una disposizione d'animo piuttosto istintiva ed estetica che non filosofica. Lo spettacolo dell'umanità sofferente, angosciata, torturata in mille modi, la quale, ciò nonostante, si ostina ad aggrapparsi all'ultimo fiato di vita, non suscita in Lucrezio alcuna compassione, e neppure disprezzo, ma addirittura uno sdegno incoercibile, testimoniato da quel rabbioso e quasi incredulo: denique vivunt, «eppure vivono!», del verso 50, che il Ferrero magnificamente traduce con quel: «malgrado tutto continuano a vivere».

Citiamo i versi 41-54:

 

Nam quod saepe homines morbos magis esse timendos

infamemque ferunt vitam quam Tartara leti

et se scire animi naturam sanguinis esse

aut etiam venti, si fert ita forte voluntas,

nec prorsum quicquam nostrae rationis egere,

hinc licet advertas animum magis omnia laudis

iactari causaquam quod res ipsa probetur.

Extorres idem patria longeque fugati

conspectu ex hominum, foedati crimine turpi,

omnibus aerumnis adfecti denique vivunt,

et quocumque tamen miseri venere parentant

ret nigras mactant pecudes et manibu' divis

inferias mittunt multoque in rebus acerbis

acrius advertunt animos ad religionem.

 

Preferiamo qui ricorrere alla traduzione di Balilla Pinchetti (Lucrezio, La natura, con prefazione di Luca Canali, Rizzoli, Milano, 1953, 1983, p.181 (proprio a causa di quel denique vivunt che Francesco Vizioli traduce diversamente, ma, secondo noi, con minore efficacia e rispetto del senso originario):

 

Perché, se gli uomini affermano spesso che le malattie

e il disonore si debbono temere più che la morte,

e che l'essenza dell'animo è, lo si sa, quella stessa

del sangue, od anche dell'aria, secondo come ci aggrada,

e non v'è quindi bisogno di questa nostra dottrina,

potrà capitare, da quanto segue, che queste son tutte

millanterie: nell'effetto la realtà le smentisce.

Essi, sbanditi, cacciati via dal consorzio civile,

macchiati di obbrobriosi delitti, afflitti da mille

calamità, tuttavia vivono, e onorano, dove

giungan così sventurati, i morti coi sacrifici,

sgozzan le pecore nere, offron l'esequie agli dei

mani, e con molto più slancio nelle disgrazie rivolgono

l'animo a ciò che concerne la religione…

 

La conclusione che si ricava dalla lettura di questi passi di Lucrezio è che una logica interna ed un unico filo di ragionamenti lega tra loro l'idea che il mondo e la vita siano opera del caso, a quella della mancanza di senso della vita umana, infine a quella che la vita umana abbia poco valore e che bisognerebbe essere pronti a sbarazzarsene, non per accedere a una condizione esistenziale più alta, ma per sprofondare, una buona volta, nella gran pace del nulla.  Da una visione atomistica e meccanicistica della natura, cioè, si passa a una visione relativistica, scettica e pessimistica della condizione umana e, come inevitabile conseguenza, all'idea che il morire sia preferibile al vivere, il non essere sia migliore dell'essere.

La cultura occidentale impiegherà quasi duemila anni per sviluppare questi concetti. Lo farà in maniera esplicita, dopo una lunghissima gestazione, con l'opera di Leopardi, Schopenhauer, Eduard von Hartmann e, più recentemente, con quella di Sartre. Ma, in maniera implicita, tale è la visione cui sono giunti la maggioranza dei filosofi e degli scrittori dell'età moderna; o, quanto meno, quelli che sono riusciti ad imporre le linee generali del pensiero e della sensibilità contemporanei.

Ma, come già si vede - appunto - in Lucrezio, questa implacabile coerenza logica non ha portato alcun rasserenamento all'anima della cultura occidentale; né, al di là delle fallaci promesse di certi cantori dello scientismo, alcun contributo positivo all'idea del vivere. Al contrario, ha circondato questa idea di tali e tanti elementi di diffidenza, scoraggiamento, disprezzo e perfino derisione, che un atteggiamento positivo verso di essa sembra - ai rappresentanti della cultura dominante - il colmo dell'ingenuità o della stoltezza. Basti pensare alle critiche, tanto gratuite quanti superficiali, portate dal Candide di Voltaire al concetto leibniziano del migliore dei mondi possibili. Laddove Leibniz non si era affatto sognato di sostenere che il mondo in cui viviamo è, in assoluto, perfetto, ma semplicemente che, fra tutti i mondi possibili, esso è il migliore; o, e si preferisce, il meno peggiore.

E questa, crediamo, è anche la più seria delle obiezioni che si possono muovere al pessimismo cosmico di Lucrezio.

Dal fatto - incontestabile - che la condizione umana, nel contesto della natura, è quanto mai fragile e continuamente minacciata, non consegue inevitabilmente la conclusione che essa sia frutto del caso o che sia priva di senso e di scopo.

 

Forse, quel senso e quello scopo vanno cercati, e non semplicemente attesi, come si può attendere il sopraggiungere di qualche cosa che non dipende affatto da noi.

Perché noi, dopotutto, siamo sì gli oggetti di una vicenda naturale fatta di precarietà, debolezza e dolore; ma, anche, i soggetti di una vicenda spirituale che ambisce a trascendere tali limitazioni e imperfezioni, per proiettarsi liberamente verso la sfera dell'assoluto e dell'eterno.