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La profezia della guerra globale

di Danilo Zolo - 23/10/2008


Die Wendung

Il 2 aprile 1917 era per Carl Schmitt una data di eccezionale valore simbolico. Era la data in cui il presidente Woodrow Wilson, nel contesto della prima guerra mondiale, aveva annunciato al mondo che gli Stati Uniti d’America avevano deciso di entrare in guerra contro la Germania. La potenza americana aveva dichiarato che revocava la sua politica neutralista per garantire la libertà dei popoli e la pace mondiale. Secondo Wilson la guerra navale tedesca era di fatto una guerra condotta contro tutte le nazioni del mondo, ovvero “contro l’umanità”. La Germania doveva essere perciò dichiarata hostis generis humani – espressione normalmente usata per la pirateria – e considerata un nemico nei confronti del quale la neutralità non era né moralmente legittima né praticabile.
Con queste dichiarazioni – sostiene Schmitt in alcuni scritti degli anni trenta, incluso il saggio ospitato nel presente volume  – la dinamica degli eventi bellici aveva subito una profonda torsione. Si trattava di una “svolta” (Wendung) nella quale si delineava con chiarezza un triplice fenomeno: 1. l’emergere definitivo degli Stati Uniti d’America come potenza fautrice di un nuovo imperialismo e, di conseguenza, la fine della centralità politica e giuridica dell’Europa ; 2. il tramonto dello jus publicum europaeum quale strumento di regolazione della guerra fra Stati, e il profilarsi di istituzioni internazionali “universalistiche” – anzitutto la Società delle Nazioni – che avrebbero preteso di garantire la pace attraverso la proscrizione giuridica della guerra; 3. l’avvento di una guerra globale “discriminante”: entrando in guerra contro la Germania, gli Stati Uniti avevano annullato i concetti non discriminatori di guerra e di neutralità e si erano attribuito il potere di decidere su scala internazionale quale parte belligerante avesse ragione e quale torto . La guerra in atto aveva perciò cessato di essere una guerra interstatale di “vecchio stile” e si era trasformata in una “guerra civile mondiale” (Weltbürgerkrieg), secondo un modello destinato ad affermarsi e a coinvolgere l’intera umanità .
Queste analisi e queste previsioni vengono riproposte e sviluppate nell’opus magnum schmittiano, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum . Il volume era apparso nel 1950, pochi anni dopo la sconfitta della Germania e la conclusione del processo di Norimberga nel quale Schmitt era stato personalmente coinvolto e aveva dovuto difendersi dall’accusa infamante di essere responsabile, come filosofo e come giurista, dei crimini di guerra nazisti . In Der Nomos der Erde le riflessioni filosofico-politiche e filosofico-giuridiche di Schmitt si compongono in una finale, grandiosa profezia: l’avvento di una “guerra globale” asimmetrica e di annientamento, condotta da grandi potenze dotate di mezzi di distruzione di massa, in primis dalle potenze capitalistiche e liberali anglosassoni. È la previsione di una guerra totale, non più sottoposta a limitazioni giuridiche e quindi sommamente distruttiva e sanguinaria, e tuttavia considerata non solo “giusta” ma addirittura “umanitaria” perché concepita come azione di polizia internazionale contro i nemici dell’umanità: contro i nuovi barbari e i nuovi pirati, privi come tali di ogni diritto e di ogni tutela giuridica.


Dalla “dottrina Monroe” all’universalismo wilsoniano

La “svolta” wilsoniana aveva riguardato anzitutto la “dottrina Monroe”, che era già stata sottoposta a interpretazioni sempre più lontane dal suo significato iniziale , all’insegna della teoria, enunciata nel 1845 da John O’Sullivan, del Manifest Destiny, per cui la colonizzazione e il possesso del continente americano appartenevano per “destino evidente” agli Stati Uniti. L’originaria “dottrina Monroe”, risalente al 1823, enunciava tre principi fondamentali: l’indipendenza degli Stati americani, il divieto di ogni forma di colonizzazione entro l’area del continente americano e, punto essenziale, il divieto di ingerenza entro tale area da parte di forze armate straniere. Quest’ultimo principio implicava un’ovvia reciprocità: la non intromissione degli Stati americani, anzitutto degli Stati Uniti, nelle aree non americane.
La “dottrina Monroe” era rimasta intatta, riteneva Schmitt, finché era stata mantenuta salda l’idea di un “grande spazio” (Grossraum), territorialmente definito, nel quale nessuna potenza estranea poteva ingerirsi. Il concetto di “spazio” panamericano aveva un effetto di delimitazione sia territoriale che giuridica, e consentiva quindi la creazione di un ordinamento politico e giuridico concreto – “spazializzato” –-, con una funzione difensiva verso eventuali pretese territoriali delle potenze della vecchia Europa. Al contrario, il processo di espansione universalistica della “dottrina Monroe”, avviato alla fine dell’Ottocento da Theodore Roosevelt, non solo aveva comportato una radicale alterazione del senso giuridico e della finalità difensiva della dottrina, ma minacciava anche, in prospettiva, la dissoluzione del diritto internazionale. Ne sarebbe derivata l’impossibilità di una disciplina delle relazioni fra gli Stati che fosse in grado di sottoporre il fenomeno bellico a regole generali e a procedure prestabilite.
L’interpretazione universalista e “despazializzata” della “dottrina Monroe” coincideva di fatto con il diritto di intromissione delle grandi potenze in qualsiasi controversia internazionale, essendo stata concepita proprio per la sua idoneità a fornire agli Stati Uniti facili pretesti per giustificare la loro ingerenza in Europa e in Asia. Con Theodore Roosevelt la “dottrina Monroe” aveva svolto la funzione liberal-capitalista di espandere l’economia statunitense secondo la logica “universale” dei mercati economici e finanziari. Con Wilson la proiezione universalistica della dottrina aveva assunto le forme di una strategia egemonica e interventista che andava ben oltre l’area caraibica e sud-americana e che si richiamava ai valori universali della democrazia liberale e della libertà del commercio mondiale. In questo modo, la nozione “spaziale” della “dottrina Monroe” era stata stravolta e rovesciata nel suo contrario: un’ideologia mondiale al di sopra degli Stati e dei popoli veniva usata per giustificare un progetto imperiale che si sottraeva a qualsiasi definizione di spazi e di confini . L’impero statunitense andava così assumendo una dimensione globale e polimorfa, riuscendo a imporre al mondo intero il monopolio della sua economia, della sua visione del mondo, della sua interpretazione del diritto internazionale, del suo stesso linguaggio e vocabolario concettuale: Caesar dominus et supra grammaticam .
 Questa proiezione imperiale della “dottrina Monroe” – sostiene Schmitt – aveva fortemente influenzato in senso universalistico la struttura stessa della Società delle Nazioni, l’istituzione ginevrina ispirata all’ideologia cosmopolitica di Woodrow Wilson. E aveva poi esercitato una profonda influenza sulla teoria occidentale del diritto internazionale, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, in particolare su autori di grande autorevolezza come George Scelle e Hersch Lauterpacht . L’idea di un nuovo ordinamento mondiale – istituzionalizzato, sopranazionale, ecumenico – si era progressivamente affermata in Europa, superando la disputa classica fra monismo e pluralismo del diritto internazionale, e fra il primato del diritto internazionale e quello degli ordinamenti nazionali . Sia il francese Scelle in Précis de droit des gens, sia l’inglese Lauterpacht in The Function of Law in the International Community, auspicavano un ordinamento giuridico mondiale nel quale le istituzioni internazionali, l’ordine mondiale e l’umanità intera si integrassero reciprocamente .
Il costituzionalismo liberale dell’Ottocento europeo veniva così applicato tout court alla comunità internazionale e ne conseguiva una drastica emarginazione delle istituzioni statali: gli Stati e i popoli in essi organizzati venivano privati di ogni sovranità e giuridicamente detronizzati. In parallelo emergeva il progetto di una civitas maxima – che era già stato proposto da Christian Wolff e che Hans Kelsen aveva riformulato nel 1920  – quale istituzione specifica regolata da un common law universale e sotto la giurisdizione di una magistratura internazionale. Era il modello, individualistico e universalistico nello stesso tempo, di uno Stato di diritto mondiale che l’Occidente avrebbe dovuto esportare in ogni angolo della terra.
In questa prospettiva cosmopolitica – in realtà dominata dal progetto egemonico statunitense – l’eclissi del primato politico e giuridico dell’Europa era inevitabile, ed era anzi un obiettivo consapevolmente perseguito. Nonostante la comparsa del “nuovo mondo” americano, per secoli il diritto internazionale europeo aveva assunto l’Europa come il centro della terra, come creatrice e portatrice di una civiltà e di un ordinamento giuridico validi per il mondo intero. Ma a partire dai primi decenni dell’Ottocento l’affermarsi della “dottrina Monroe” aveva suggerito l’idea di una nuova area globale – incentrata nell’”emisfero occidentale” americano – non più eurocentrica, ma, al contrario, tale da porre in questione la “vecchia Europa” e qualsiasi rappresentazione eurocentrica dell’immagine globale del mondo .
La stessa nozione di “emisfero occidentale”, già nelle formulazioni di Thomas Jefferson, veniva usata per esprimere tutto ciò che era morale, civile e politicamente sano in contrapposizione al sistema politico delle monarchie europee. Il “nuovo Ovest” avanzava la pretesa di essere il “vero Ovest”, il vero Occidente, addirittura la “vera Europa”: l’America intendeva sradicare l’Europa dalla sua collocazione storico-culturale, rimuovendola dalla sua posizione di centro del mondo. Il diritto internazionale cessava di avere il suo baricentro in Europa, ormai risospinta verso il passato, mentre era l’America ad essere l’egida del diritto e della libertà. Certo, l’Europa continuava a far parte dell’emisfero occidentale, ma in una posizione periferica rispetto al dominio impenetrabile che gli Stati Uniti esercitavano sul “grande spazio” del continente americano e, soprattutto, rispetto alla loro crescente egemonia su scala globale. Alla fine dell’Ottocento – sostiene Schmitt – la guerra degli Stati Uniti contro la Spagna aveva già chiaramente testimoniato la conversione dell’espansionismo americano in “aperto imperialismo”, un imperialismo pronto a superare i limiti dell’emisfero occidentale e ad addentrarsi in profondità nell’Oceano Pacifico e nel vecchio Oriente . È lungo questa linea di incalzante dinamismo egemonico che si colloca la “svolta” dell’universalismo wilsoniano, assieme alle sue epocali conseguenze: la dissoluzione del diritto internazionale moderno, la nascita della Società delle Nazioni e la nuova concezione della guerra come guerra discriminatoria e di annientamento del nemico.


La dissoluzione dello jus publicum europaeum

Secondo Schmitt l’affermarsi agli inizi del Novecento dell’universalismo wilsoniano nella politica estera degli Stati Uniti, oltre che nella teoria del diritto e delle istituzioni internazionali, aveva avuto come principale effetto la dissoluzione dello jus publicum europaeum. La duplice conseguenza, strettamente connessa, era stata la regressione alla dottrina etico-teologica della “guerra giusta” e l’abbandono della regolazione giuridica delle guerre fra Stati che aveva efficacemente operato in Europa per alcuni secoli. Si tratta, come vedremo, di una delle tesi più originali e nello stesso tempo più problematiche e controverse dell’opera schmittiana .
 Tramontato lo jus gentium medievale e la concezione universalistica del potere teocratico-imperiale, il diritto internazionale eurocentrico si era affermato grazie all’avvento dello Stato moderno europeo. Lo Stato era sovrano sia all’interno del proprio territorio, sia verso l’esterno, ed era quindi affrancato dall’autorità del pontefice romano ed estraneo alla dottrina medievale del bellum justum. Il diritto internazionale europeo post-medievale aveva respinto, assieme all’autorità giuridica internazionale della Chiesa cattolica, il principio della justa causa della guerra, al quale aveva sostituito il riferimento formale all’eguale sovranità degli Stati. Il cardine della qualificazione giuridica della guerra fra Stati sovrani non era più l’argomentazione ecclesiastica sulle “cause”, giuste o ingiuste, della guerra condotta da ciascun soggetto belligerante. Il cardine giuridico era la nozione di justus hostis, che attribuiva legittimità formale ad ogni guerra interstatale condotta da sovrani europei, riconosciuti titolari di eguali diritti, incluso il diritto di fare guerra.
Il formalismo giuridico consentiva di non escludere che entrambi i paesi contendenti potessero avere delle buone ragioni per combattere una guerra – bellum utrimque justum –, ragioni che del resto venivano valutate per conto proprio dalle cancellerie di ciascuno Stato. Ciò era inevitabile in assenza di una stabile auctoritas spiritualis, dotata di una potestà politica e giuridica universale e riconosciuta universalmente come superiore a quella dei re e dei principi, secondo il paradigma della respublica christiana. Secondo Schmitt, la formalizzazione giuridica – questa è la sua tesi centrale – aveva avuto il grande merito di porre fine ai massacri delle guerre di religione. Per alcuni secoli il diritto pubblico dei paesi europei aveva reso possibile una “limitazione della guerra” (Hegung des Krieges) e quindi una sua “razionalizzazione e umanizzazione di grandissima efficacia”, in quanto aveva introdotto una netta distinzione fra il “nemico formalmente giusto” e il nemico “criminale, ribelle o pirata”. Il nemico “ingiusto” era passibile di sanzioni punitive di carattere penale, quando non della tortura e dell’uccisione sommaria in quanto non-persona (Unmensch) . Al contrario, il nemico “giusto”, anche se sconfitto, non perdeva la sua dignità e i suoi diritti, come provavano le regole circa il trattamento dei prigionieri, l’immunità degli ambasciatori, le procedure di resa e in particolare le modalità di conclusione di un trattato di pace con le annesse clausole di amnistia. L’aequalitas hostium, che riguardava in particolare la guerra terrestre europea – con l’esclusione della guerra civile e della guerra coloniale –, impediva che i prigionieri e i vinti potessero essere trattati come l’oggetto di una punizione, di una vendetta o di una cattura di ostaggi . I belligeranti “si rispettavano come nemici e non si discriminavano come criminali, cosicché una conclusione pacifica era possibile, anzi rimaneva persino la normale, ovvia conclusione della guerra” .
In opposizione a tutto questo, l’affermarsi della concezione universalista promossa dal cosmopolitismo wilsoniano pone nuovamente in vigore la distinzione canonica fra “guerra giusta” e “guerra ingiusta”. Lo stesso presidente Wilson è un convinto sostenitore della dottrina del bellum justum . La conseguenza che ne deriva è che una nozione “quasi teologica” di nemico si sostituisce al concetto giuridico di justus hostis. “I teologi – scrive Schmitt – tendono a definire il nemico come qualcosa che deve essere annientato” . La dottrina viene tuttavia rielaborata in termini formalizzati rispetto alla tradizionale formulazione etico-teologica. Il nemico non è più considerato “ingiusto” in funzione delle ragioni morali della sua entrata in guerra o a causa del suo essere un barbaro, un infedele o un pirata. Chi usa la forza militare per primo è tout court un criminale fuorilegge (outlaw), è un aggressore responsabile del crime de l’attaque in quanto tale. In questa direzione va il patto Kellogg-Briand del 1928, voluto dal segretario di Stato degli Stati Uniti, Frank B. Kellogg, e dai fautori statunitensi della outlawry of war. Il patto introduce definitivamente nel diritto internazionale la condanna della guerra come mezzo della politica nazionale . Nonostante questo aspetto formale, a parere di Schmitt la criminalizzazione della guerra di aggressione è comunque un ritorno alla dottrina del bellum justum e una regressione all’intera tematica medievale della justa causa belli, che Francisco de Vitoria aveva rielaborato per giustificare la conquista del nuovo mondo da parte delle potenze cattoliche . Non a caso, sostiene Schmitt, nei primi decenni del Novecento autori come il belga Ernest Nys e in particolare l’internazionalista statunitense James Brown Scott, avevano impresso un grande slancio alla renaissance del pensiero di Vitoria .
Cadono dunque le garanzie procedurali che il diritto internazionale europeo aveva escogitato per lo “stato di guerra” di hostes aequaliter justi nel tentativo di ridurre le conseguenze più devastanti e sanguinose dei conflitti armati. Al suo posto riemerge, accanto al paradigma medievale della “guerra discriminatoria”, il modello cinquecentesco e seicentesco della “guerra civile confessionale” tra fazioni religiose . Viene così distrutto, lamenta Schmitt, un autentico “capolavoro della ragione umana”, per ottenere il quale era stato necessario un “faticoso lavoro giuridico” e grazie al quale si era ottenuto un vero e proprio “miracolo”: l’assenza per oltre due secoli di guerre di sterminio nel territorio europeo .
Si era così dissolto un ordinamento internazionale “spazializzato” – quello europeo – che era riuscito a mettere la guerre en forme, secondo la celebre formula di Emmerich de Vattel . Al suo posto, nei primi decenni del Novecento si era affermata prepotentemente, come abbiamo visto, l’idea che fossero necessarie istituzioni “sovranazionali” e non semplicemente interstatali, capaci di superare l’anarchia del sistema vestfaliano degli Stati sovrani, anarchia che i trattati e la diplomazia multilaterale del “Concerto d’Europa” non erano riusciti ad attenuare. Alla luce di questa ideologia universalista, nel 1920 era nata a Ginevra la Società delle Nazioni. Era una istituzione universalistica e “despazializzata”, voluta dagli Stati Uniti, che si proponeva di garantire una pace stabile nel mondo intero, non solo in Europa. Compito del diritto internazionale ginevrino – sostiene Schmitt – non era più quello di “ritualizzare” la guerra fra gli Stati europei, limitandola, moderandola, impedendole di essere guerra di “annientamento”. Il compito che la Società delle Nazioni si era attribuito era di “essere nello stesso tempo un ordinamento europeo ed un ordinamento universale e globale”. A Ginevra, in nome del dogma universalistico, “si discuteva molto di bandire e abolire la guerra e mai invece di una limitazione spaziale di essa” . Per questo, scrive Schmitt in Die Wendung zum discriminierenden Kriegsbegriff, la Società delle Nazioni era “solo un mezzo per la preparazione di una guerra ‘totale’ in sommo grado, e cioè di una guerra ‘giusta’ condotta con pretese sovrastatali e sovranazionali” .
La serie di insuccessi di fronte a gravissime violazioni dell’ordine internazionale – dall’invasione giapponese della Manciuria e della Cina all’aggressione italiana dell’Etiopia, all’occupazione tedesca della Polonia – e alla fine l’esplosione della seconda guerra mondiale portarono al rapido tramonto della Società delle Nazioni e alla pratica cancellazione del patto Kellogg-Briand, nonostante che vi avessero aderito oltre sessanta Stati. Il fallimento dell’istituzione ginevrina – e del suo pacifismo universalistico –, sostiene Schmitt, era inevitabile perché era espressione del tentativo di abolire la guerra mettendola semplicemente al bando sul piano giuridico. Ci sono due “verità”, egli scrive, che non avrebbero dovuto essere dimenticate, e cioè che

il diritto internazionale ha anzitutto il compito di impedire la guerra di annientamento, ovvero di limitare la guerra quando essa sia inevitabile, e, in secondo luogo, che una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, e di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento” .

C’è infine un terzo elemento – accanto alla universalizzazione delle istituzioni internazionali e alla proscrizione giuridica della guerra – che secondo Schmitt concorre alla dissoluzione dello jus publicum europaeum: è quello che egli chiama “il mutamento del significato della guerra” e che si manifesta pienamente con il Trattato di Versailles del 1919, anche qui con la partecipazione attiva degli Stati Uniti e del presidente Wilson . A Versailles la guerra di aggressione viene qualificata, per la prima volta nella storia dell’umanità, come un crime international da imputare alla responsabilità penale di singoli individui. Non si tratta più soltanto della responsabilità di uno Stato verso un altro Stato per la violazione del diritto bellico (jus in bello) nel corso di una guerra in sé lecita e quindi sanzionabile nelle forme tradizionali del risarcimento dei danni, della perdita territoriale, del disarmo forzato, della rappresaglia. Il Trattato di Versailles impone allo Stato sconfitto di consegnare propri cittadini agli Stati vincenti perché vengano sottoposti ad un processo penale in quanto criminali di guerra. È il celebre caso dell’Imperatore tedesco Guglielmo II di Hohenzollern, imputato dai vincitori di supreme offence against international morality and the sanctity of treaties. L’articolo 227 del Trattato stabilisce che il Kaiser venga processato, assieme ad alcuni alti esponenti politici e militari tedeschi, davanti a una corte internazionale nominata dalle cinque grandi potenze vincitrici.
 È questo il primo passo lungo un cammino che porterà, a conclusione della seconda guerra mondiale, ai Tribunali di Norimberga e di Tokyo, istituiti dalle potenze vincitrici contro gli sconfitti. Secondo la sentenza di Norimberga la guerra di aggressione non è più soltanto un crimine internazionale, ma è “il crimine internazionale supremo”. Penalmente responsabili di questo “crimine supremo” sono tutti coloro che hanno deciso o combattuto la guerra, in quanto responsabili di uccisioni, aggressioni, limitazioni di libertà e distruzioni di proprietà. Chi ha preso parte consapevolmente a una guerra illegale non può invocare alcuna immunità giuridica, alcuna motivazione discriminante: è un criminale da sottoporre a sanzione penale, la pena di morte compresa.
 Siamo dunque di fronte ad una nozione di guerra toto coelo opposta a quella della guerra europea “messa in forma” dallo jus publicum europaeum: una guerra come rapporto conflittuale fra Stati regolato e limitato dal diritto e quindi legale. La nuova nozione verrà formalmente adottata nel 1946 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e verrà considerata un principio giuridico internazionale valido erga omnes come ogni altro principio formulato dallo statuto e dalla sentenza del Tribunale di Norimberga . Schmitt denuncia questo “mutamento di significato della guerra” come una grave regressione dell’ordinamento giuridico internazionale – egli stesso ne aveva fatto esperienza a Norimberga – che qualificava la guerra come un “crimine morale contro l’umanità” e faceva della procedura giudiziaria lo strumento a disposizione delle grandi potenze per annientare moralmente i nemici sconfitti dopo averli annientati militarmente. La liturgia processuale consentiva ai vincitori di nascondere i propri misfatti sotto un’aureola di innocenza e di moralità e di presentare la guerra vinta non solo come “giusta” ma anche come il segno di un destino provvidenziale. Schmitt sottolinea che a Versailles erano stati i delegati statunitensi, con il loro giustizialismo umanitario, a chiedere la condanna penale dei capi di Stato delle potenze che avevano scatenato una “guerra ingiusta e di aggressione”. Ed era per iniziativa dei delegati statunitensi che la Commissione per l’accertamento delle responsabilità degli autori della guerra aveva dichiarato che

i promotori di questa guerra vergognosa non dovevano passare alla storia senza il marchio dell’infamia. Dovevano dunque comparire alla sbarra del tribunale dell’opinione pubblica mondiale per subire il giudizio dell’umanità nei confronti degli autori del più grande tra i crimini perpetrati contro il mondo .

In Der Nomos der Erde, come è noto, Schmitt sospende improvvisamente la sua trattazione, non spingendosi oltre il primo dopoguerra. Pur tenendo presente sullo sfondo la tragedia della seconda guerra mondiale, Schmitt non si pronuncia mai sui gravissimi crimini commessi dal regime nazista in patria e all’estero . Ma se avesse proseguito la sua narrazione e ammesso le pesanti responsabilità della Germania, oltre che i suoi personali “errori” politici , avrebbe potuto anche ricordare, contro il giustizialismo statunitense, i bombardamenti terroristici decisi a conclusione della seconda guerra mondiale dai governi alleati contro la popolazione civile tedesca, che costarono oltre trecentomila morti e ottocentomila feriti e rasero al suolo intere città, fra le quali Dresda, Amburgo e Berlino (a Dresda morirono in una sola notte almeno 100.000 civili). E avrebbe potuto ricordare, oltre ai sanguinari bombardamenti statunitensi sulle città giapponesi, in particolare su Tokyo, la strage di centinaia di migliaia di persone innocenti causata dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, decisi dal presidente degli Stati Uniti Harry Truman a guerra già vinta. E avrebbe potuto sottolineare che l’accordo di Londra per l’istituzione del Tribunale di Norimberga era stato siglato l’8 agosto 1945, e cioè due giorni dopo il bombardamento di Hiroshima e un giorno prima del bombardamento di Nagasaki . Era la giustizia dei vincitori.


L’avvento della guerra globale “umanitaria”

Wer Menschheit sagt, will betrügen: “chi dice ‘umanità’ cerca di ingannarti”. Questa è la massima che Schmitt propone già nel 1927 in Begriff des Politischen per esprimere la sua diffidenza nei confronti dell’idea di uno “Stato mondiale” che comprenda tutta l’umanità, annulli il “pluriverso” (Pluriversum) dei popoli e degli Stati e sopprima la dimensione stessa del “politico” . E a maggior ragione Schmitt si oppone al tentativo di una grande potenza – l’ovvio riferimento è agli Stati Uniti – di presentare le proprie guerre come guerre condotte in nome e a vantaggio dell’intera umanità. Se uno Stato combatte il suo nemico in nome dell’umanità, la guerra che conduce non è una guerra dell’umanità. Quello Stato cerca semplicemente di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del nemico. Monopolizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana, dichiararlo hors-la-loi e hors-l’humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino all’estrema disumanità. In questo senso, il termine “umanità” – il riferimento agli Stati Uniti è anche qui ovvio – è uno slogan etico-umanitario “particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche” .
 Sono queste le premesse filosofico-politiche che inducono Schmitt ad avanzare negli ultimi paragrafi di Der Nomos der Erde una severa denuncia del bellicismo imperialistico degli Stati Uniti. Egli formula l’ipotesi che sotto la retorica umanitaria dell’universalismo wilsoniano si celasse, oltre alla logica espansionistica del capitalismo industriale e commerciale, il progetto di una egemonia mondiale che avrebbe inevitabilmente portato ad una guerra globale “umanitaria”, condotta con armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e micidiali. Schmitt aveva colto lucidamente sin dai suoi scritti degli anni trenta, come abbiamo visto, la dimensione planetaria e poliedrica del progetto egemonico statunitense. Ma in Der Nomos der Erde egli si mostra convinto che la superpotenza americana si stava imponendo come un impero globale soprattutto perché disponeva di un potenziale bellico soverchiante. E la supremazia militare la poneva al di sopra del diritto internazionale, compreso lo jus belli, attribuendole il potere di interpretarne le norme secondo le proprie convenienze, o di ignorarle del tutto.
In prospettiva, l’asimmetria del conflitto avrebbe esasperato e diffuso le ostilità: il più forte avrebbe trattato il nemico come un criminale, mentre chi si fosse trovato in condizioni di irrimediabile inferiorità sarebbe stato di fatto costretto ad usare i mezzi della guerra civile, al di fuori di ogni limitazione e di ogni regola, in una situazione di generale anarchia. E l’anarchia della “guerra civile mondiale”, se confrontata con il nichilismo di un potere imperiale centralizzato, impegnato a dominare il mondo con l’uso dei mezzi di distruzione di massa, avrebbe potuto alla fine “apparire all’umanità disperata non solo come il male minore, ma anzi come il solo rimedio efficace"  .
 In una delle ultime pagine di Der Nomos der Erde Schmitt scrive:

Se le armi sono in modo evidente impari, allora decade il concetto di guerra simmetrica, nella quale i combattenti si collocano sullo stesso piano. È infatti prerogativa della guerra simmetrica che entrambi i contendenti abbiano una qualche possibilità di vittoria. Se questa possibilità viene meno, l’avversario più debole diventa semplice oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente l’ostilità fra le parti in guerra. Chi si trova in stato di inferiorità sposta la distinzione fra potere e diritto nell’ambito del bellum intestinum. Il più forte vede invece nella propria superiorità militare una prova della sua justa causa e tratta il nemico come un criminale. La discriminazione del nemico e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca così l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva .

È a questo punto che Schmitt sembra raggiungere il vertice della sua capacità analitica e della sua lungimiranza predittiva: la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra globale, asimmetrica, “giusta” e “umanitaria”, ma sarà una guerra capace di una discriminazione abissale del nemico, poiché assumerà la forma di una permanente “azione di polizia”: una polizia internazionale, ovviamente controllata dagli Stati Uniti, che userà armi di distruzione di massa contro i “perturbatori della pace”, senza più alcuna distinzione fra truppe regolari e milizie irregolari, e fra militari e civili. Non sarà dunque una guerra fra Stati, suscettibile di concludersi con un qualche trattato di pace, ma sarà una permanente “guerra civile mondiale” condotta da una grande potenza per sottoporre a controllo poliziesco-militare l’intero pianeta:

Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro perturbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così inclini a spingere la discriminazione dell’avversario fino a dimensioni abissali .

Nella premessa all’edizione italiana di una raccolta di suoi saggi, Le categorie del “politico”, del 1971, Schmitt si esprime in termini ancora più espliciti:

Oggi l’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; [...] al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale (Weltbürgerkriegspolitik) .


Un nuovo nomos della terra?

Importanti riserve sono state avanzate – e possono essere avanzate – circa la storia delle istituzioni internazionali e del diritto internazionale europeo delineata da Schmitt nei suoi scritti dedicati all’argomento, in particolare in Der Nomos der Erde. Non si può ignorare, anzitutto, che la severa critica che Schmitt rivolge insistentemente all’universalismo wilsoniano, alla Società delle Nazioni e, più in generale, al neo-imperialismo statunitense, non è immune da una percezione vendicativa delle sconfitte subite dalla Germania nel corso delle due guerre mondiali. L’anti-imperialismo di Schmitt è contaminato da ovvi pregiudizi politici che tuttavia, a mio parere, non ne compromettono la lucidità e la sostanziale pertinenza.
 Il punto più delicato è tuttavia un altro. Si può infatti dubitare che lo jus publicum dei popoli europei avesse realmente introdotto – come Schmitt non si stanca di ripetere – rilevanti elementi di attenuazione della violenza bellica nel corso dei due secoli della sua effettiva vigenza, il Settecento e l’Ottocento . Schmitt si concentra, nelle sue vesti di giurista, sulla disciplina formale delle relazioni belliche, affermatasi dopo la fine delle guerre di religione e le paci di Vestfalia, ed esalta come una grande conquista giuridica il carattere non “discriminante” della concezione della guerra terrestre europea. In Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Schmitt si spinge a sostenere che:

Nessun entusiasmo pacifista e nessuna repulsione per gli orrori della guerra, per quanto giustificata, ci può indurre a negare il fatto che ancora oggi una guerra tra due Stati è qualcosa di diverso rispetto a un omicidio, a una rapina o a un atto di pirateria. […] La guerra possiede, secondo il tradizionale diritto internazionale, un proprio diritto, un proprio onore e una propria dignità per il fatto che il nemico non è un pirata o un gangster, ma è uno “Stato” e un “soggetto del diritto internazionale” .

Detto questo, Schmitt non va però alla ricerca di conferme empiriche, né tenta un’analisi sociologica che corrobori la tesi della effettiva capacità del diritto bellico europeo di umanizzare e razionalizzare la guerra, di renderla onorevole e dignitosa. 
 Per argomentare in senso contrario si potrebbe ricordare, se non altro, il fiume di sangue – quasi due milioni di vittime – delle guerre napoleoniche, che nei suoi saggi degli anni trenta, come in Der Nomos der Erde, vengono appena evocate. E non può essere trascurato l’espansionismo militare dell’Europa coloniale, in primis dell’Inghilterra imperiale e della Francia. Schmitt tratta le guerre coloniali come un fenomeno irrilevante e adiaforo rispetto allo spazio europeo, poiché ritiene che la ritualizzazione giuridica delle guerre europee richiedesse una delimitazione spaziale che eo ipso escludeva la “messa in forma” del conflitto coloniale . Si tratta, si potrebbe dire, di un approccio al problema della guerra e della pace di tipo localistico, rigidamente eurocentrico se non addirittura mitteleuropeo. E si potrebbe aggiungere che la prima guerra mondiale, con i suoi diciotto milioni di morti, fra i quali dieci milioni di civili, e oltre venti milioni di feriti, era già stata in se stessa una sconfitta irreparabile del diritto internazionale europeo, che non era riuscito a contenere gli effetti devastanti delle nuove armi e delle nuove strategie militari. E questa sconfitta non poteva certo essere ascritta alla diretta responsabilità dei politici e dei giuristi d’oltre Atlantico, né alla inefficienza di istituzioni internazionali “universalistiche”.
 C’è in Schmitt una singolare oscillazione fra una sorta di romantico rimpianto del modello vestfaliano degli Stati sovrani e il riconoscimento della crisi dello Stato moderno europeo e della conseguente necessità di ricercare un nuovo “nomos della terra” – un nuovo ordine globale – che non poteva certo mirare a una resurrezione del modello statale ottocentesco . Nello stesso tempo, pur dando rilievo alle profonde trasformazioni che lo sviluppo scientifico-tecnologico aveva introdotto nei sistemi d’arma e nella morfologia della guerra moderna – a partire dalle guerre marittime e dai bombardamenti aerei – Schmitt sembra pensare che il diritto bellico sia il solo strumento in grado di limitare, razionalizzare e umanizzare la guerra, alla condizione che non pretenda di cancellarla in nome di un astratto pacifismo universalistico. In questo senso può sorprendere che Schmitt non citi mai nei suoi scritti il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e non colga la nuova “svolta” che esso ha impresso al rapporto fra guerra e diritto, rendendo i due fenomeni sostanzialmente incommensurabili, come è stato sostenuto, fra gli altri, da Norberto Bobbio . Ma d’altra parte non si può pensare che in piena epoca nucleare Schmitt intendesse abbandonare  il suo realismo politico e il suo antinormativismo giuridico , e si proponesse di fondare il suo progetto di un “nuovo nomos della terra” sul recupero di uno  jus in bello vestfaliano, capace di trasformare le guerre mondiali in cavallereschi duelli fra combattenti disciplinati e leali. 
 Detto questo, a mio parere non si può negare che nella sua filosofia del diritto internazionale Schmitt propone una interpretazione fortemente suggestiva delle relazioni fra la “vecchia Europa” e il “nuovo mondo” americano e offre una preziosa chiave di lettura degli imponenti successi che la vocazione messianica ed egemonica degli Stati Uniti ha conseguito nella seconda metà del Novecento. Si tratta di una chiave di lettura di drammatica attualità, che si rivela illuminante in particolare per quanto riguarda la fase di espansione planetaria dell’egemonia neo-imperiale degli Stati Uniti dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine dell’assetto bipolare delle relazioni internazionali. Non è certo un caso che il tema della costituzione imperiale del mondo e della crescente concentrazione del potere internazionale nelle mani delle grandi potenze occidentali sia oggi, assieme al problema del global terrorism, l’epicentro di un dibattito di vastissime proporzioni nel contesto dei processi di crescente interdipendenza e integrazione globale .
 A guardar bene, le “nuove guerre” che gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati occidentali hanno condotto nell’arco di tempo che va dalla Guerra del Golfo del 1991 all’aggressione dell’Iraq nel 2003 – con al centro l’attentato dell’11 settembre 2001 – offrono una conferma sorprendente della “profezia apocalittica” annunciata da Schmitt: l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neo-imperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli Stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali” (Kosmopartisanen) che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile .
La profezia schmittiana trova singolare conferma in una serie di circostanze di eccezionale rilievo:
1. l’impotenza delle istituzioni internazionali “universalistiche” di fronte al costante espandersi del fenomeno bellico: le Nazioni Unite, in particolare, sono ormai costrette a pure funzioni adattive e di supina legittimazione a posteriori dello status quo imposto dalle grandi potenze attraverso l’uso della forza;
 2. l’evanescenza normativa e l’irrilevanza pratica della nozione giuridica di “guerra di aggressione” e, in genere, la clamorosa inutilità della proscrizione giuridica della guerra proclamata dalla Carta delle Nazioni Unite e ribadita dal Tribunale di Norimberga. La guerra preventiva è oggi teorizzata e impunemente praticata dalle grandi potenze, in particolare dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, da Israele e persino dalla Turchia;
3. il recupero dell’ideologia della “guerra giusta” da parte di influenti intellettuali  e politici statunitensi – in particolare da parte del presidente Bush e dei suoi sostenitori neocon – , che presentano la “guerra globale contro il terrorismo” (global war on terrorism) e contro gli “Stati canaglia” (rogue states) come una guerra del bene contro l’”asse del male”, secondo la visione provvidenzialistica ereditata dal puritanesimo e dal calvinismo. La guerra viene motivata non sulla base di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma assumendo un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi o doverosamente condivisibili dall’umanità intera;
4. l’esplicita motivazione “umanitaria” di interventi militari decisi in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. Esemplare è stata la guerra di aggressione scatenata nel 1999 dalla NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava in nome di una sedicente difesa dei diritti umani della minoranza kosovaro-albanese. Una guerra civile di modeste dimensioni è stata presentata come un genocidio imminente da parte delle milizie serbe e questo ha offerto agli Stati Uniti (e ai loro alleati) l’occasione per devastare un intero paese, fare strage di migliaia di persone innocenti e costruire nel cuore del Kosovo un’imponente base militare, Camp Bondsteel .
5. il revival negli anni novanta del secolo scorso della giurisdizione penale internazionale secondo il “modello di Norimberga” e cioè secondo la logica della degradazione morale del nemico sconfitto e dell’esaltazione propagandistica dell’eccellenza morale dei vincitori . Esemplare è stato il caso del Tribunale penale internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia, voluto, finanziato e militarmente assistito dagli Stati Uniti, che ha operato e opera tuttora come una longa manus giudiziaria delle autorità politiche e militari della NATO;
6. la sistematica, feroce discriminazione praticata dagli Stati Uniti nei confronti di nemici fatti prigionieri nel corso di guerre “umanitarie” o preventive, non riconosciuti neppure quali combattenti irregolari, come provano gli orrori delle prigioni di Guantánamo, di Abu Ghraib, di Bagram e come conferma la legittimazione o l’uso diretto della tortura nel corso delle extraordinary renditions praticate dalla CIA. La guerra globale, concepita come azione di “polizia internazionale”, non ha come finalità la semplice vittoria sul nemico e l’eventuale successiva pacificazione: l’obiettivo è quello di annientare i nemici in una guerra che potrebbe essere “infinita”.
 Si tratta di realtà irrefutabili che si compongono in uno scenario di normalizzazione della guerra e della violenza nelle loro forme più spietate e meno passibili di regolazione giuridica. E non va dimenticato che a tutto questo si somma la replica sanguinaria del terrorismo internazionale. Un panorama crudele e disarmante come questo potrebbe autorizzare, in nome del realismo politico, previsioni di un radicale pessimismo, se non di un disperato nichilismo politico e morale. E potrebbe suggerire la rinuncia a ricercare qualsiasi nuovo “nomos della terra”. Ma che la violenza e lo spargimento del sangue siano al centro della storia umana non può sorprendere un osservatore realistico delle relazioni internazionali. E Schmitt non è mai giunto a conclusioni nichiliste. Sia pure in termini sommari, egli ha più volte accennato al concetto di Grossraum come a una possibile alternativa al monopolio globale e allo strapotere militare di un’unica potenza: Grossraum gegen Universalismus, appunto, come recita il titolo di un suo saggio. Era l’idea, paradossalmente suggerita dalla versione originaria della “dottrina Monroe”, secondo la quale  “un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà potrebbe determinare il nuovo diritto internazionale della terra” .
Un progetto di pacificazione del mondo richiederebbe, secondo questa intuizione schmittiana, la costruzione di un regionalismo policentrico e multipolare e un rilancio della negoziazione multilaterale fra gli Stati come fonte normativa e legittimazione dei processi di integrazione regionale. Un’Europa che come “grande spazio” regionale riuscisse ad affrancarsi dalla sudditanza politica e militare che oggi la subordina agli Stati Uniti forse potrebbe recuperare la sua centralità strategica. E potrebbe svolgere una funzione di equilibrio in un mondo nel quale stanno emergendo potenze regionali decise a liberarsi dall’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e a promuovere un assetto pluralistico delle relazioni internazionali. Tutto questo richiederebbe un’impietosa riflessione autocritica sulle radici dell’orrore che l’Europa e l’Occidente si sono rivelati capaci di produrre in un recente passato – dalle guerre coloniali ai Lager nazisti e l’Olocausto, a Hiroshima e Nagasaki – e si mostrano ancora oggi capaci di produrre. E occorrerebbe una cultura politica europea orientata a un dialogo paritetico con le altre civiltà, a cominciare dal mondo arabo-islamico, e a fare del Mediterraneo, oggi epicentro incandescente del conflitto mondiale, un crocevia della pace.
  Nell’estate del 1950, chiudendo la prefazione a Der Nomos der Erde, Schmitt aveva trovato, sia pure tardivamente, il coraggio morale di scrivere: “È ai costruttori di pace che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro”.

 

 


 
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