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Quel sottinteso indicibile che avvelena il rapporto fra l'uomo e la donna

di Francesco Lamendola - 04/11/2008

 

La modernità e la sua espressione più caratteristica, la massificazione della società e della cultura, hanno instaurato una egemonia della retorica che ha reso impronunciabili le parole che ad essa rifiutano di sottomettersi.
A renderle impronunciabili non è, ovviamente, una normativa giuridica, ma una greve cappa di conformismo demagogico, per cui dalla censura sulle parole si è passati all'autocensura dei concetti, privandosi volonterosamente dello spirito critico di cui ogni essere umano dovrebbe essere dotato: tutto per non subire l'ostracismo della maggioranza ed essere considerati persone evolute, di mente aperta e al passo coi tempi.
Vi sono alcune scomode verità che non si possono dire, perché su di esse riposa il castello di menzogne della società di massa, dominata dalle leggi del numero e della quantità e tenuta in piedi da un costante, quotidiano ricatto morale. E il ricatto è questo: che, se qualcuno critica le parole d'ordine e gli slogan fondamentali della demagogia oggi imperante, viene automaticamente bollato di epiteti, quali "razzista" o "fascista", che comportano la morte sociale e l'esclusione di fatto dal "regnun hominum", per vedersi sospinti nella foresta delle belve feroci, dove ruggiscono impotenti i cattivi soggetti che non accolgono di buon grado le moderne tavole della Legge.
Abbiamo già cercato di mostrare, ad esempio, che l'accusa di razzismo viene distribuita con troppa facilità non solo a chi se la merita, ma anche a quelle persone che, semplicemente, non sono d'accordo con la politica di aprire le frontiere a milioni e milioni d'immigrati o che, ancor più semplicemente, non amano respirare tutto il giorno cattivi odori, subire rumori molesti, vedere le scale del proprio condominio lordate di orina e peggio (cfr. «Quella scomoda verità che nessuno osa dire a proposito di immigrazione e razzismo» ed «si. È razzismo non sopportare l'odore di aglio fritto?», entrambi consultabili sul sito di Arianna Editrice).
Un'altra parola indicibile è quella che riguarda i rapporti tra le persone "normali" (ma la parola, appunto, fa rabbrividire la cultura demagogica dominante) e quelle portatrici di handicap o, come oggi si preferisce dire, "diversamente abili". Data la grande delicatezza dell'argomento, speriamo vivamente di non essere fraintesi. Quel che vogliamo dire, e lo diremo in maniera più articolata un'altra volta, è che la società odierna è passata da un estremo all'altro, bruscamente e senza alcun senso della misura: dall'emarginazione alla negazione del problema.
Un tempo (che non è affatto lontano) le persone handicappate dovevano vivere separate dalla società civile, quasi sotto il marchio di una colpa: ed era una cosa vergognosa, oltre che stupida. Oggi siamo arrivati al totale rovesciamento del paradigma negativo: l'handicap non esiste, e chi osa accennarvi è un individuo insensibile e perfino spregevole.
Al tempo stesso, però, accade (non sempre, ovviamente) che i familiari del disabile vogliano rifarsi sulla società di un disagio, di un rancore irrazionale lungamente accumulato; e che vogliano brandire quell'handicap come una clava, per far sentire in colpa gli altri e per ottenere delle forme ingiustificate di facilitazione. Questa, almeno, è l'esperienza che quanti lavorano a contatto con simili problemi hanno avuto occasione di fare almeno qualche volta: noi ne potremmo citare parecchi esempi. Ma dire queste cose è considerato politicamente molto scorretto, perché il debole ha sempre ragione, anche quando ha torto marcio e quando sfrutta la sua debolezza per esercitare una forma di ricatto.
Un'altra parola tabù e "antisemitismo". Pare che non sia possibile parlare degli ebrei, e soprattutto della Stato d'Israele, se non per approvare incondizionatamente tutto ciò che essi dicono e fanno; se così non è, vuol dire che stanno riemergendo dei rigurgiti di razzismo.
Per esempio, guai a ricordare che altri popoli hanno subito dei tentativi di genocidio, e non solo nella storia antica, ma anche in quella recente e recentissima (vedi i Tutsi del Ruanda, nel 1994, ad opera degli Hutu): immediatamente si leva un coro di indignate proteste, come se una simile affermazione  equivalesse ad una forma di negazionismo e, quindi, ad una apologia del nazismo e delle camere a gas.
Anche di ciò abbiamo cercato di parlare, a suo luogo, in alcuni scritti (cfr. «Quello degli ebrei è stato l'unico genocidio?» e  «Alcune brevi considerazioni sui concetti di sionismo e antisemitismo», sempre sul sito di Arianna).
L'elenco delle parole indicibili potrebbe continuare a lungo.
Vogliamo parlare di streghe e di stregoneria? Per carità, ciò significherebbe evocare un nuovo Medioevo e divenire corresponsabili retroattivi delle atrocità dell'Inquisizione. Perciò non si può dire che streghe e stregoneria esistettero realmente, nel Medioevo e nel Rinascimento, così come - del resto - esistono tuttora.
Naturalmente, affermare questa semplice verità è politicamente scorrettissimo: eppure non significa né entrare nel merito della realtà dei poteri magici (cui si può credere oppure no: noi ci crediamo, anche perché crediamo all'esistenza del Male con la "m" maiuscola), né, tanto meno, approvare le torture ed i roghi degli inquisitori. Ma tant'è: quelle sono parole tabù, è doppiamente proibito persino nominarle: perché sa di superstizione agli orecchi della dominante cultura scientista; e perché sa di repressione alla imperante demagogia pseudo-libertaria.

La parola tabù che qui vorremmo affrontare ha a che fare, invece, con il nodo sensibile dei rapporti fra uomo e donna.
Poiché noi crediamo che il rapporto fra uomo e donna stia alla base dell'intera società, se non altro perché da esso si origina la famiglia (ma questo è un altro concetto tabù: gli omosessuali se ne  sentono gravemente discriminati, dato che, per loro, una famiglia può essere fondata benissimo sul matrimonio tra due persone del medesimo sesso), ci sembra che bisognerebbe avere il coraggio di dire le cose non dette su di esso, a tutto vantaggio della chiarezza e, quindi, della possibilità di rafforzare quel legame.
Tra le molte cose non dette e ritenute non dicibili nel rapporto fra l'uomo e la donna, forse quella che più urgentemente si dovrebbe "sdoganare" riguarda una malintesa forma di cavalleria, per cui al cosiddetto "sesso debole" (che, a torto, è ritenuto quello femminile) non possono essere imputati comportamenti che, nell'uomo, susciterebbero orrore e riprovazione universali.
Anche in questo caso, il (presunto) debole si fa forte della propria (presunta) debolezza per esercitare una forma di ricatto, grazie alla quale può trasformare il suo (presunto) svantaggio in un vantaggio, assicurandosi non solo uno spazio di manovra che, altrimenti, gli sarebbe negato, ma anche la certezza che l'altro (il maschio, in questo caso) non oserà imputargli comportamenti sleali, perché, se lo facesse, verrebbe meno a un codice di galateo universalmente accettato e, quindi, si esporrebbe alla gogna sociale.
Alludiamo particolarmente alla libertà, anzi, all'impunità, generalmente concessa alle donne e a loro tacitamente riconosciuta, di giocare con i sentimenti dell'uomo al solo scopo di esibire il proprio potere seduttivo e di averne la conferma ai propri occhi.
Intendiamoci, vi sono anche diversi uomini che agiscono così (peraltro non molto virili, di solito): ma, allorché scoprono il proprio gioco, sono oggetto di una severa censura morale da parte della società. Non si va in prigione per questo, ma si è oggetto di una condanna pressoché universale, sia da parte degli uomini che delle donne: perché, in teoria, siamo tutti d'accordo che giocare con i sentimenti altrui per il solo piacere di verificare la propria irresistibilità, è cosa meschina e irresponsabile.
Alle donne, invece, ciò è consentito, perché - si dice - fa parte della loro natura, della loro femminilità; e gli uomini sono i primi a riconoscerlo.
Non diversamente si spiega, ad esempio, lo strepitoso successo - che dura da oltre due secoli e mezzo - della commedia di Carlo Goldoni «La locandiera», in cui la protagonista, Mirandolina, per puro capriccio e per vanità ferita, si mette d'impegno a far innamorare l'unico cliente del suo albergo che non è caduto immediatamente ai suoi piedi; e, quando vi è riuscita, lo respinge senza il minimo rimorso, avendo ormai placato la sua smania di esercitare una forma di potere su qualsiasi uomo, bello o brutto, ricco o povero, giovane o vecchio, indipendentemente da qualsiasi forma di coinvolgimento da parte sua.
La reazione del cavaliere di Ripafratta, quando si scopre giocato e costretto ad assistere all'annuncio del fidanzamento di Mirandolina con il servo Fabrizio, è di amara delusione e di ira impotente (Atto III, scena XVIII):

«Sì, maledetta, sposati a chi tu vuoi. So che tu m'ingannasti, so che trionfi dentro di te medesima d'avermi avvilito, e vedo fin dove vuoi cimentare la mia tolleranza. Meriteresti che io ripagassi gl'inganni tuoi con un pugnale nel seno; meriteresti ch'io ti strappassi il cuore, e lo recassi in mostra alle femmine lusinghiere, alle femmine ingannatrici. Ma ciò sarebbe un doppiamente avvilirmi. Fuggo dagli occhi tuoi: maledico le tue lusinghe, le tue lagrime, le tue finzioni; tu mi hai fatto conoscere qual infausto poter  abbia sopra di noi il tuo sesso, e mi hai fatto a costo mio imparare, che per vincerlo non basta, no, disprezzarlo, ma ci conviene fuggirlo.»

Dunque: un uomo che lusinga ed inganna una fanciulla è un vile, un depravato, un individuo spregevole; ma una donna che agisce così con uomo non può essere biasimata, al massimo, che per una certa qual leggerezza; del resto, non ha fatto nulla che non sia parte della sua natura. Se il malcapitato pensasse a rimproverarle la sua mala azione, cadrebbe nel ridicolo: non lo sapeva, dunque, che un uomo non deve mai credere troppo facilmente alle dichiarazioni d'amore di una donna? Che debolezza, cascarci così in pieno!
Pertanto, egli non può neanche lamentarsi di essere stato ferito nei suoi sentimenti più sacri: se lo facesse, si renderebbe patetico. No, deve essere forte e non reagire in alcun modo, anche se il suo cuore sanguina; altrimenti, al danno si aggiungerebbe la beffa. Mirandolina lo dice chiaro al conte, quando ormai gioca a carte scoperte: proprio lui che disprezza le donne, non lo sapeva bene che non ci si deve mai fidare di esse?
Riassumendo: un uomo che gioca a sedurre le donne, e che ci riesce, viene giudicato un cinico e un amorale (come il «Bel Ami» di Guy de Maupassant); una donna che gioca a fare la civetta è una adorabile birichina. Se una donna viene illusa e poi respinta, è una povera vittima del maschilismo più bieco; se ciò accade a un uomo, costui non può essere che un povero sciocco, che non ha ancora imparato a stare al mondo. Per cui ci si aspetta che la donna abbia sempre campo libero e ogni via aperta, così nell'attacco come nella ritirata; mentre l'uomo non può mai venir meno ai suoi doveri di cavaliere; e, se gli capita di essere illuso e poi buttato in un angolo, tanto peggio per lui, poteva essere più furbo.
Una donna sedotta e abbandonata è un personaggio tragico e profondamente commovente: tutti sono pronti a solidarizzare con lei e a lapidare il suo seduttore; ma un uomo sedotto e abbandonato non suscita altro che un malcelato sorriso d'ironia.
La contraddizione risiede nel fatto che la donna si aspetta dall'uomo che sia sincero e leale, anzi, lo pretende; ma, quanto più lo trova sincero e leale, tanto più le viene la voglia di tormentarlo e di divertirsi un po' alle sue spalle: in breve, di perdere ogni rispetto nei suoi confronti. A parole, essa desidera un compagno che la adori e che si faccia in quattro per renderla felice; in pratica, non saprebbe che farsene di un uomo del genere. Lo disprezza; e si protende invece con desiderio verso il maschio brutale, che la prende e la lascia a suo piacere: che la fa soffrire, che si mostra più forte di lei in quella guerra antica come il mondo, che è l'incontro dei sessi…

E così, per una malintesa forma di cavalleria, a una donna è concesso di giocare fino all'ultimo la carta del nascondimento e, quindi, della volontà di dominio: perché si gioca con l'altro stando mascherati al fine di poterlo più agevolmente dominare.
Chi ha detto che le donne non sono interessate al potere? Solo che non le attira quello politico, che ha pur sempre qualche cosa di astratto, e tanto più, quanto più è elevato; ma il potere concreto che si esercita nella penombra del rapporto privato, fra i muri della casa.

Un'altra asimmetria nel rapporto fra l'uomo e la donna (ove, in teoria, diritti e doveri reciproci dovrebbero sempre bilanciarsi) risiede nel fatto che l'uomo deve mostrare apertamente il desiderio per la donna da cui si sente attratto, esponendosi a un possibile rifiuto e mettendosi in gioco sino in fondo; mentre una donna può simulare indifferenza, fino a quando non sia ben certa del fatto suo, ossia di aver raggiunto il desiderato ascendente sull'uomo. In questo modo ella ha sempre, per così dire, il coltello dalla parte del manico.
Può condurre il gioco quanto lo desidera e tirarsi indietro in qualsiasi momento, con libertà quasi assoluta. Se dirà all'uomo, dopo averlo sedotto, che il gioco è durato abbastanza, questi non potrà fare altro che ritirarsi in buon ordine, «perché una donna non si batte neanche con un fiore», per quanto ingannatrice sia stata. È lei che fa le regole: quando seduce e quando si ritrae; e, in ogni caso, quel che si aspetta è di essere ammirata e rispettata, sempre.
Non vi è reciprocità con l'uomo, da questo punto di vista. Un uomo che pretendesse di giocare a carte coperte - cioè, di "vedere" le carte di lei senza mai mostrare le proprie - sarebbe giudicato sleale, infido e vile; non vi sarebbero scusanti per il suo modo di agire.
Non tutte le donne si comportano così, questo è certo. Ma questa attitudine è inscritta nella loro natura.
Perciò non si vuol qui dare un giudizio morsale (o moralistico), ma semplicemente prendere atto della loro struttura ontologica.

Una terza, e decisiva differenza tra i due sessi, è che l'uomo desidera piacere alle donne che gli piacciono; la donna, a tutti gli uomini indifferentemente. La donna, e perfino la ragazzina, desidera piacere a qualunque uomo, anche a un vecchio di ottant'anni, salvo farsi le matte risate se vede che, lusingandolo un minimo, quello si infiamma.
La cosa dipende dal fatto che l'uomo vuol piacere alla donna per farla sua; la donna vuol piacere all'uomo per sentirsi desiderabile. Quindi il desiderio dell'uomo è circoscritto: ha un inizio, una fine, uno scopo determinato; per l'uomo (normale), le donne che non gli interessano è come se non esistessero; al massimo, può riservare loro una galanteria formale, per non umiliarle.
Tutto al contrario, per la donna tutti gli uomini devono costituire un banco di prova del suo potere seduttivo; le sue moine non sono selettive, ma generalizzate: salvo poi, ovviamente, concentrarsi sull'uomo che ha scelto. Ella si comporta come uno che, volendo scegliere il fiore più bello, prima coglie tutti quelli che trova sul suo cammino; poi, fatta la scelta, getta via tutti gli altri. La donna vuole il meglio, ma solo dopo aver mostrato a se stessa che nessuno può resisterle; all'uomo realmente virile basta ottenere il favore di quella che, fra tutte, lo ha colpito.

Una quarta notevole differenza è che l'uomo innamorato, che non distingue fra le qualità fisiche e morali della donna amata, idealizza l'oggetto del suo desiderio, ma cercando di innalzarlo fino a sé, nella regione dell'amore puro.
La donna, invece, tasta il terreno per vedere se l'uomo che ha di fronte è capace di resisterle; se ciò avviene, una parte di lei lo ammira profondamente (perché si è mostrato virile), ma un'altra parte ne è indispettita e ferita (perché non si è sottomesso come tutti gli altri). A quel punto, ella metterà in atto tutte le strategie possibili per farlo cadere; e, quando si accorgerà di aver raggiunto lo scopo, smetterà di ammirarlo, e il suo interesse per lui dileguerà rapidamente.
Pertanto l'uomo sa quello che vuole; la donna, no. La donna è presa in una contraddizione inestricabile: sa che potrebbe innamorarsi solo di un uomo più forte di lei; ma, quando lo ha trovato, non si dà pace finché non è riuscita a farlo cadere ai suoi piedi. A quel punto si accorge che egli non era poi così forte e, in segreto, comincia a disprezzarlo.
In altri termini, l'uomo vorrebbe innalzare la donna che ama; la donna vuole abbassarlo: e, ottenuto il suo scopo, si ritrova delusa e scontenta: non solo dell'uomo che inizialmente aveva ammirato, ma anche (segretamente) di sé stessa.

La quinta ed ultima differenza significativa è che alla donna, nella nostra cultura, è concesso un approccio verso l’uomo di tipo estremamente utilitaristico, così come non lo sarebbe mai all’uomo, almeno dal punto di vista dell’approvazione sociale (anche se, di fatto, senza dubbio numerosi uomini fanno altrettanto).
Un buon esempio di ciò è dato dalla vicenda di Friedrich Nietzsche e di Lou Salomé (ne abbiamo parlato nell’articolo «Se una donna ambiziosa non può eccellere, cerca il trionfo nell'umiliare chi è più grande di lei», sempre sul sito di Arianna).
Lei era affascinata dalla filosofia di Nietzsche e riteneva, giustamente, che avrebbe potuto ricevere moltissimo, frequentandolo; ma, come uomo, non gli interessava affatto. Ebbene, quando si rese conto che a lui, invece, importava moltissimo di lei (e se ne rese conto praticamente subito, anche per via della “trappola” che il falso amico di lui, Paul Reé, gli aveva teso), non solo non volle chiarire l’equivoco, ma continuò a lusingarlo e ad illuderlo: le faceva troppo comodo sfruttare quella situazione.
Non capita tutti i giorni di avere ai propri piedi un adoratore di quel calibro: è un trofeo troppo bello da esibire, per fare il “bel gesto” di rinunciarvi spontaneamente.
Così, una donna può dire tranquillamente a un uomo che le interessano le sue idee, ma che non gliene importa nulla di lui come essere umano: ciò non è considerato biasimevole o anche solo indelicato.
Un uomo che agisse così con una donna, sarebbe considerato da chiunque (uomo o donna) come una persona quanto meno insensibile, per non dire come un egoista e un opportunista che «usa» il prossimo nella misura in cui gli fa comodo, non vedendo in lui un individuo completo, ma un magazzino a cui attingere i materiali che in quel momento gli servono.
Questa forma di riduzionismo antropologico è il punto di arrivo di tutto un modo, cinico e calcolatore, di impostare il nostro rapporto fra noi e il mondo, che è tipico della società moderna. La donna vi indulge più dell'uomo, perché, in base al mito che ella rappresenti il sesso "debole", il suo sfacciato opportunismo viene scusato in nome della sua presunta debolezza. Mentre l'uomo, che rappresenterebbe il sesso "forte", sarebbe giudicato in maniera alquanto negativa, se facesse altrettanto; se, ad esempio, dicesse a una donna di gradire la sua compagnia o il frutto del suo lavoro, per certe sue abilitò o qualità; ma di non voler sapere nulla della sua persona, del suo vissuto, dei suoi eventuali problemi.

Il fatto è che, per amare l'altro, bisogna prima aver imparato a perdonare se stessi e a vivere pacificati con tutto il proprio Sé, comprese quelle parti che non soddisfano interamente (cfr. il nostro precedente articolo «Per rispondere alla chiamata bisogna sapersi perdonare», consultabile sul siti di Arianna Editrice).
Ma la donna, per la ragione appena esposta, non lo può fare. Non si vuol bene, non si perdona: perciò cerca un modello ideale fuori di sé (nell’uomo) e, al tempo stesso, fa di tutto per distruggerlo; diversamente, si sentirebbe sminuita.
Il desiderio dell'uomo verso la donna è intenzionale e specifico; quello della donna verso l'uomo è compulsivo e indeterminato.
I due sessi sentono il desiderio e l'amore su due piani diversi, destinati a non incontrarsi mai, salvo rare e felici eccezioni.
Non è una ironia del destino né uno scherzo della natura.
L'uomo, nella donna, cerca la propria compagna, il proprio completamento; la donna (in questo, Nietzsche aveva visto giusto) cerca nell'uomo un mezzo per arrivare alla maternità. L'uomo ama la donna presente; la donna ama l'uomo futuro, cioè il figlio (e, infatti, sovente rimane delusa quando le nasce una figlia).

Come se ne esce?
L'unica via sarebbe quella della consapevolezza di sé, della lealtà e della sincerità,
A tutto si può rimediare, se esistono franchezza e onestà interiore.
Due individui di lingua, religione e cultura diverse possono riuscire a comprendersi in pochi minuti, se ne hanno la ferma volontà; figuriamoci se non lo possono l'uomo e la donna.
Ma ci vuole coraggio: il coraggio di essere se se stesi, di mostrarsi privi di maschere.
La società odierna, purtroppo, tende ad esaltare ed enfatizzare proprio quegli aspetti della psiche maschile e femminile che più si trovano in distonia reciproca: col risultato che uomo e donna si allontanano sempre di più, nel momento stesso in cui sembrano cercarsi con tutto l'ardore di cui sono capaci.
Ma non è vero.
L'ardore del desiderio è ormai rivolto non all'altro sesso, ma alla glorificazione di se stessi. In questo, moltissimi uomini si stanno femminilizzando: e non è un bello spettacolo.
Anziché aiutarsi e innalzarsi amorevolmente l'un l'altra, l'uomo e la donna fanno di tutto per trascinarsi verso il basso. Per umiliarsi, per evocare i lati peggiori di se stessi.
È un gioco al massacro che non finirà bene; e la retorica della libertà a trecentossessanta gradi, compresa quella di usare l'altro per giocarci, come se fosse un balocco, non migliora di certo le cose. Né le migliora la retorica degli omosessuali che pretendono non solo la tolleranza, ma la sanzione giuridica alla perfetta normalità dei loro istinti, compreso il matrimonio e l'adozione dei figli.
La dialettica dei sessi è fondata sull’armonia degli opposti: armonia degli opposti, non mescolanza degli opposti , né armonia dei simili.
Quindi, per tornare ad instaurare un rapporto armonioso e capace di arricchire entrambi, l'uomo e la donna dovrebbero imparare a guardarsi dentro con più onestà; a perdonarsi le proprie debolezze, senza peraltro indulgervi e farsene un comodo schermo difensivo; a mettersi in gioco con tutto il loro essere, e non a compartimenti stagni; ad aprirsi al mistero dell'altro (o dell'altra) in tutta la sua interezza; a confrontarsi, completarsi e integrarsi l'uno con le qualità dell'altra, sforzandosi di portare il proprio compagno (o compagna) verso l'altezza dei propri sentimenti, e non verso la palude stagnante dei propri piccoli calcoli e meschine furberie.
È troppo difficile?
Eppure, per i nostri nonni non lo era; e non lo è stato per le generazioni e generazioni che ci hanno preceduti.
Perché allora proprio per noi, con tutta la nostra scienza di esseri umani dell'epoca post-moderna, dovrebbe esserlo?