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Deflazione: adesso comincia la crisi reale

di Mario Braconi - 02/12/2008

 
 
 

La crisi economico-finanziaria che ci sta conducendo verso una recessione globale ha un unico pregio intellettuale: ci ha costretti a mettere da parte concetti che eravamo abituati a dare per scontati e ad utilizzare un nuovo paradigma. Come spiega l’economista Nouriel Roubini in un suo recente articolo, per fronteggiare l’attuale scenario di recessione e deflazione, la politica monetaria tradizionale è ormai un’arma spuntata: occorre ideare soluzioni creative a problemi inediti. Eccesso di capacità produttiva rispetto a consumi e ad acquisti di beni durevoli in caduta libera, deboli pressioni salariali indotte dalla crescente disoccupazione e caduta dei prezzi delle materie prime (a cominciare dal petrolio) sono un habitat ideale per il virus della deflazione (discesa del livello dei prezzi).

L’aspettativa di ulteriori ribassi nei prezzi congela le decisioni di consumo: chi compra un’auto oggi quando sa che tra sei mesi potrà aggiudicarsela al 5% in meno? Così non si compra sempre di meno, la produzione rallenta ulteriormente, con perversi effetti circolari su prezzi ed occupazione. Lo scorso 29 ottobre il FOMC (Federal Open Market Committee, braccio operativo della Fed) ha tagliato il tasso sui Fed Funds per la nona volta dall’inizio della crisi dei subprime, portandolo all'1% (nell’estate del 2007 era 5,25%). In effetti, mercato monetario, affogato nella liquidità messa a disposizione dalla Fed, esprime oggi tassi prossimi allo zero.

Con tassi di interesse nominali a breve prossimi allo zero, la deflazione porta i tassi reali (tassi nominali meno livello di inflazione) a livelli positivi: supponiamo infatti di acquistare oggi un oggetto che vale 100 euro, attraverso un prestito ad un anno il cui tasso, per i motivi sopra esposti, è zero; se nell’anno che intercorre tra l’accensione del prestito e il suo rimborso i prezzi sono scesi del 10%, ci troveremo a dover rimborsare degli euro il cui potere di acquisto si è accresciuto di un decimo. Il che equivale a dire che la deflazione, in un contesto caratterizzato da tassi vicini allo zero, corrisponde ad un livello di tassi di interesse pari a quello del tasso di deflazione, cosa che influenza negativamente consumi ed investimenti.

Inoltre, l’aumento del potere di acquisto del denaro prodotto dalla caduta dei prezzi incrementa il valore reale del debito assunto in precedenza: il fenomeno è particolarmente grave negli Stati Uniti, dove i privati hanno fatto un uso spregiudicato del credito (carte di credito e ai finanziamenti al consumo). La recessione associata alla deflazione, insomma, moltiplica il numero delle famiglie e delle aziende in bancarotta.

Se i tassi a breve si mantengono prossimi a zero, i tassi reali tendono a mantenersi elevati, in parte per via della deflazione, in parte a causa dell’esplosione dei margini - anche su prenditori di fondi con un buon merito di credito - ed in parte ancora a causa dell’irripidirsi della curva dei tassi (significativa differenza tra tassi a breve e tassi a lungo). Ora, se è vero che le autorità monetarie si stanno facendo in quattro per far piovere liquidità sui mercati, per varie ragioni questo fiume di denaro non riesce a circolare: le banche, infatti, prendono in prestito fondi dalla Fed senza prestare a loro volta ad altre banche, non essendo sicure che esse siano in grado di onorare i propri debiti.

Inoltre, le sole società con buon rating (“investment grade”) riescono a finanziarsi sul mercato (ad esempio con le “commercial paper”, cioè BOT emessi da privati); gli intermediari finanziari non bancari, che hanno comunque disperato bisogno di liquidi, non hanno accesso alle linee predisposte dalla banca centrale; infine, per le operazioni di cartolarizzazione dei crediti al consumo non assistiti da garanzia, oggi praticamente non esiste un mercato.

Si rendono dunque necessarie politiche pubbliche particolarmente creative ed eterodosse, quali ad esempio convincere il mercato che i tassi a breve resteranno a zero per lungo tempo, in modo che aspettative di tassi stabilmente bassi influiscano anche sui tassi a medio-lungo; comprare sul mercato titoli di stato con scadenze molto lunghe, per alzarne il prezzo e quindi abbassare il rendimento; comprare mutui o prodotti strutturati costruiti sulla base di mutui ceduti; costringere Freddie Mac e Fannie Mae a garantire più mutui di quanto facciano ora; (perfino!) agire direttamente sul mercato azionario, influenzando così i margini che esprimono il merito di credito (credit spread); spingere il dollaro al ribasso, mediante dichiarazioni pubbliche mirate e/o attraverso linee di credito reciproche con le altre banche centrali, a rischio però di ritorsioni da parte delle altre nazioni verso cui si finisce per esportare deflazione.

In ogni caso, per scongiurare i rischi della deflazione, è necessario agire in modo veloce e determinato, continuando a sostenere e magari anche a nazionalizzare le banche, spingere sulla spesa pubblica per compensare i consumi in caduta libera, e condonare fette importanti del debito assunto da privati divenuti poi insolventi. Tutte queste soluzioni “estreme” suonano eretiche, per il costo immenso che implicano e soprattutto per la quantità di dilemmi filosofici sul significato di “Stato” e su quello di “mercato”: nondimeno sono inevitabili. A meno che qualcuno non abbia idee migliori…