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"La coca è uno stile di vita"

di a cura di The Guardian - 15/02/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media


La straordinaria parabola di Evo Morales mostra come il presidente boliviano abbia le giuste credenziali per guidare la nazione più povera del Sud America. “Alla luce dei suoi svariati utilizzi, voglio industrializzare la produzione della coca: chiederemo all'ONU di rimuovere la foglia di coca dal novero delle sostanze di cui è vietata l’esportazione”

Evo Morales è di fronte a una folla acclamante, con una ghirlanda di foglie di coca attorno al collo e un cappello di paglia, adornato con altre foglie di coca, a proteggerlo dal calore bruciante del sole boliviano. “La lotta per la coca simboleggia la nostra lotta per la libertà”, grida. “I coltivatori di coca continueranno a coltivare coca. Non ci sarà mai alcuna guerra alla coca”.

La folla, composta perlopiù da coltivatori di coca – o cocaleros – è in visibilio. Ci sono probabilmente 20mila persone, arrivate da tutta la regione tropicale del Chapare, ad accogliere il nuovo presidente della Bolivia, loro figlio prediletto. Solo un paio di anni fa i loro raccolti – materia prima per la produzione di cocaina – si trovavano di fronte a una politica di tolleranza-zero, intesa ad ammansire gli Stati Uniti. Ma ogni incertezza a proposito del futuro della coca è stata cancellata in dicembre, con l’elezione del loro Evo. Questo è l’uomo che incontra i leader di tutto il mondo in jeans e maglione a righe, l’uomo che ha messo fuori legge la corruzione in una società tradizionalmente corrotta, il presidente che ha dimezzato il proprio salario per poter assumere più insegnanti.

Morales ha portato alla ribalta la Bolivia. Tre settimane fa la sua instaurazione ha elettrificato la politica latinoamericana; dopotutto, egli è il primo indigeno boliviano – un Aymara – ad aver ottenuto la più alta carica del paese. Morales ha promesso d’incanalare verso il suo popolo povero (il più povero del Sud America) una porzione maggiore dei profitti derivanti dalle vaste riserve boliviane di petrolio e gas naturale. E ha già preso significativi provvedimenti per eliminare discriminazione e sfruttamento. I diplomatici stranieri di stanza a La Paz ammettono che Morales è effettivamente una rarità: un uomo politico onesto e incorruttibile, con un fervente desiderio di migliorare il destino della sua gente. C’è solo una nota stonata: la coca.

Lo abbiamo incontrato il giorno dopo il suo discorso nel Chapare in una stanza al primo piano del palazzo presidenziale di La Paz, 375 miglia più a ovest e 3.500 metri più in alto. Il suo modo di vestire è in assoluto contrasto con ciò che ci circonda: Morales è in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica; la stanza è adornata di drappi di velluto, col pavimento in parquet, mobilia raffinata e quadri a olio raffiguranti il lago Titicaca. Gli racconto come nel Regno Unito la sua elezione ha generato, per la prima volta, interesse verso la politica boliviana (per non dire – ancora – dello stupore provocato dal fatto che il presidente è un leader del sindacato dei coltivatori di coca) e lui non perde tempo e attacca l’imperialismo britannico. “Non mi sorprende”, dice, con i folti capelli che quasi gli coprono gli occhi, neri e profondi. “Gli inglesi hanno sempre avuto questa politica di ingerenza ed eliminazione. Sicuramente saranno attenti a quanto sta succedendo qui”.

Sarebbe l’occasione giusta per spiegare cosa sta esattamente accadendo in Bolivia, ma prima un po’ di storia e geografia. La Bolivia, una nazione priva di sbocchi sul mare, è confinante col Brasile a nord e a est, col Paraguay e l’Argentina a sud, e col Cile e il Perù a ovest. Due terzi sei suoi quasi 9 milioni di abitanti sono indigeni Aymara e Quechua, circa l’1% trae le proprie origini dagli schiavi africani deportati qui per lavorare nelle miniere, e il resto sono discendenti dei coloni europei, principalmente spagnoli. I conquistadores vi giunsero all’inizio del XVI secolo e diedero il via allo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie del paese (argento e stagno soprattutto), sfruttando i nativi e creando nelle menti della maggior parte dei boliviani la terribile sensazione che le loro risorse naturali finissero nelle mani di stranieri. I conquistadores e i loro discendenti di sangue misto, la minoranza mestizo, hanno dominato per 500 anni, fino alla vittoria di Morales in dicembre. Egli è diventato ufficialmente presidente il 22 gennaio.

Immediatamente è dilagata la costernazione in tutto l’emisfero settentrionale, specialmente a Washington. La campagna elettorale del partito di Morales, il MAS (Movimento verso il socialismo) – una libera conglomerazione di sindacati di sinistra e gruppi d'interesse – è stata all’insegna della depenalizzazione della coltivazione di coca e la nazionalizzazione delle risorse naturali. Cosa succederà, ci si è chiesti, alla guerra alla droga promossa dagli Stati Uniti? E cosa significherà tutto questo per le compagnie minerarie e petrolifere internazionali, che hanno investito miliardi di dollari nella ricerca e nell’estrazione? Negli ultimi anni, solo le compagnie britanniche, come la BP, la Shell e la British Gas hanno speso più di 800 milioni di dollari in progetti in Bolivia. E gli Stati Uniti hanno speso una media di 150 milioni di dollari all’anno per lo sradicamento della coca.

Morales ha dichiarato che sarà un “incubo” per gli Stati Uniti. Si è immediatamente messo in viaggio per un tour di visite ufficiali ai leader di tutto il mondo: in Europa, in Cina, in Sud America. E durante gli incontri coi suoi eroi politici, Fidel Castro e il venezuelano Hugo Chavez, si è fatto beffe di Bush, annunciando che lui e i suoi amici avevano formato il nuovo “Asse del Bene”.

Morales ha immediatamente dimostrato di non avere padroni, anche se almeno uno dei suoi atti pubblici di emancipazione – indossare quel suo maglione a strisce durante gli incontri con Juan Carlos di Spagna, con il presidente sudafricano Thabo Mbeki e col presidente cinese Hu Jintao – è stato un caso. “Stavo giusto uscendo dalla porta per cominciare il giro delle visite, quando mi sono ricordato che in Europa era pieno inverno” – sorride. “Non riuscivo a trovare il mio maglione preferito, così ho preso su quello di cui tutti stanno parlando ora. Non avevo idea che avrebbe causato tutto questo trambusto”. È troppo presto per dire quello che Morales e il MAS hanno intenzione di fare. Ha costituito il suo governo solo la scorsa settimana, ma già i primi campanelli di allarme hanno cominciato a suonare; il ministro dell’economia è Carlos Villegas, un accademico di sinistra dell’università di San Andrés di La Paz. E la persona incaricata di combattere il narcotraffico? Felipe Caceres, un leader del sindacato dei coltivatori di coca. È questa, dunque, l’alba del primo narco-Stato del pianeta? Morales dice di no.

La nostra prima intervista è durata solo 13 minuti; si può dire che si tratta, al momento, del politico più impegnato del Sud America e ha una riunione che lo aspetta. Ma due ore dopo siamo tornati al palazzo presidenziale, si è messo una maglietta azzurra a scacchi e ci ha dedicato un po’ del suo tempo per parlare delle sue origini, dei suoi modelli e del perché dovremmo cercare di essere più comprensivi per quanto riguarda il suo sostegno alla coca. “Dovete rendervi conto che, per noi, la foglia di coca non è cocaina, così come coltivare la coca non significa narcotraffico”, dice. “E neppure masticare le foglie di coca, o trarne qualche prodotto che non ha a che fare con le droghe. Da migliaia di anni la foglia di coca gioca un ruolo importante nella nostra cultura. È usata in molti rituali. Se, per esempio, voi voleste chiedere a qualcuno di sposarvi, dovreste offrir loro una foglia di coca. Essa ha davvero un ruolo importante in molti aspetti della nostra vita”.

A differenza di altre nazioni produttrici di coca, come la Colombia, qui esiste una genuina tradizione associata con l’uso della coca. Per gli amerindi, Mama Coca è la figlia di Pachamama, la Madre Terra. "Prima di avviarsi al lavoro, specie nell’agricoltura, si mastica una foglia di coca", prosegue Morales. "Dopo pranzo, dopo la siesta, si dovrebbe masticarne un po’. Se si deve guidare a lungo per raggiungere il proprio posto di lavoro, masticarla aiuterà a tenersi svegli. Durante la notte, ci si può accorgere dei poliziotti di pattuglia con le guance piene di foglie di coca".

“L’infuso di coca è usato per combattere il mal di montagna e dalla coca si producono farmaci naturali utili per diverse tipologie di malanni, come sciroppi per la tosse. Nel passato, ne hanno usufruito i papi, i re di Spagna, Fidel Castro. Nella vostra società, voi bevete un cocktail o un bicchiere di vino, mentre noi mastichiamo un po’ di coca. Durante l’epoca repubblicana, i minatori usavano la coca per poter lavorare più duramente, e inviare più stagno negli Stati Uniti. Per noi, è uno stile di vita, ma la coca non è cocaina. Storicamente, i boliviani non hanno mai prodotto cocaina. Siamo assolutamente contrari a questo. Io dico no alla guerra alla coca, ma dico sì alla guerra alla cocaina”.

Confusi? Questo perché in Occidente, o nei paesi sviluppati dell’emisfero Nord, la gente conosce poco o nulla dell’uso tradizionale amerindio della coca. Quando arrivi al tuo hotel di La Paz, a 4.000 metri di altitudine, nella hall c’è un grosso recipiente di tè di coca, fatto con delle bustine che sono identiche a quelle che usi per la tua colazione, che viene offerto per aiutare a combattere il mal di montagna. Durante il tuo lungo viaggio, l’autista potrebbe offrirti una pastiglia di coca. E ovunque, praticamente tutti masticano la loro foglia. Ma, come spiega Morales, questa non è la droga pesante che si produce macerando la foglia nel cherosene e poi trattandola con acido solforico.

In ogni caso, una volta che cominci a capire i modi in cui viene usato, ti vengono subito in mente altre domande. Sì, qui c’è il tradizionale, “innocente” utilizzo della coca; eppure, i livelli di produzione eccedono ampiamente i bisogni per tali scopi. E da questo surplus si produce cocaina. La produzione legale è confinata in due località: lo Yungas, a nord di La Paz, e lo Chapare, a est. Ai cocaleros è permesso di coltivare 12.000 ettari nello Yungas e 3.200 nel Chapare. Ma, in realtà, ne viene coltivata molta, molta di più. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, circa 27.700 ettari sono stati messi a coltura nel 2004. Ufficiosamente, gli Stati Uniti hanno calcolato che solo 5000 di questi basterebbero per coprire la domanda nazionale. Le Nazioni Unite pensano che 36.300 tonnellate di foglie di coca sono state prodotte nel 2004; e, di queste, 25.000 tonnellate sono state destinate alla raffinazione della cocaina. Ci vogliono tra i 300 e i 500 chili di foglie di coca per produrre un chilo di cocaina.

Morales si rifiuta nettamente di ammetterlo, ma senza il narcotraffico larghe fasce della sua popolazione farebbero letteralmente la fame. È stato calcolato che un terzo della popolazione si appoggia, direttamente o indirettamente, all’industria della coca. Al mercato di Adepcoca di Villa Fatima, La Paz, il più grande mercato di coca del paese, arrivano migliaia di poveri campesinos 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per pesare e vendere la loro coca. Donne ricurve nei loro tradizionali abiti Aymara, giovani cocaleros coi loro bambini che trascinano sacchi di coca da 23 chili ciascuno verso i furgoni. Gli acquirenti vengono registrati e tutta la coca che acquistano è teoricamente destinata agli usi tradizionali. Ovunque ci sono foglie di coca, che odorano di erba marcia e concime.

Il mercato è cupo e i sacchi, o taquis, sono messi uno sopra l’altro a gruppi di cinque, una stanza dopo l’altra. È un’immagine impressionante. Ma qui, per questa gente, è perfettamente legale e addirittura scontata. (Forse è significativo che buona parte del mercato è ancora in costruzione.) E tutti masticano foglie di coca.

Uno di quelli che è venuto fin qui per vendere la sua coca è Maclobio Ramos, un cocalero quarantaduenne dello Yungas (tutta la coca qui presente proviene da quella regione). Coltiva legalmente 3 catos – appezzamenti di 40 metri per 40 – e ha portato 20 taquis, da cui spera di ricavare 750 dollari boliviani (94 dollari americani) per ognuno. Nello Yungas, ci sono 3 raccolti all’anno; nel Chapare, quattro. “Significa tutto per noi”, dice Ramos. “Ho due figli e, per me, significa poter avere cibo, poter permettermi di mandarli a scuola e crescerli come si deve. Se fosse per gli americani, i raccolti sarebbero distrutti e noi moriremmo di fame. Non riusciremmo mai guadagnare in altra maniera”. Quando gli chiedo cosa penserebbe se l’acquirente della sua coca poi la incanalasse verso la produzione illegale di cocaina, egli risponde: “Non ne so nulla.”

Nella regione dello Chapare ho incontrato la quarantatreenne cocatera Efrosina Rodriguez. Lei, sua sorella Margarita, suo cognato Gabriel Velasquez e i loro tre bambini coltivano legalmente un solo cato. Questo significa mera sopravvivenza, ben al di sotto della linea di povertà.

Questa è la roccaforte di Morales, dove è salito alla ribalta come leader sindacalista. È anche il posto in cui, secondo il FELCN (Fuerza Especial de Lucha Contra el Narcotrafico), l’unità militare che combatte il narcotraffico, è stato trovato l’80% di tutte fosse di macerazione (in cui le foglie di coca sono lasciate a macerare e trasformate in pasta di cocaina) della Bolivia.

Efrosina porta una borsa su cui è scritto: “Una vita libera dalla droga”. Il cocalero medio è povero e non sa quasi niente della cocaina. Queste solo le persone di cui Morales ci vuol far comprendere la condizione. Efrosina dice che la terra è povera, e che persino un cato particolarmente fertile può rendere solo 450 dollari americani, ogni qualche mese. Nel Regno Unito, quello sarebbe il prezzo di circa 5 grammi di cocaina, comprata per strada. Gli adulti vestono abiti rattoppati, i bambini non hanno molto nel loro futuro, se non la coltivazione della coca. “Avevo messo a coltura 12 catos, ma solo uno di questi era legale,” dice Efrosia. “Poi, nel 2004, il FELCN è venuto e ha sradicato quelli illegali. Mi hanno chiesto quale volevo tenere e io gliel’ho detto. Allora, loro hanno sradicato proprio quello e mi hanno lasciato con un cato poco fertile. Poter coltivare più coca legalmente sarebbe di grande aiuto per noi. Siamo tutti contrari alla cocaina, ma la coca può essere usata in altri modi – medicine, infusi, pomate, creme. Senza poter coltivare la coca, la mia famiglia morirebbe di fame”.

Evo Morales è nato nel 1959 nel villaggio di Isallavi, nel dipartimento di Oruro, nel grande altipiano meridionale ai confini col Cile. Dei suoi 6 fratelli, 4 sono morti entro il primo anno di vita. “Tra i poveri, questa è la normalità”, dice. “Se vuoi avere un famiglia in Bolivia, preparati a generare 9 o 10 bambini, così avrai qualche possibilità che te ne rimanga qualcuno vivo”. Non c’era elettricità né acqua potabile e, come per molte altre famiglie in quella regione, la siccità e la depressione economica obbligarono la famiglia di Morales a trasferirsi in città oppure nelle più fertili regioni del Chapare. Suo padre, Dionicio Morales Choque, e sua madre, Maria Ayma Mamani (ormai deceduti entrambi), lavoravano nell’agricoltura. Morales ricorda: “Erano analfabeti. Quando andai per la prima volta a scuola in città, gli altri bambini ridevano di me e dicevano che ero brutto, a causa dei miei tratti Aymara. Se avessi parlato la mia lingua, avrebbero riso e avrebbero saputo che ero indio, e io a quell’epoca non parlavo spagnolo; così, per evitare di essere deriso, per molto tempo non parlai del tutto. C’era molta discriminazione verso la popolazione indigena. Ai tempi di mia nonna, solo 80 o 90 anni fa, si registravano casi di Aymara a cui venivano strappati gli occhi perché avevano imparato a leggere. Invece, a quelli che avevano imparato a scrivere, venivano mozzate le dita. Quando a mia nonna e ai suoi amici fu finalmente consentito di frequentare la scuola, venivano costantemente ostacolati e non fu mai permesso loro di diplomarsi”. Punta l’indice fuori dalla finestra, verso Plaza Pedro D. Murillo. “Cinque anni fa, non mi sarebbe stato permesso di camminare in quella piazza”.

La carriera politica di Morales cominciò nel 1981, quando fu nominato segretario allo sport nel sindacato dei coltivatori di coca di San Francisco, nello Chapare. Da qui in avanti – egli aveva già lavorato per un breve periodo come pastore di lama e aveva già svolto il servizio militare – salì nella gerarchia del sindacato e, nel 1992, fu eletto alla presidenza delle sei federazioni sindacali dei produttori di coca del Chapare. Nel 1997, fu eletto al parlamento boliviano e divenne una costante spina nel fianco dei successivi governi, più disposti di quanto fosse lui a compiacere gli Stati Uniti.

Una sollevazione popolare lo salvò dall’imprigionamento e oggi le accuse a suo carico sono da tutti considerate dei semplici pretesti, con tanto di beneplacito da parte degli Stati Uniti. “Sono stato accusato di essere un narcotrafficante, un assassino, un terrorista e un mafioso”, dice. “Gli americani dicono che ho ricevuto denaro dal Farc (il gruppo paramilitare che gestisce il traffico di cocaina in Colombia), da Cuba e dal Venezuela. Niente di tutto questo è vero. Mi hanno odiato, maltrattato, umiliato e gettato in prigione per 3 volte, solo perché ho provato a difendere il mio popolo. Ma ora siamo al governo e io voglio portare pace e giustizia per tutti. Non c’è spazio per la vendetta. Vogliamo far sentire partecipi tutti i boliviani. Nessuno sarà sfruttato o discriminato”.

Alle elezioni di dicembre, Morales ha preso il posto del presidente Carlos Mesa con il 54% dei voti totali (una vittoria schiacciante, se si considera che i candidati erano ben otto, NdT). Questo gli ha consegnato un mandato senza precedenti e una posizione di forza nelle rinegoziazioni degli accordi riguardo petrolio e gas naturale con gli investitori esteri. La sua definizione di “nazionalizzazione” non è rigida e, a quanto dice, le compagnie straniere non hanno nulla da temere: verranno rispettati i diritti di proprietà. E dovrà cooperare con le enormi compagnie degli idrocarburi, se vorrà che i boliviani possano beneficiare dell’estrazione dalle riserve di gas naturale (del valore potenziale di 250 miliardi di dollari). “Abbiamo ovviamente bisogno di investimenti”, dice. “Investimenti statali e anche privati. Ma chi investirà sarà il nostro socio, non il nostro padrone. Sugli altri tipi di investimento, per esempio il turismo, tutti sono i benvenuti a investire in Bolivia in qualunque maniera desiderino. Il mio governo garantirà a tutti gli investitori, pubblici o privati che siano – ma preferibilmente pubblici – la nostra piena collaborazione”.

Il che ci porta inevitabilmente alla coca. Morales non dice se ci sarà una maggiore o una minore produzione sotto il suo governo; semplicemente, che la coltivazione non sarà mai né imbrigliata né sradicata. Le quote, dice, saranno decise dal governo in collaborazione con i sindacati. “Voglio industrializzare la produzione della coca e chiederemo alle Nazioni Unite di rimuovere la foglia di coca dal novero delle sostanze di cui è vietata l’esportazione”, dice. “In questo modo, possiamo creare mercati di prodotti legali come infusi, medicine e trattamenti naturali. C’è stata perfino una ricerca, in Germania, che mostra come il dentifricio fatto con la coca sia buono per i denti. Questo inoltre ci permetterà di essere più forti contro il narcotraffico. Come ho già detto, no alla guerra alla coca, sì alla guerra alla cocaina”.

Mi congedo con l’impressione che Morales sia davvero profondamente e sinceramente convinto di non voler abbandonare milioni di poveri cocaleros alla polizia anti-droga, poiché questo significherebbe ridurre gran parte della popolazione boliviana alla miseria più nera. Morales ha tutte le credenziali per poter essere un grande presidente, per la nazione più povera del Sud America. Rimane da vedere se riuscirà ad avvicinare alle sue posizioni gli elementi più estremisti del suo partito, il MAS. Una cosa è certa: per farcela ha bisogno di tempo, e il tempo non è qualcosa che solitamente viene concesso ai presidenti boliviani. Nei 182 anni che sono trascorsi dalla conquista dell’indipendenza dalla Spagna, questa caotica e disastrata nazione ha dato prima il benvenuto e poi l’addio a più di 190 governi.

 

 

 

Fonte: http://www.guardian.co.uk/g2/story/0,,1705476,00.html
Tradotto da Paolo Cola per Nuovi Mondi Media