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Le peripezie di Bombacci dal bolscevismo alla Repubblica Sociale

di Sergio Romano - 13/10/2008


Vorrei conoscere la sua opinione su Nicola Bombacci, politico romagnolo di spessore che è stato lungamente ignorato dai mass media e dagli storici in quanto figura controversa (da alcuni definito fanatico, esaltato, istrione e addirittura patetico) del panorama istituzionale italiano del periodo 1910-1945.
Roberta Tirapani

Cara signora,
Forse la parola «spessore » è quella che meno si adatta alla personalità di Nicola Bombacci. Fu certamente un uomo coraggioso e capace di generosi entusiasmi, ma anche volubile e contraddittorio. Le contraddizioni sono evidenti sin dall'inizio della sua vita. Nacque a Civitella di Romagna in provincia di Forlì nel 1879 (quattro anni prima di Mussolini) da un coltivatore diretto che era stato soldato pontificio prima del 1860, quando l'Emilia e la Romagna appartenevano agli Stati della Chiesa. A diciassette anni, nel 1896, era seminarista, ma tre anni dopo lasciò il seminario, forse per ragioni di salute, forse per motivi disciplinari. Divenne maestro, come Mussolini, insegnò in alcune scuole elementari del Regno e si iscrisse al partito socialista nel 1903. Il suo matrimonio fu celebrato in chiesa, ma non volle che il figlio Raoul fosse battezzato. Negli primi anni della sua militanza politica fu riformista e strenuo avversario dei sindacalisti rivoluzionari, ma nel 1909, quando divenne segretario della Camera del lavoro di Crema, cominciò a criticare il partito da posizioni massimaliste. Troverà queste e altre informazioni, cara signora, in un libro di Guglielmo Salotti («Nicola Bombacci da Mosca a Salò») pubblicato dall'editore Bonacci nel 1986 in una collana diretta da Renzo De Felice.
Negli anni che precedettero la Grande guerra, quindi, Bombacci parve a molti una sorta di fratello maggiore di Benito Mussolini. Romagnoli, maestri elementari, anticlericali, buoni oratori, scrittori di infiammati articoli anticlericali e allevati nei circoli socialisti di una regione dove la politica veniva praticata con entusiasmo, rabbia e una forte dose di retorica, i due sembravano destinati a fare carriere parallele nello stesso partito. La rottura ebbe luogo nel 1914 quando Mussolini divenne interventista, mentre Bombacci rimase attestato sulla linea più radicale del partito socialista. E sembrò diventare insanabile quando Bombacci sposò entusiasticamente la causa della Rivoluzione d'Ottobre, fece un lungo viaggio a Mosca e partecipò alla fondazione del Partito comunista d'Italia. Ho scritto «sembrò» perché negli anni seguenti i suoi rapporti con il partito divennero spesso difficili. Qualcuno (Angelica Balabanoff per esempio) lo giudicava troppo ambizioso, vanitoso, esibizionista. Altri diffidavano del suo «avventurismo » rivoluzionario. Altri invece, come Mario Missiroli, sostenevano che «predicava alle folle, stanche e inquiete, la necessità della rivoluzione avvertendo però che i tempi non erano maturi».
Dopo l'avvento del fascismo, fu chiaro che a Bombacci, ormai deputato in Parlamento, stava a cuore soprattutto lo stabilimento dei rapporti con la Russia rivoluzionaria e lo sviluppo delle relazioni economiche fra i due Paesi. Quando il governo Mussolini cominciò a muoversi in questa direzione, fece a Montecitorio un discorso filogovernativo che suscitò le ire del partito. Espulso, riammesso e definitivamente cacciato nel 1927, Bombacci finì in una sorta di limbo. Non era più comunista, ma aveva ancora buoni contatti nella Russia sovietica. Fu questa, forse, la ragione per cui Mussolini non volle che finisse nelle liste di proscrizione e venisse trattato alla stregua di un nemico politico. Quando il suo nome apparve fra quelli contro i quali la polizia politica suggeriva qualche provvedimento, il capo del governo lo depennò e disse bruscamente: «Di questo mi occupo io». Ebbe un incarico all'Istituto del commercio estero che gli permise di mantenere la famiglia e ne fu grato a Mussolini. Ma la scelta di seguirlo a Salò non fu semplice riconoscenza. Nella svolta a sinistra del fascismo morente Bombacci vide la possibilità di realizzare la «socializzazione », un'idea che gli ricordava gli anni dei suoi entusiasmi rivoluzionari. Sul lungolago di Dongo, dove fu fucilato con molti gerarchi fascisti, morì gridando «Viva il socialismo!».