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Platone, Aristotele, Epicuro: scavando alle radici della misoginia nel pensiero occidentale

di Francesco Lamendola - 11/10/2008

  

È vero che il pensiero occidentale, fin dalle sue radici greche, è sempre stato antifemminista, se non, addirittura, violentemente misogino?

Scriveva Jean Duché, poliedrico scrittore e giornalista francese, in uno dei suoi libri più noti, Il primo sesso. Storia della condizione femminile (titolo originale: Le premier sexe, Éditions Robert Laffont, 1972; traduzione italiana di Maria Grazia Alterchi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974, pp. 204-207):

 

…Socrate e i suoi allievi riconoscevano alla donna una uguaglianza morale Ma niente di più: né eguaglianza politica  né giuridica, né, ancor meno, fisica. La sensualità era solo un ostacolo di cui la ragione doveva sbarazzarsi. Dunque era meglio evitare la donna.  (Non molto diversamente la pensava san Paolo). È vero che Socrate era spostato, ma con la bisbetica Santippe, come aiuto al conseguimento della virtù, sapendo bene, come il profeta musulmano Giona, che: «Se potrò sopportarla, i miei rapporti con il resto dell'umanità saranno necessariamente facili». La donna spogliata della sua femminilità diventava accettabile. La ricca e nobile Ipparchia,, affascinata dalla filosofia  del cinico Cratete di Tebe, che viveva nella povertà di rigore presso i cinici, lo sposò e insieme mendicarono e filosofarono.

Aristotele pretendeva di essere più realista, persino da un punto di vista scientifico. Aveva osservato, da buon naturalista, che nel regno animale i maschi sono più grandi, più forti e agili e si stupiva che la donna pretendesse l'emancipazione. Ma si stupiva anche che qualcuno potesse affermare che ella era solo il terreno dove il seme dell'uomo germoglia, dato che invece, ogni mese, produce «una semente quasi pronta», dunque collabora. L'uomo è l'artigiano cui la donna fornisce il legno da lavorare; per questo è inferiore. Secondo Aristotele la donna è più fredda dell'uomo e, siccome il calore è energia, l'uomo comanda. Ma rispettando, nella donna, una persona umana. Gli sposi «si impegnano ad aiutarsi reciprocamente e mettono in comune tutti i loro beni; per questo, in tal tipo di affetto, l'utile e il dilettevole si trovano uniti. Questa unione potrà fondarsi anche sulla virtù, a condizione che i due coniugi siano onesti». Sempre secondo Aristotele, i termini della facoltà procreativa sono per l'uomo i cinquant'anni e per la donna i cinquant'anni (ci chiediamo se l'avesse osservato egli stesso o l'avesse appreso dai cinesi, che infatti, per una curiosa coincidenza, danno le stesse cifre). Di conseguenza consiglia che le fanciulle si sposino verso i diciotto ani  e gli uomini verso i trentacinque; prescrive all'uomo come alla donna la fedeltà coniugale: «L'infedeltà dello sposo o della sposa devono essere considerate come un'infamia finché sussistono i legami del matrimonio» . Esigendo questo da un marito greco, Aristotele non dimostrava di essere ragionevole. Per quanto riguarda la moglie, egli si cautelava avvertendo il marito di non rivelarle i piaceri della carne. Un borghese benpensante può talvolta avere simili idee.

Epicuro non scende a patti col nemico. «Il rapporto carnale non ha mai fatto bene a nessuno e si può già stimarsi fortunati se non nuoce. Il saggio non si sposerà e non avrà figli e nemmeno si abbandonerà all'amore». Siamo già agli anatemi dei Padri della Chiesa? Epicuro ammette che il saggio possa prendere moglie se non può fare altrimenti. Siamo allora vicini a san Paolo, quando scrive ai corinzi che «è meglio sposarsi che ardere»? Forse, ma non più che a Maometto, che raccomanda l'accoppiamento per purificare lo spirito. All'adolescente sconvolto dal desiderio Epicuro scrive: «Abbandonati senza scrupoli alla tua inclinazione». La donna dunque è solo una strumento. Già Aristippo di Cirene  diceva: «Lei non mi ama? Che me ne importa? Non penso che il vino o il pesce nutrano amore per me e tuttavia mi servo con piacere dell'uno e dell'altro». Lucrezio, discepolo latino di Epicuro, svilupperà questa teoria: «Conviene respingere tutto quanto può alimentare il nostro amore  e rivolgere altrove il nostro spirito; è meglio gettare nel corpo della prima venuta il liquido ammassato in noi che conservarlo per un unico amore che ci assorba interamente, riservandoci così certamente pene e dolori… Evitare l'amore non vuol dire privarsi delle gioie di Venere, al contrario è goderne i vantaggi senza pagarne il prezzo». No, Epicuro non scende a patti col nemico: lo distrugge col piacere.

Epicuro si opponeva direttamente a Platone, le cui teorie ho tenute per ultime, benché egli sia anteriore, perché il suo approccio alla sessualità è il più antigreco e il più antifemminista che si possa immaginare, sotto le apparenze di una esaltazione dell'amore. Nulla di più greco del suo punto di partenza: : la bellezza e la verità sono una cosa sola. E niente di originale in questa affermazione: «L'unione della donna e dell'uomo è un atto di generazione e in esso c'è qualcosa di divino; in questa creatura vivente, che è mortale, la fecondità e la procreazione hanno un carattere di immortalità». Ma Platone, che era pederasta, collocava a un livello infinitamente più alto  la fecondità spirituale della sua unione con i fanciulli. Innamorato della bellezza del corpo di un fanciullo (e naturalmente anche della sua anima) il filosofo scopre che essa è sorella anche di un'altra bellezza e così, a gradi ascendenti, l'amore per le creature gli ispira l'amore per la conoscenza, «la visione beatificante e divina». Gli affetti terreni si risolvono nel distacco celeste.

Per individuare in questa posizione una difesa della donna si richiede una forte dose di intellettualità. E dubito che i suoi sogni sulla città ideale, in cui acconsente a porsi il problema del ruolo che vi occuperà la donna, siano tali che le donne debbano compiacersene. È vero che una militante del movimento di liberazione delle donne, leggendo la Repubblica, potrebbe applaudire Platone che riserva alla donna gli stessi incarichi dell'uomo, compresa la guerra. La sua miopia «platonica» non vede in che cosa la donna differisca dall'uomo, tranne nel fatto che è più debole. In breve, la donna, per Platone, è un fanciullo mancato. Difetto ben grave, comunque: ed è un femminista molto particolare, che rinnega assolutamente l'amore dell'uomo per la donna, che propone, ispirandosi a Sparta, che i migliori, cioè i guerrieri e le guerriere, si accoppino per consiglio dei saggi, allo scopo di migliorare la razza, che non debbano conoscere i loro figli (né i figli i genitori); che, quando hanno adempiuto al loro servizio di procreazione, «le donne dei nostri guerrieri [siano] comuni a tutti». Infine, nelle Leggi, prescrive che le donne più belle siano messe a disposizione, finché dura la guerra, degli eroi che vi si distinguono per valore. Ecco in che cosa fa consistere la liberazione della donna: invece che riposo del guerriero è la sua medaglia al valor militare.

 

In quest'ultima affermazione, veramente (e anche in alcune altre di questo testo) l'Autore commette una forzatura del ragionamento, perché Platone non pensava minimamente alla «liberazione della donna», come non ci pensava praticamente nessuno, in Grecia, ai suoi tempi.

E ancora nella duemila anni dopo sua Città del Sole, il filosofo Tommaso Campanella si sarebbe ricordato del modello platonico, prescrivendo gli accoppiamenti di uomini e donne in base a una vera e propria selezione eugenetica; cosa che, se non faceva scandalo nell'Italia del primo Seicento, non si vede perché avrebbe dovuto suscitarne più di tanto nella Atene del IV secolo avanti Cristo. Non solo.

Quando riporta il giudizio di Epicuro sull'amore, Duché evita di ricordare che quel filosofo fu il primo ad aprire il suo Giardino alle donne con la stessa libertà che agli uomini; e che il suo giudizio negativo sul fatto di lasciarsi travolgere dalle passioni carnali - peraltro condiviso dalla totalità dei filosofi antichi, occidentali non meno che orientali - non implica affatto disprezzo per la donna; così come non lo implicano le osservazioni di tipo naturalistico fatte da Aristotele, circa il rapporto fra il sesso maschile e quello femminile.

Pur con simili forzature ed eccessive semplificazioni (e c'è un livello si semplificazione oltre il quale i termini di una questione risultano stravolti e irriconoscibili), non si può negare che la rapida panoramica di Jean Duché contenga elementi di verità, e che delinei un quadro piuttosto misogino dell'atteggiamento dei primi grandi filosofi dell'Occidente nei confronti della donna. E, su tale misoginia, vale la pena di fermarsi e interrogarsi.

Abbiamo più volte sostenuto, infatti, che la crescente disarmonia nei rapporti fra uomo e donna è una conseguenza della modernità e del suo caratteristico paradigma meccanicista, materialista, razionalista e riduzionista.

Nondimeno, se ci volgiamo agli albori della filosofia europeo, scopriamo che quasi tutti i pensatori hanno manifestato forti sentimenti di incomprensione, diffidenza, disprezzo o indifferenza nei confronti della donna. Certo non sono i filosofi a prescrivere l'atteggiamento prevalente di una data società nei confronti di un determinato oggetto; ne sono però, quasi sempre, un riflesso e un elemento di misurazione.

Dunque: da che cosa nascono quei sentimenti negativi, quella chiusura, quella distanza, nei confronti del sesso femminile?

Sono, semplicemente, il riflesso di un generale atteggiamento maschilista diffuso nell'intera società greca classica; oppure sono la spia di qualcosa di più profondo, di un malessere dalle radici più antiche? E non si dice (come sembra suggeriure Duché) che la pederastia di Platone ci aiuta a comprendere meglio il fenomeno; del resto, non è detto che la pratica della omosessualità con i fanciulli debba, necessariamente, accompagnarsi  a una propensione al disprezzo o al misconoscimento delle qualità della donna.

E allora?

 

La disarmonia nel rapporto fra i due sessi, nell'ambito della cultura occidentale, parte da lontano. Nonostante la presenza di personaggi femminili altamente ammirevoli nella letteratura greca e latina, da Andromaca a Penelope, da Nausica a Didone, da Creusa a Camilla, si ha l'impressione che manchi sempre qualcosa; che l'incontro felice tra uomo e donna sia piuttosto l'eccezione che la regola. Si ha l'impressione che un poeta greco o latino non avrebbe mai potuto comporre un'opera come il Cantico dei cantici, dove l'amore tra un ragazzo e una ragazza è celebrato nella maniera più sublime, come fosse un pietra preziosa; e, al tempo stesso, con una scioltezza, un abbandono, una semplicità assolute.

Eppure, non si potrà certo dire che la società ebraica fosse più liberale, nei confronti della donna, di quanto lo fossero quella greca o romana.

Che cosa possiamo dedurre da questa constatazione?

Contrariamente a quello che noi moderni saremmo portati a pensare, è probabile che non esista una relazione immediata ed univoca fra il grado di predominio patriarcale esistente in una data società, e la naturalezza dei rapporti fra i due sessi; e, meno, ancora, che esso influisca direttamente sul grado di indifferenza o di disprezzo del genere maschile nei confronti di quello femminile.

In altri termini, bisogna ammettere che una società - come lo era quella ebraico-palestinese - può essere, nel medesimo tempo, molto maschilista e, tuttavia, anche capace di concepire l'incontro uomo-donna come una esperienza felice, preziosa ed insostituibile nell'ambito della vita umana.  Viceversa, ci sembra inevitabile riconoscere che una società può anche essere relativamente liberale nei confronti dell'emancipazione femminile - come lo era quella di Sparta e, più tardi, quella romana della tarda Repubblica e dell'Impero (per non parlare della utopica Repubblica di Platone) -, senza per questo nutrire un generale sentimento di stima verso la donna e senza arrivare a concepire la bellezza intrinseca di un sentimento profondo tra i due sessi, ma vendendo, anzi, nell'eros poco più di una pura e semplice esigenza fisiologica.

L'amara satira di Giovenale contro le donne, di cui ci siamo recentemente occupati (cfr. il nostro articolo Dietro la satira antifemminista di Giovenale l'amarezza sconsolata di un cuore ferito, consultabile sul sito di Arianna Editrice), sembra andare in direzione di una conclusione del genere. E lo stesso ordine di riflessioni si potrebbe svolgere, crediamo, a proposito di Strindberg e dell'atteggiamento maschile degli Europei moderni verso le donne, specialmente nelle società -  come quelle scandinave - ove queste ultime hanno ottenuto per prime il riconoscimento della parità giuridica e professionale con l'uomo (cfr. il nostro articolo Quando la donna è il cattivo genio dell'uomo - e di se stessa, anch'esso consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Del resto, è chiaro che misoginia e femminismo non sono affatto due termini inconciliabili, nonostante che lo siano, probabilmente, nell'immaginario di noi moderni. Così come facciamo fatica a immaginare una società che sia al tempo stesso democratica e imperialista (ma non facevano alcuna fatica ad immaginarsela gli Ateniesi dell'età di Pericle, meno ipocriti degli odierni governanti statunitensi e dei loro ammiratori di questa sponda dell'Atlantico), ugualmente facciamo fatica a immaginare una società che sia al tempo stesso misogina e femminista. Ma è un errore di prospettiva puro e semplice; e basta leggere le tragedie di Euripide - tanto per fare un esempio - per rendersi conto che i due elementi possono benissimo coesistere nella stessa ideologia e nella medesima cultura.

Dunque, anche se la cosa appare molto sospetta e politicamente scorretta, la verità sembra essere che l'uomo può disprezzare la donna anche quando si dà le arie di difendere la causa della sua emancipazione; e, viceversa, può ammirarla, desiderarla e stimarla al suo giusto valore, anche se ritiene che l'emancipazione femminile sia una pura e semplice sciocchezza.

Jean Duché (Chabanais, 1915 - Cognac, 2000), eclettico giornalista francese e collaboratore culturale del generale De Gaulle, nonché autore di moltissimi libri di successo, pare abbia commesso proprio questo errore di prospettiva; spiegabile, del resto - almeno in parte - guardando alla data di composizione del libro Le premier sexe: il 1972. Erano gli anni del femminismo ruggente, e quasi tutti gli intellettuali di sesso maschile facevano a gara, più o meno in buona fede, nel mostrarsi più realisti del re, ossia più femministi delle stesse femministe. Allora si sentivano tutti un po' come dei nipotini di Simone de Beauvoir, e non volevano essere da meno di nessuno in quanto a rivendicare l'assoluta parità fra uomo e donna, sotto qualsiasi punto di vista.

Ebbene, anche se il discorso non piace, bisogna però avere l'onestà intellettuale di riconoscere che non è sempre oro quello che luccica; e che, sbollito il furore di quella moda culturale, si può valutare in modo più sereno il fatto che il modo migliore, per l'uomo, di riconoscere alla donna i pregi che possiede (e non quelli immaginari) non passa necessariamente attraverso la negazione della specificità del principio femminile.

Da questo punto di vista, molto, moltissimo ci sarebbe da dire su tutto un filone del cinema e della letteratura contemporanee che, esaltando - ad esempio - le virtù aggressive e l'attitudine guerriera della donna (il Soldato Jane interpretato dall'attrice Demi Moore, tutto muscoli e anche sex-appeal) viene generalmente presentato come un fattore di «liberazione» della condizione femminile, mentre a noi pare piuttosto un modo di esportare, nella metà femminile della società, vizi e stupidità che sono propri di quella maschile.

 

Ma torniamo ai filosofi greci e al loro rapporto problematico con il sesso femminile; che, a detta di Duché, sembra anticipare quello che sarà di san Paolo e, in seguito, di molti Padri della Chiesa (e anche questo, così come viene presentato, appare piuttosto come un facile stereotipo che un elemento di chiarezza storica).

Anche se la tesi di Duché appare, come abbiamo già rilevato, discretamente forzata a fini polemici e un po' anacronistici (i parametri culturali di una società non dovrebbero mai essere giudicati sulla base di quelli di un'altra, completamente diversa), non vogliamo eludere in alcun modo il problema e riconosciamo volentieri che, sì, è evidente che i filosofi antichi, in complesso, non hanno saputo valorizzare, nel contesto dei loro sistemi di pensiero, la presenza femminile e le grandi potenzialità di gioia e di bellezza insite nell'incontro profondo, e non solo a livello fisico, fra l'uomo e la donna. E non è una lacuna da poco, se si considera che la filosofia greca si è occupata praticamente di tutto, ma sembra non aver trovato il tempo per soffermarsi su un aspetto della vita umana che noi tendiamo a considerare - e, probabilmente, a ragione - come decisivo per la piena realizzazione della nostra umanità, in ciò che essa ha di più intimo e caratteristico.

È strano, vogliamo dire, che né Platone, né Aristotele, né Epicuro, abbiano mostrato di accorgersi di quanta verità e di quanta bellezza possa realizzarsi in un incontro felice fra il maschile e il femminile; né basta a spiegare tale stranezza il carattere fortemente speculativo ed astratto del pensiero ellenico; o, meno ancora, riesce a spiegarlo la diffusione della pratica dell'omosessualità maschile, che spingeva Platone, nel Simposio, ad affermare senza mezzi termini che la forma più alta dell'eros è quella omofila.

In questa mancanza, in questo distacco del pensiero greco nei confronti di una seria e approfondita riflessione sulla ricchezza straordinaria che l'incontro uomo-donna può realizzare per il completamento di entrambi, sta un elemento di disarmonia che è stato poi ereditato da tutto il pensiero occidentale nel corso del suo divenire, dal cristianesimo dei primi secoli, su su, fino al Rinascimento, all'Illuminismo, al Positivismo. Si direbbe che sia proprio l'esaltazione del Logos strumentale e calcolante, elemento specificamente maschile, ad aver fatto sì che la donna venisse vista come un fattore trascurabile nell'economia generale della riflessione sulla realtà; lei che, per sua natura, è portata ad un'altra forma di comprensione (o d'intuizione) del mondo: quella basata sulla sensibilità, sull'immaginazione, sul ricordo, sul sogno, sulla compartecipazione emotiva.

Oppure è un caso che  la cultura maschile ed il pensiero maschile abbiano riservato più attenzione e più considerazione per la donna, in quanto donna (e non, come il Soldato Jane, in quanto paracadutista con le tette), nelle congiunture storiche in cui la sensibilità, l'immaginazione, il sogno sono stati rivalutati - ad esempio, nel Romanticismo - quali vie maestre per accedere a una comprensione profonda della realtà, là dove il Logos iper-razionale non avrebbe mai potuto spingersi?