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Dalla guerra dei droni alla videowar

di mazzetta - 22/09/2008

Tra i pochi attori delle guerre d'inizio secolo che ne hanno tratto un evidente vantaggio, ci sono sicuramente le industrie che si occupano di armamenti. Oltre all'aumento esponenziale dei fatturati, le guerre volute da Bush si sono rivelate un'occasione unica per i reparti di Ricerca & Sviluppo delle grandi corporation del complesso militar-industriale americano. Sono piovuti finanziamenti a pioggia e l'occasione di sperimentare ogni genere di arma direttamente sui teatri di guerra, spesso a spregio delle convenzioni che regolano i conflitti. La natura particolare dei conflitti in Iraq e Afghanistan ha indirizzato la ricerca sugli strumenti per acquisire, anche nella cosiddetta “guerra asimmetrica”, quella supremazia incontestabile che gli Stati Uniti vantano già in quella più tradizionalmente simmetrica. Gli armamenti pesanti servono a poco negli scenari di guerra urbana, che secondo gli studi del Pentagono saranno comunque quelli che vedranno impegnate le truppe americane anche nel futuro, non solo al di fuori delle frontiere americane.

Di particolare importanza per conquistare questa supremazia in ambienti urbani si sono rivelati gli aerei telecomandati, conosciuti come “droni”. Inizialmente schierati come strumenti di osservazione, si sono rapidamente evoluti e diffusi e oggi ne esiste una dozzina di varianti diversamente armate e si attende a momenti sul campo, l'evoluzione in grado di portare un carico bellico simile ad un aereo da combattimento tradizionale.

I “droni” offrono numerosi vantaggi, gran parte dei quali discendono direttamente dall'assenza del pilota a bordo. Questa comporta poter rinunciare alla strumentazione di bordo, alla cabina e alla sua blindatura e di conseguenza a un sacco di peso, potendo così ridurre le dimensioni, aumentare la manovrabilità e l'autonomia dei mezzi. Anche la loro visibilità ai radar ne guadagna, molti di questi sono del tutto invisibili ai dispositivi tradizionali.

I “droni” in teoria possono rimanere operativi fino a che hanno carburante, normalmente hanno oggi un'autonomia di una giornata, perché i loro equipaggi si possono avvicendare alla console di comando remoto e turnare mentre la missione è in corso; lo stesso mezzo è perciò in grado di sorvolare e osservare una porzione di territorio senza soluzione di continuità, giacché il limite fisiologico rappresentato dalla tenuta fisica del pilota è eliminato. Allo stesso modo è stato eliminato anche il rischio di morte dei piloti, che normalmente sono più che al sicuro a qualche migliaio di chilometri dal teatro operativo. In virtù del peso e delle dimensioni ridotte, i “droni” sono inoltre facilmente trasportabili e non hanno bisogno di lunghe piste di atterraggio e decollo.

In virtù di tali e tanti vantaggi i “droni” sono stati aggregati alle pattuglie sul terreno, che hanno imparato a servirsene come di occhi e armi supplementari. Facile comprendere che per un battaglione di marines che affronta un centro abitato, sia molto importante vedere dietro e dentro gli edifici usando il menù di sensori di un Predator. Il clamoroso successo operativo dei “droni” e la loro conseguente affermazione, hanno però creato una serie di problemi collaterali.

C'è quello del sovraffollamento del cielo, rilevato in Iraq dove volano oltre seicento “droni” che sfuggono al controllo del traffico aereo e che già si sono trovati a mettere in difficoltà aerei ed elicotteri americani. C'è poi quello che li vede al centro di una contesa tra e varie armi. All'aeronautica che ne reclama il controllo, si oppongono le aviazioni di esercito, marina e marines che preferiscono usarli in proprio. Per i soldati sul campo doversi coordinare con l'aeronautica comporta sicuramente un aumento dei tempi di risposta, ma anche il timore di poter essere “messi in coda” ad altre priorità.

Grossi problemi collaterali li procurano soprattutto i “droni” armati, le missioni dei quali si concludono spesso in massacri di civili, ma questo dipende dalla war policy statunitense e non da limiti intrinseci al sistema d'arma. Come nel caso degli equivalenti “omicidi mirati” israeliani, quando si sceglie di colpire una persona tirando un missile su un edificio nel quale si presume ospite, si prevede e si accetta di ucciderne tutti gli occupanti. Così i “droni” per molti pachistani, afgani ed iracheni hanno assunto l'immagine della morte che colpisce alla cieca dal cielo. Gli americani possono colpire gli stessi obiettivi con aerei tradizionali o con missili da crociera, ma oggi preferiscono impiegare i “droni” per la loro prontezza nel dispiegamento in reazione alle informazioni ricevute dall'intelligence.

L'evoluzione, come tutte quelle che riguardano gli armamenti e in generale le innovazioni tecniche, è comunque suscettibile di altre e importanti controindicazioni. La relativa economicità dei velivoli li rende alla portata di molti paesi privi di un'aviazione militare significativa, tanto che in Africa sono già stati usati “droni” israeliani per distruggere aerei europei, segnatamente francesi, mettendo in discussione i tradizionali equilibri di forza in molte macro-aree regionali. Sono sicuramente un prodotto di successo e già oggi se ne producono più di quanti ne possano condotti dai piloti abilitati.

Gli Stati Uniti soffrono appunto una carenza di piloti che rallenta i programmi di sviluppo delle flotte aeree telecomandate. Pur necessitando un addestramento molto semplificato, perché i piloti da console non hanno bisogno di corsi di sopravvivenza, particolari requisiti fisici, addestramento all'uso delle armi, conoscenze meteo e molto altro, non se trovano abbastanza, tanto che più d'uno ha suggerito di cercare tra gli specialisti arcade, cioè tra i maghi dei videogiochi.

La nuova frontiera del modello di guerra occidentale sembra quindi correre verso una ulteriore sterilizzazione disumanizzante dei conflitti. Già la dottrina corrente prevede la soppressione delle vittime dall'immagine del conflitto, ma oggi si corre a grandi passi verso l'eliminazione completa del contatto diretto tra il soldato e la vittima anche in quei contesti, come la guerriglia urbana, nei quali fino ad oggi non era possibile evitare il rapporto relativamente umano tra i combattenti. Il futuro prevede che a premere il grilletto potranno essere operatori che non hanno mai visto un teatro di guerra e che lo interpreteranno, da migliaia di chilometri di distanza, attraverso sensori e telecamere, completando il processo disumanizzante cominciato dall'umanità con l'invenzione delle armi da fuoco. Quegli stessi operatori, dopo aver compiuto l'azione di guerra, potranno uscire a cena con la famiglia a casa propria, andare al cinema o semplicemente cambiare postazione e darsi ai videogames senza soluzione di continuità e con un bassissimo rischio di cogliere la differenza.

Da qui a pochi anni i paesi tecnologicamente avanzati potranno condurre le operazioni militari come oggi milioni di appassionati giocano a programmi di simulazione bellica sempre più complicate. Se il novecento è stato il secolo delle guerre industriali, nelle quali si confrontavano le capacità logistiche e produttive nazionali nel recapitare al nemico quanti più colpi possibile, il secolo appena iniziato potrebbe essere caratterizzato dall'affermazione delle videowar. Un bel progresso...