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La banda Baader Meinhof

di Claudio Asciuti - 17/11/2008

 

La banda Baader Meinhof

La pellicola a cui torna immediatamente la memoria, più che il celebrato Anni di piombo (1982) di Margaret Von Trotta, è il film collettivo Germania in autunno (1978), opera di registi come Fassbinder, Kluge e Schöndorff, riflessione, più che sullo scontro in atto, sul potere che vista l’impossibilità di contrastare militarmente una guerra che allora si definiva “rivoluzionaria” (e che oggi chiameremmo “asimmetrica”), decide la strada della terra bruciata. Non a caso il climax della pellicola è nelle parole del commissario Horst Herold (Bruno Ganz: uno dei più celebri attori tedeschi, grandissimo interprete di Hitler in La caduta): bisogna battere sull’acqua, così i pesci si muovono.
I pesci sono i giovani militanti della RAF, ovvero la Rote Armee Fraktion, “Frazione dell’Armata Rossa”, definita anche banda Baader-Meinhof dal nome dei due massimi capi, è il gruppo di militanti che dal 1967 in poi combatterono una battaglia internazionalista contro l’atlantismo e il capitalismo, sulla cui vicenda Stefan Aust ha scritto il libro Der Baader Meinhof Komplek, da cui Uli Edel e Bernd Echinger, anche produttore, con la sua consulenza hanno tratto appunto La banda Baader Meinhof, distribuito ora in Italia.
Edel è un regista noto soprattutto per il controverso Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981), che per anni ha lavorato soprattutto come regista televisivo, e Bernd Eichinger un produttore che segue ogni genere, dal ciclo di Resident Evil, a una pellicola di altro spessore politico e ideologico come La caduta-Gli ultimi giorni di Hitler (2006), che fece gridare allo scandalo benpensanti tedeschi e italiani per la supposta “riabilitazione” del dittatore tedesco. Il film prende avvio da un episodio, realmente avvenuto (è visibile anche in rete), durante la visita a Berlino dello shàh Rehza Palavi e della sua consorte nel giugno 1967; quando cioè militanti e studenti inscenarono una manifestazione contro il regime allora vigente in Iran (gestito, come sappiamo, dagli Stati Uniti attraverso il braccio armato della CIA), repressa dalle forze dell’ordine tedesche che prima lasciarono mano libera alla famigerata Savak, la polizia segreta iraniana, poi intervennero caricando i manifestanti, e lasciarono alla fine sul terreno lo studente Benno Ohnesorg, ucciso con un colpo di pistola. Una situazione che, assieme al tentato omicidio del leader studentesco Rudi Dutschke conclusosi con un grave ferimento, spinse fra le braccia della lotta armata molti di quelli che fino ad allora avevano pacificamente manifestato.
In centocinquanta minuti (aperti dalla voce di Janis Joplin e conclusi da quella di Bob Dylan) che neppure si avvertono, si dipana il corso di una storia durata quasi dieci anni, e prende forma la vita di tutti i militanti: Ulrike Meinhof (la bravissima Martina Gedeck, la ricordiamo in La vita degli altri), Andreas Baader (Moritz Bleibtreu) e la sua compagna Gudrun Ensslin (Johanna Wokalek), Petra Schelm (l’altrettanta brava Alexandra Maria Lara, segretaria di Hitler in La caduta, ma qui sacrificata in un ruolo marginale), Jan Raspe (Niels-Bruno Schmidt). Una storia complessa, racchiusa nella lotta all’infiltrazione americana nel sistema tedesco-occidentale di un pugno di giovani, che si consideravano eredi, a cominciare dal nome, dell’Armata Rossa; nello stesso tempo figli dell’epoca nazista che avversavano (la più vecchia, la Meinhof, era del 1934), ma di cui erano altrettanto eredi in termini di volontà e organizzazione; alleati con i movimenti di liberazione palestinesi, vietnamiti, irlandesi, più che con le masse operaie; giovani che scelsero la via della clandestinità e della lotta armata. Una storia che procede per grandi elissi temporali, necessarie a non appesantire il testo altrimenti infinito, e segnata da rapine per autofinanziamento, attentati ai giornali conservatori e alle basi americane in Germania, contatti con l’OLP e soggiorni nei i campi di addestramento palestinesi, agguati ed esecuzioni di magistrati e scorte, compreso l’attacco di Settembre Nero alla squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco; tutto scandito dai comunicati televisivi e da spezzoni dei telegiornali d’epoca, e dalle rivendicazioni e dei documenti battuti a macchina dalla Meinhof. Un ritmo forsennato, che molti hanno definito da film d’azione (action movie per gli esterofili), e una regia un po’ troppo ammiccante alle forme televisive, ma che regge benissimo per tutta la parte fino al momento in cui la polizia, come abbiamo detto, imbocca la via della terra bruciata; togliere il consenso popolare alla RAF, creando una rete costante e continua di controlli, spingere la gente alla delazione, all’indagine personale.
In Italia suddetta strategia fu possibile solo nei confronti delle organizzazioni conosciute, come Autonomia Operai; le organizzazioni clandestine furono individuate e eliminate infatti solo quando gli efferati quanto inutili divennero prassi, l’appoggio popolare svanì, i partiti di sinistra anziché parlare di “brigate elettorali” e poi di “compagni che sbagliano”, soprattutto dopo l’assassinio di Rossa, presero le distanze, e l’arruolamento di massa da parte delle stesse organizzazioni permise l’infiltrazione di tossicodipendenti, criminalità comune, agenti italiani e americani, fino all’esplodere del fenomeno del “pentitismo”. In Germania, la cui purezza ideologica di derivazione teutonica era a prova d’infiltrato, la pratica della terra bruciata non fece altro che rimettere in gioco i collaudati meccanismi di controllo del territorio e di delazione usati dalla Gestapo e dalle polizie segrete di ogni regime, facendo cadere uno ad uno tutti i capi nelle braccia della polizia.
Così dopo l’arresto si apre una spaccatura nel discorso filmico: cambia il ritmo, lo spazio aperto (urbano, come la città; extraurbano, come le spiagge siciliane e il deserto) si riduce; lo spazio chiuso si amplia, ma più che quello dei luoghi d’incontro e di vita dei militanti, diventa quello claustrofobico delle prigioni e in modo particolare di Stammheim a Stoccarda, dove si consumerà la tortura e poi la morte dei capi della banda, avvenuta subito dopo l’azione di dirottamento di un aereo della Lufthansa ad opera del commando palestinese “Martyr Halimeh” e il rapimento di Schleyer, il capo degli industriali tedeschi. Le teste di cuoio libereranno gli ostaggi, e Schleyer, secondo la tragica prassi che verrà seguita anche dalle BR nei confronti di Moro, verrà assassinato.
Ma come spesso accade, quel su cui viene difficile interrogarsi non sono tanto le diversità di stile o di poetica, ma piuttosto il destino politico di una pellicola e il suo successo, soprattutto in Italia. E’ facile dire che Germania in autunno fu salutato con entusiasmo dalla critica (più che dal pubblico), indipendentemente dal suo (alto) valore artistico, perché nacque a ridosso delle legge speciali antiterrorismo, e La banda Baader-Meinhof invece viene in un momento in cui il marxismo è spacciato, i partiti comunisti scomparsi e i movimenti giovanili appaiono più simili a multicolori orde barbariche che a disciplinati eserciti rivoluzionari; la realtà è che una pellicola che non sia apologia sulle “rivoluzioni fallite” o quadro sul “come eravamo”, non interessa.
In Germania si fanno i conti con il passato nazista come con quello rivoluzionario, in Italia no: i nostri film sugli anni di piombo sono a tesi, o compiacenti verso il terrorismo e muti sulle vittime, o accusatori sulle responsabilità politiche ma non di tutti i partiti, e un Edel non potrebbe mai girare un film del genere al di sopra delle parti. Non a caso in Italia i critici di sinistra hanno guardato con sospetto il film, se non l’ hanno denigrato; mentre nel fronte di quelli di destra l’atteggiamento era, al di là di qualche generica condanna tematica, di accettazione.
Un esempio per tutti: per anni ci si è interrogati sul presunto “suicidio” dei militanti della RAF in carcere, e da noi, visti i diversi casi di militanti morti in strane circostanze (da Pinelli a Serantini a De Angelis, tanto per fare i nomi più famosi) ancor di più. Fu il quotidiano Lotta Continua a intervistare il padre di Gudrun Ensslin, che dopo aver sostenuto che la figlia era stata uccisa, venne denunciato per vilipendio allo stato. Così, in modo egualmente strumentale, le sinistre sostenevano la tesi dell’omicidio di stato, le destre del suicidio politico. La prima tesi permetteva di incolpare la giustizia tedesca, la seconda di assolverla; il suicidio offriva appigli alle destre per diagnosticare la follia del militante, o all’individuazione di una weltanschaaung tedesca da crepuscolo degli Dei; per le sinistre tradiva il segno di una cultura politicamente “pericolosa” (i suicidi di Hitler, Goebbels, Himmler, Goring e così via) o la debolezza del rivoluzionario che non deve esser debole, magari dimenticando che il suicidio, in Germania ha una lunga tradizione espressiva nel campo della “sinistra” (basti pensare a Ernst Toller, a Stefan Zweig, a Ernst Weiss o a Walter Benjamin). Cambiati i tempi e cambiate le interpretazioni, ci si accorge che il suicidio politico è politicamente più forte dell’omicidio di stato; Edel accoglie questa tesi; ma la storia della RAF, giusta o sbagliata che fosse, non cambia di una virgola, e resta nell’immaginario comune (in questo caso di chi allora non era magari ancora nato) come la cronaca di una delle tante “battaglie perdute”. La storia, insomma, la si può scrivere anche con il buonsenso di chi cerca di registrare gli eventi, senza cadere nelle stucchevoli accusa di apologia o di revisionismo che tanto piacciono alla critica.