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Quel garofano nella scarpa sudata da tennis o il fascino torbido della liceale «moderna»

di Francesco Lamendola - 14/07/2008

Nei due precedente articoli, Le tredicenni o il fascino proibito dell'ultima frontiera, e Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo (consultabili entrambi sul sito di Arianna Editrice), abbiamo avviato una riflessione, rispettivamente, sulle implicazioni psicologiche del «lolitismo» nella società contemporanea, e sulle potenzialità distruttive che un certo tipo femminile è in grado di esercitare su un certo topo maschile.

C'è stato, nel panorama letterario europeo del XX secolo, uno scrittore che ha unificato questi due spunti e ha sviluppato il tema della femminilità acerba, adolescenziale, quale elemento di degradazione e di auto-distruzione per la psicologia maschile, non necessariamente dell'uomo maturo e frustrato delle classi medie (come il professor Humbert in Lolita di Nabokov), ma anche per l'uomo giovane o per il ragazzo, a qualunque ceto sociale egli appartenga. Si tratta del polacco Witold Gombrowicz (1904-1969), che ha saputo cogliere in anticipo i segni di una profonda trasformazione sociale e di costume, quando essa era appena in parte accennata; e, in particolare, l'emergere di una nuova categoria sociologica, quella della «liceale», come nuova forma estrema della emancipazione culturale della donna, nonché come emblema erotico della modernità e come strumento di seduzione estremamente conturbante forgiato dalle giovani generazioni, decise a farne un uso spregiudicato per raggiungere i propri fini: sfidare e provocare gli adulti e, in generale, il sesso maschile, pur sapendo di non poterli «sostituire». Una sorta di rivolta del principio del piacere contro quello di dovere; o, se si preferisce, della democrazia dei diritti contro l'austera tradizione del sacrificio e dell'obbedienza.

Uno stile scanzonato, caustico e brillante; una fantasia barocca e visionaria; una spietata capacità di critica e di demistificazione; una sessualità dolente, dietro i veli impalpabili dell'estetismo e di un eros raffinato e deliziosamente immaturo: tali sono le caratteristiche che emergono da romanzi quali Ferdydurke (1937); Gli indemoniati (1939), Pornografia (1960), che lo hanno rivelato come uno dei maggiori scrittori polacchi contemporanei , nonché uno dei più originali e corrosivi interpreti della mutazione antropologica europea a cavallo della seconda guerra mondiale e negli anni della ricostruzione e del "benessere".

 

Vale la pena di riportare un brano dal delizioso Ferdydurke, esilarante apologo di un trentenne che un mattino, al risveglio, si trova inusitatamente trasformato: non, come il Gregor Samsa de La metamorfosi di Kafka, in un orribile insetto, bensì, semplicemente, in un ragazzino; meglio, in un bamboccio. E, come tale, viene collocato in una classe liceale, insieme ad altri ex adulti rimbambocciti come lui. La cosa veramente strana è che in lui non si è operata una vera regressione anagrafica; egli è pur sempre un trentenne: ma un trentenne che tutti gli altri trattano come un bamboccio. Inizialmente, si capisce, matura in lui un profondo senso di ribellione; salvo poi rendersi conto che, dopo tutto, essere sollevati dalle responsabilità proprie della vita adulta, essere trattati come dei bambocci inguaribilmente goffi e infantili, non è poi una cosa tanto sgradevole, come poteva sembrare. Oltre tutto, la sua nuova condizione gli consente di contemplare più da vicino l'universo conturbante delle liceali, quelle disinibite ragazzine dal fascino proibito, ma godendo dell'equivoco privilegio di essere divenuto un loro «coetaneo».

 

Nel brano in questione viene descritta una sorta di ricognizione nella casa di una di queste irresistibili ninfette, tipica espressione della civiltà moderna che si va sempre più americanizzando (e siamo ancora nel 1937): estroverse, dinamiche, sportive, più che disinvolte in qualunque circostanza.

 

Il fatto stesso che la ragazza non avesse una camera tutta sua e dormisse in un angolo del soggiorno era già di per sé fonte di fascinose e inebrianti suggestioni.  Suggeriva la provvisorietà caratteristica del nostro secolo, il nomadismo delle liceali e un certo qual carpe diem che, per certe vie segrete. Si collegava alla natura facile, modellata sull'automobile, della gioventù contemporanea. Faceva pensare a una ragazza che si addormenta all'istante, appena posata la testolina, (occhietti non si poteva più dire, ma testolina ancora sì) sul guanciale , il che a sua volta faceva pensare all'intensità, al ritmo frenetico della vita odierna. Inoltre l'assenza di una camera da letto sensu stricto mi rendeva impossibile svolgere un'azione come quella in camera dei Giovanotti. In realtà la liceale non dormiva in privato ma in pubblico, non possedeva una vita notturna privata e questa dura assenza di privacy l'apparentava all'Europa, all'America, a Hitler, Mussolini, Stalin, ai campi di lavoro, agli accampamenti militari, agli alberghi, alla stazione ferroviaria, creando uno spazio sconfinato escludendo la possibilità di un angolino privato. Le lenzuola nascoste nel divano letto, avevano un carattere accessorio, erano un'appendice del sonno e nulla più. Del tavolino da toilette non c'era traccia. La liceale si guardava in uno specchio a parete. Niente specchietto a mano. Accanto al divano letto un piccolo tavolino nero, da studentessa liceale, con libri e quaderni. Sui quaderni una limetta da unghie, sul davanzale della finestra un temperino, una stilografica a buon mercato, una mela, un programma di manifestazioni sportive, una foto di Fred Astaire e Ginger Rogers, un pacchetto di sigarette, uno spazzolino da denti, una scarpa da tennis con dentro un fiore, un garofano buttato lì a caso. Nient'altro. Che modestia, e che forza!

Mi soffermai in silenzio sul garofano. Non potei impedirmi di ammirare la liceale. Che artista! Con quel fiore nella scarpa prendeva due piccioni con una fava: da un lato insaporiva l'amore con lo sport, dall'altro condiva lo sport con l'amore. Mica aveva buttato il fiore in una scarpa qualunque: aveva scelto apposta una scarpa da tennis intrisa di sudore, ben sapendo che solo il sudore sportivo non danneggia i fiori.  Associando il sudore sportivo al fiore suscitava simpatia per il suo sudore in generale, gli aggiungeva un non s che di fiorito re di sportivo. Che maestra! Mentre le ragazze all'antica, ingenue, banalotte, coltivavano azalee in vaso, lei i fiori li buttava nelle scarpe, nelle scarpe da tennis! E magari, brutta carogna, l'aveva anche fato così, senza pensarci, per puro caso!

 

Viene da ridere al pensiero di quanti film di quart'ordine abbiano inondato, negli anni Settanta del secolo appena trascorso, le nostre sale cinematografiche, cercando disperatamente di sfruttare il filone erotico delle liceali maliziose; senza che alcuno di essi si sia mai avvicinato, nemmeno  lontanamente, ai vertici di raffinata sensualità di queste poche righe, scritte da un romanziere polacco prima della seconda guerra mondiale. Che errore, credere che l'erotismo abbia a che fare con gli spogliarelli e con le nudità generosamente esposte!

Qui, la liceale non si vede nemmeno; si vede la sua stanza: anzi, il soggiorno in cui dorme, perché non ha nemmeno una camera tutta sua. Ogni circostanza sembrerebbe cospirare contro la possibilità di un'atmosfera erotica, a cominciare dalla totale mancanza di intimità; e invece, con quel colpo di genio del garofano infilato nella scarpa da tennis sudata, ecco che quell'insignificante interno piccolo-borghese si anima e prende vita.

Un altro artista polacco che di queste cose ne intendeva, il regista Valerian Borowczyk, nel suo film Cérémonie d'amour (titolo italiano: La regina della notte; tratto da un romanzo di André Pieyre de Mandiargués), è riuscito a creare un'atmosfera estremamente erotica non nelle lunghe sequenze di nudo, ma in quella - della durata di forse cinque minuti -, in cui la protagonista si trucca, stando seduta in un vagone della metropolitana. Ha osservato in proposito Paolo Mereghetti: «I guardoni, dopo mezz'ora, getteranno la spugna, ma Marina Pierro sa creare un'atmosfera erotica  anche solo truccandosi allo specchio».

 

Ma in che cosa consiste, esattamente, la profonda intuizione antropologica espressa da Gombrowicz con l'apologo - ché di un apologo si tratta, non c'è dubbio - del garofano e della scarpa da tennis? Consiste nel fatto che il nuovo modello erotico femminile, ripudiate definitivamente le vecchie strategie della sottile seduzione mediante l'accentuazione dei tratti specifici della femminilità, si stava sempre più orientando verso un modello di maschietta, tendenzialmente androgino, basato non solo sulla giovinezza (sempre più precoce), ma sul movimento, sullo sport, sulla cura del corpo nell'atto stesso di sottoporlo a un duro esercizio fisico, nell'atto stesso di spremerne il sudore. Un atletismo esasperato, insomma, travestito da innocente svago o da puro divertimento; che Gombrowicz, con irresistibili effetti comici, ha concentrato nell'espressione civiltà del polpaccio,  per indicare quanto di esageratamente culturistico e narcisistico implichi un tale, disinibito utilizzo del corpo quale strumento di seduzione tanto più efficace, quanto più indiretta.

Questa tendenza è culminata, ai nostri giorni, nel fenomeno del body building femminile, del quale ci siamo già occupati specificamente (cfr. F. Lamendola, Nel dramma dimenticato di Claudia Bianchi il grido d'aiuto di una femminilità infelice, sul sito di Arianna). Ma già negli anni fra le due guerre mondiali se ne potevano scorgere, ancora allo stato embrionale, le future linee di sviluppo. Per la prima volta nella storia occidentale - e con poche eccezioni nel mondo antico, ad esempio a Sparta - le donne più giovani stavano scoprendo la possibilità di aumentare a dismisura il proprio potenziale seduttivo, non già esaltando la propria femminilità, ma, attraverso l'esercizio della pratica sportiva, la propria potenza muscolare, lo scorrere del sudore, il movimento non armonioso e aggraziato (come nella danza classica), ma scomposto e frenetico: in breve, attraverso l'ostentazione del proprio virilismo.

La liceale di Gombrowicz ne è il prototipo e l'emblema. Sportiva, pratica il tennis; moderna, ama cimentarsi per vincere, non per divertirsi; ma, al tempo stesso, non si dimentica di volere e potere esercitare una dirompente carica erotica nell'apparente trascuratezza di sé, in un rendere il proprio corpo oggetto di pubblica ammirazione, nel momento stesso in cui lo strapazza e lo spreme in una competizione ove sembra - si badi, sembra - obliarsi totalmente in quanto oggetto del desiderio maschile.

Si confronti ora la «liceale» di Gombrowicz - la Maja de Gli indemoniati, ad esempio - con quella di Jurij Oleša in Invidia.

Dapprima  osserviamo la giovane Maja Ocholowska, protagonista - insieme al coetaneo Walczak, suo allenatore di tennis - del romanzo Gli indemoniati (titolo originale: Opętani; traduzione italiana di Pietro Marchesani, Bompiani editore, Milano, 1983, p. 18):

 

La signorina Ocholowska cominciò ora a esercitarsi nel rovescio, in particolare con le palle alte, che ribatteva con una profonda torsione del busto tenendo la racchetta con ambedue le mani. I suoi colpi, battuti dalla linea di fondo, erano così perfetti, che Walczak alla fine non resse e, quando una palla gli capitò sulla racchetta, rispose. La palla sfiorò la rete. La partner si piegò sulle ginocchia, portò la racchetta più indietro possibile e rinviò con un cross fulmineo, obliquamente sul campo.

Lui si gettò sulla palla quasi prima ancora che venisse rinviata e fu solo per questo che riuscì a prenderla.

«Non è possibile!» esclamò la ragazza correndo piegata in avanti.

 

Come si vede, qui la giovane sportiva è colta in una dimensione di fiero antagonismo con il maschio, che vorrebbe doppiamente sconfiggere e umiliare: sul terreno di gioco, mostrandogli la propria superiorità atletica; e nella sua qualità di oggetto del desiderio, provocatorio ad arte ma  irraggiungibile per scelta programmatica. «Ora ti faccio vedere quanto sono più brava di te e, al tempo stesso, ti voglio eccitare; ma non mi concederei mai - a meno, forse, che non riesca tu a convincermi di essere più bravo di me»: sono questi, a un dipresso, i suoi pensieri.

Invece la giovanissima Valja, personaggio del romanzo L'invidia del russo Jurij Karlovic Oleša (1899-1960: quasi  coetaneo di Gombrowicz), che assiste in mezzo al pubblico a una partita di calcio in cui gioca il suo innamorato, Volodja, presenta - dietro un velo di apparente somiglianza - caratteri essenzialmente divergenti (titolo originale: Zavist'; traduzione italiana di Dante D. di Sarra, Armando Curcio editore, 1979, pp. 153-154

 

Vi s'immischiò il vento. S'abbatté un cavicchio a raggiera, tutto il fogliame sbandò a destra. Il capannello si disperse e l'intera scena fu guastata. La gente si metteva in salvo dinanzi alla polvere. Più di ogni altro ne soffrì Valja. L'abitino rosa, lieve come sfoglia, le volò sopra le gambe, mostrando a Kavalerov la trasparenza. Il vento soffiò la gonna in volto alla fanciulla, e Kavalerov ne intravide le linee della faccia nelle cangianze trasparenti del tessuto sventagliato. Entro la polvere vide il giovane tutto questo; e come ancora, prendendo a volo la veste, ella girò su se stessa inciampando, e come per miracolo non cade su un fianco. La ragazza cercò di rimettere in sesto i lembi sopra le ginocchia, di tenerveli ben saldi: ma non ci fu verso. E allora, per ovviare alla sconvenienza, fece ricorso alle mezze misure: abbrancò tutt'intorno con le mani le gambe denudate e occultò le ginocchia, piegandosi in tre come una bagnante colta di sorpresa. (…)

La fanciulla continuava a lottare con le raffiche. Inseguendo i lembi della veste mutò positura decine di volte e capitò infine non lontano da Kavalerov alla distanza di un bisbiglio.

La ragazza stava a gambe divaricate. Il cappello, strappato dal vento e acciuffato a volo, lo teneva in una mano. Non si era rimessa ancora dagli sbalzi e guardava Kavalerov, senza però vederlo, inclinando da un lato la testa ove le chiome castane apparivano tagliate bruscamente e obliquamente presso le gote.

La luce del sole le scivolò lungo una spala: la fanciulla barcollò e le clavicole guizzarono come pugnali. Un decimo di secondo durò la disamina, e Kavalerov intuì in un attimo, agghiacciando, quale inguaribile nostalgia si sarebbe annidata per sempre nel suo animo, per il so fatto che l'aveva vista, la creatura dell'altro mondo, incomparabile ed estranea, e sentì come irrimediabilmente vago fosse l'aspetto di lei, quanto schiacciantemente irraggiungibile la sua purezza, sia perché era una bambina, sia perché amava Volodja, e come indefinibile il suo potere di seduzione.

 

Differenza sostanziale, che non consiste tanto nel fatto che, mentre Maja gioca sul campo da tennis, sotto gli sguardi di tutti, Valja è mescolata tra la folla dei tifosi e guarda gli altri che giocano; bensì nel fatto che Maja è un oggetto consapevole del desiderio, il cui potere di seduzione è esaltato dalla prestazione sportiva in cui è impegnata, mentre Valja è un oggetto di desiderio delizioso ma anche ingenuo, proprio perché inconsapevole o, comunque, parzialmente consapevole. Maja è la creatura della terra, anzi, la tipica figlia della civiltà moderna, con la sua racchetta da tennis e le sue scarpe bianche, bagnate di sudore; Valja, col suo vestito rosa dalle conturbanti trasparenze e con quel cappello di paglia che il vento si studia di rubarle ad ogni costo, è ancora una creatura eterea, una eroina ottocentesca, irresistibilmente innocente e piena di pudore.

Fra le due, c'è un abisso; eppure L'invidia, che fu un vero best seller al momento della sua pubblicazione, nel 1927, precede di appena un decennio Ferdydurke e Gli indemoniati di Gombrowicz (cui di tanto è superiore, sia detto fra parentesi, quanto a stile e a profondità d'ispirazione). E l'immagine femminile che si è affermata nei decenni successivi e fino ai giorni nostri è stata, senza dubbio, la seconda; esasperandone, anzi, alcuni tratti che, in essa, erano ancora solo accennati. Le liceali del 2000 sono, senza alcun dubbio, le nipotine legittime di Maja Ocholowska, con la loro grazia torbida e il loro fascino elusivo. E le figlie, se c'è qualcuno che se ne ricorda ancora - perché la modernità consuma i propri miti e i propri riti incredibilmente in fretta - di Haydée, la protagonista de La collezionista di Eric Rohmer.

Così la presentava il regista francese nei suoi Racconti morali (E. Rohmer, la mia notte con Maud; titolo originale: Six Contes Moraux, Éditions de l'Herne, Paris, 1974; traduzione italiana di Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 1988, p. 101):

 

Haydée ha il viso tondo con gli zigomi alti, grandi occhi verdi, naso all'insù, labbra carnose e ben disegnate. La sua testa è piuttosto piccola, le spalle larghe e quadrate,  i seni alti e rotondi, il ventre piatto e i fianchi stretti come quelli delle egiziane. Le cosce lunghe e piene, le ginocchia delicate e le caviglie sottili spiegano l'elasticità del suo passo. Nuota come un'olimpionica, e batte i ragazzi nella corsa.

 

Ci avviamo a concludere.

Scrittori come Gombrowicz e registi come Rohmer hanno colto un aspetto significativo della trasformazione socio-culturale della tarda modernità: l'emancipazione sessuale delle ragazze di buona famiglia, delle studentesse delle scuole medie; le quali, con la complicità di un certo modo di praticare lo sport,  hanno imposto un proprio stile provocatorio e irriverente, fin dai primi decenni del XX secolo. Come non ricordare l'impertinente "brigata" delle ragazze sulla spiaggia di Balbec, in All'ombra delle fanciulle in fiore di Proust?

Ora, nonostante che scrittori, pittori e registi cinematografici vi abbiano profuso indubbie doti di  intelligenza e creatività, rimane il fatto che       questa trasformazione, dal punto di vista etico, è stata senza dubbio un regresso piuttosto che un progresso. La sua caratteristica fondamentale, infatti, è stata la volontà di suscitare attenzione e desiderio mediante comportamenti scandalosi, nel senso originario del termine; e poco importa che la moda si sia talmente diffusa, da respingere il senso del pudore - e quindi del suo contrario, lo scandalo - ogni giorno un poco più indietro. (Cfr. a questo proposito il nostro precedente articolo: Prima considerazione inattuale. Recuperare il giusto concetto di aristocrazia, sempre sul sito di Arianna).

Se poi ci si domandasse in cosa consistono, esattamente, tali comportamenti scandalosi, preciseremmo che non si tratta né delle allusioni continue, benché implicite, alla sfera dell'eccitazione sessuale, né di centimetri di pelle scoperta o cose simili; ma di un generale orientamento della vita, che vede il primato del corpo sullo spirito e, per quanto possibile, senza lo spirito; ossia di un tentativo - tentativo coronato da notevole successo - per escludere l'anima e quanto ad essa faccia riferimento, sollecitando esclusivamente la sfera più bassa delle emozioni, quella animale.

In altri termini, si tratta di una moda che è divenuta stile di vita e che fa perno sulla riduzione delle persone a puri e semplici corpi, che possiedono un valore soltanto ed esclusivamente in funzione della loro bellezza e giovinezza e, soprattutto, della loro esibizione su un piano di sensualità cruda e brutale. Il corpo erotizzato diviene, così, lo strumento di una radicale strategia di reificazione dell'essere umano, di degradazione della persona a corpo, istinti e pulsioni del grado più basso, ossia di deliberata distruzione dell'elemento spirituale in esso presente.

Non vogliamo dire, con questo, che la sfera dell'erotismo sia in se stessa negativa, ma che lo diviene se l'unica maniera di intenderla e di perseguirla sia quella di ridurla alla dimensione brutale  di un puro e semplice stimolo dell'istinto sessuale, spogliato e separato da ogni elemento di spiritualità, trascendenza e bellezza globale della persona, che non si misura solo in termini di scariche ormonali prodotte su coloro che vengono eccitati.

In questo senso, non è forse un caso il fatto che Maja, l'eroina di Gombrowicz, sia posseduta dalle forze del Male, come pure il suo innamorato, Walczak. Il che può essere una metafora per alludere al fatto che non ci si prostra in adorazione del corpo - il proprio e l'altrui - senza che ciò abbia l'effetto di consegnare, magari inconsapevolmente, in potere di forze infra-umane che godono del trionfo di una immanenza chiusa in se stessa, pronte a deridere tutto ciò che è pulizia interiore e a schernire diabolicamente il senso del pudore, inteso nel significato più ampio (e non solo sessuale) dell'espressione.