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L’immagine coordinata della guerra e il Big Bang dei “non disinformati”

di Pino Cabras - 08/01/2009







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Perché stiamo perdendo? Se lo chiede (ce lo chiede) Giulietto Chiesa nel momento in cui la distruzione piove sulla gente innocente, ora che assistiamo quasi impotenti al racconto falso dei media occidentali, quando la verità è rovesciata e i carnefici sono presentati come vittime. Se non sappiamo rispondere a questa domanda, certe forze dominanti non incontreranno più limiti nel fare una guerra ancora più estesa, molecolare, di scala mondiale, sulla quale, come i sette angeli dell’ira di Dio, verseranno i loro vasi pieni di pestilenza e dolore. Il problema è capire che i guai sono davvero già così grandi, e trovare un qualche rimedio.



In realtà quella di Chiesa, nel titolo, non è una domanda, ma l'annuncio di una spiegazione. Poi, leggendo, accanto all'analisi, gli interrogativi risorgono. Facciamo un primo passo, cerchiamo per ora di capire e descrivere un lato della questione.
Perché stiamo perdendo? La mia prima risposta è: hanno imparato in fretta la lezione del Libano.

Nell’estate 2006 l’immagine di Israele era uscita male, quando devastava il vicino settentrionale. La resistenza di Hizbullah era sorprendente ed efficace. Il governo israeliano, che aveva contato su una vittoria liscia, si trovava invece a gestire in affanno tante cose fuori controllo: sul campo di battaglia, di sicuro; ma anche nei suoi media locali, in quelli all’estero, o fra i soldati che scrivevano e-mail e blog sconsolati, in continuo rimbalzo nel ciberspazio, rosi dai dubbi per una guerra insensata e criminale. Certo, Fassino era sempre pavlovianamente pronto a qualche fiaccolata in soccorso dei cacciabombardieri, e Amos Oz già allora saltava su per dare copertura etica alle stragi simulando moderazione, eppure il messaggio andava storto lo stesso.

Oggi niente blog aggiornati, nessuna e-mail per le truppe, perfino i cellulari sono sequestrati ai soldati. Come per una qualsiasi azione di marketing, il tono della comunicazione non ammette sbavature. È l’
immagine coordinata. Meglio azzerare il rischio ed estendere l’ombrello della pianificazione militare totale a ogni aspetto della comunicazione.

Oggi Israele ha organizzato in un modo infinitamente più accurato la “guerra della percezione”, un pezzo fondamentale della guerra nel suo insieme, con tremenda coerenza semiotica.
E quindi vince a man bassa.
Le redazioni vengono convogliate su blog inspiegabilmente tutti allineati alla nuova avventura bellica, scritti da mamme di soldati, orgogliose come antiche madri spartane: si ripropone il cliché militarista più trito con il pigolio della novità hi-tech. Ma questo sarebbe il meno.

Una tale prevalenza della menzogna più sfrontata su tutti gli organi d’informazione e comunicazione non è solo frutto della debolezza culturale delle redazioni. È l’effetto di un lavoro durato anni, un’egemonia voluta e cercata per rimodellare ogni luogo importante in cui si producesse comunicazione, come ben ricorda Chiesa: prima ancora delle notizie da dire o non dire, sono state scelte o rimosse le persone in grado di trattarle.
Le redazioni si sono bevute di tutto, dalle menzogne dell’11 settembre americano a quelle del 7 luglio londinese, dalle balle della guerra in Iraq alle lampanti falsità del presidente della Georgia in Ossetia. Figuriamoci se queste redazioni, via via disabituate a qualsiasi critica frontale del potere, non avrebbero abboccato all’attento “planning” coordinato fra Gerusalemme e Washington per l’aggressione a Gaza. Abboccano, eccome.
E non sono soltanto i Tg a esibire gli indecenti pupazzi dei ventriloqui criminali.
Li vedi ovunque, anche nelle trasmissioni di cronaca rosa, una volta tanto distolte dal vippame del demi-monde televisivo per prestare orecchio alle pillole di propaganda, quando la propaganda chiama. A recitarla sentiamo una falange di altri VIP, tutti ingaggiati per giustificare con parole clonate l’azione “difensiva” dei bombardieri israeliani contro una popolazione inerme.

Quel che voglio dire è proprio questo: l’assoluto sbilanciamento delle notizie sulla strage di Gaza deriva sì dalla struttura dei media e delle loro proprietà oligopolistiche – e questo è il dato di fondo con cui dovremo imparare a fare i conti - ma su questa struttura e su questa linea politica è visibile anche l’effetto di un’azione coordinata specifica, un’azione dell’oggi, di questi giorni, voluta da centri di potere che condividono l’idea di “nuovo Medio Oriente” che ha in mente Tzipi Livni, quasi un test per un nuovo ordine politico in sostituzione delle democrazie, erose dalla crisi più devastante mai vista da ottant’anni.
Tante bugie, tanto spazio per esse, tanta somiglianza fra loro e tanta dissomiglianza dalla realtà, non sono un caso. Siamo testimoni di una mostruosa manipolazione ‘ad hoc’ proprio mentre avviene. C’erano già i giornalisti “embedded”. Ora ci sono le notizie precotte.

Una piccola redazione di un piccolo sito come il nostro ha già tutti gli strumenti per conoscere le proporzioni essenziali dei fatti, vedere le immagini censurate dalle TV occidentali, immagini che direbbero la verità al grande pubblico, sfogliare reportage degni di fede sul massacro deliberato dei civili,
riscoprire le dichiarazioni di ieri dei criminali di oggi quando anticipavano i loro intenti politici e militari, rileggere la storia di Terrasanta abbastanza da rigettarne i falsi miti. Vediamo molto, e pubblichiamo a più non posso. Piccole gocce nel mare, come altre gocce sparse qua e là nel web.

Immagini e strumenti sono disponibili - su scala incomparabilmente più grande - anche in mano alle grandi redazioni. Anche loro sanno quel che c’è da sapere. Le immagini vere le vedono eccome. Qualcosa emerge anche sulle loro pagine, ma il tono scelto è un altro, e quello prevale: il tono della complicità che va avanti per inerzia, per censura e autocensura (tanto le persone convenienti hanno già sostituito quelle scomode), con in più il valore aggiunto disinformativo disposto per l’occasione, quello da “immagine coordinata”, la campagna politico-mediatica del momento. C’è chi dà ordini e chi obbedisce su un fatto preciso e determinato. L’ordine impartito è in fondo semplice: sottrarre alla vista il fatto che la classe dirigente israeliana – così come l’amministrazione uscente statunitense - sia guidata da un nucleo di pericolosi criminali di guerra sostenuti da molti complici. L’ordine viene eseguito con accuratezza e serialità industriale. Il velo di pedanteria umanistica, l’interfaccia che le macchine non possono dare, lo danno i Riotta e i Pigi Battista, e tanti altri ancora, ma quel velo non riesce a nasconde la standardizzazione pressoché robotica del prodotto, da fabbrica d’armi di qualità.

Se leggete «la Repubblica» e il «Corriere della Sera»del 7 gennaio 2009, in particolare l’
articolessa di Adriano Sofri sul primo e il presentat’arm di Bernard-Henry Lévy sul secondo, troverete le frasi misericordiose e le cavillosità adatte a fregare la sinistra inesauribilmente sprovveduta, frasi generiche e sentimentali, abbastanza smaliziate da concedere distinguo a un pubblico più laico ed esigente, da ammansire con la citazione giusta. Il Vecchio Pregiudicato e l’eterno Nouveau Philosophe dimostrano che sanno, certo, che l’Islam è complesso, che gli israeliani fanno anche errori, che i palestinesi, accidenti, soffrono, e poveri anche i bambini. Le frasi mimetiche sono la loro expertise che serve a occultare il cuore vero del loro testo, scandito – dopo le divagazioni - da frasi finalmente secche,come un comando ipnotico a favore della versione che ricalca i pensatoi militaristi.
La velina di Sofri è: «Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare a colpire i bambini. […] La gente di Israele e i suoi governanti ha un (provvisorio, minacciato, odiato) vantaggio nelle risorse possibili della forza e della ragione. Hamas bersaglia da anni case, scuole, strade di una popolazione civile israeliana cui è impedita una normale vita quotidiana. Hamas giura la distruzione di ogni cittadino di Israele e di ogni ebreo sulla terra. Hamas addestra ed esalta gli assassini suicidi. Hamas si serve vilmente degli scudi umani, predilige bambini donne e vecchi, tramuta moschee e pareti domestiche in ripari di armi e mine. Ma lo spregevole cinismo di Hamas libera Israele dalla responsabilità verso quelle donne, quei vecchi, quegli uomini, quei bambini?»
E la velina di Lévy? Eccola: «Il fatto che le granate israeliane facciano, al contrario, tante vittime non significa […] che Israele si abbandoni a un “massacro” deliberato, ma che i dirigenti di Gaza hanno scelto l’atteggiamento inverso, di lasciare quindi le loro popolazioni esposte: una vecchia tattica dello “scudo umano” che fa sì che Hamas, come Hezbollah due anni fa, installi i propri centri di comando, i depositi d’armi, i bunker nei sotterranei di abitazioni, ospedali, scuole, moschee. Tattica efficace ma ripugnante.»

 

 



Stesso canovaccio e perfino stessa cadenza, lo vedete. Stesse bugie da retrobottega del Pentagono: la vecchia corbelleria degli “scudi umani”. Identica spudoratezza, identiche amnesie selettive: dimenticano (Sofri) o perfino negano (Lévy) che Gaza sia da anni sotto assedio, sotto lo schiaffo di azioni unicamente definibili come “crimini di guerra”. Tali e quali anche le dicotomie: la ragionevolezza di chi lancia le “granate” con cura chirurgica contrapposta allo «spregevole cinismo» della «ripugnante» Hamas.
È lo stesso Sofri che aveva benedetto l’invasione dell’Iraq. È lo stesso Bernard-Henry Lévy che l’estate scorsa è stato sputtanato per le menzogne acclarate di un suo reportage dalla Georgia. Ogni tanto leggi di cronisti licenziati perché inventano notizie, peraltro plausibili, ma inaccettabili per deontologia. Per BHL, invece, la pagina degli editoriali del «Corriere» è sempre aperta. Parla di banali granate, lui, per evitare di menzionare gli ordigni usati davvero: le GBU39 con dardo di penetrazione a uranio impoverito; il fosforo bianco; il DIME (Dense Inert Metal Explosive) in lega di tungsteno, usato la prima volta in
Libano nel 2006, che provoca ferite spaventose e fa i corpi a brandelli, lasciando ai sopravvissuti la prospettiva dei tumori.

Tutto questo orrore è ben documentato e documentabile, e sarebbe un inesauribile filone d’inchiesta per incalzare le autorità israeliane, che infatti non vogliono testimoni e reporter a Gaza. Precauzione inutile, con i direttori delle grandi testate nostrane. I quali mettono in fila le seguenti frasi dei loro editorialisti di punta: «Hamas non propugna solo la distruzione di Israele, ma lo sterminio degli ebrei» (Piero Ostellino, 29 dicembre), «Hamas auspica l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra» (Ernesto Galli Della Loggia, 3 gennaio), «Hamas giura la distruzione di ogni cittadino di Israele e di ogni ebreo sulla terra» (Sofri, 7 gennaio). Fra tutte le semplificazioni possibili del contenuto d’odio usato da Hamas in una complessa citazione di Maometto, i volonterosi propagandisti della guerra usano solo quella che si brucia i ponti alle spalle. In fotocopia. In quella forma è una leggenda maligna, che serve a nascondere le aperture pragmatiche, le tregue di sei mesi, di dieci anni di cinquant’anni, offerte da leader di Hamas poi eliminati con qualche tempestivo bombardamento. La leggenda dei trombettieri delle nostre gazzette vuole la guerra, non scruta spiragli.

La macchina della propaganda è dunque ben oliata, pervasiva. Occupa con rigore il centro dell’agenda mediatica. Militarizza gli editoriali più importanti. Non si limita a presidiare l’informazione, ma lavora sul sistema della comunicazione.
Giulietto Chiesa ci esorta a non segregarci nell’illusione della controinformazione, galassia interessante, ma dispersa e senza massa critica, fatta di spezzoni orgogliosi d’identità incapaci d’espandersi, intransigenze non portate a conciliarsi, priorità diverse dei vari gruppi e individui, incapacità di comprendere che la partita si gioca nel sistema integrato della comunicazione, il luogo in cui le immagini in movimento interagiscono con i desideri e i sogni manipolati. Grillo dice che la TV è morta e vincerà la rete. In realtà avviene l’integrazione fra i media, con un forte contenuto comunque televisivo, ancorché in totale trasformazione. Vince chi lo capisce e si dota dei mezzi conseguenti. Chi vuole la guerra lo ha capito benissimo.

In realtà, trasmettitori e riceventi presenti nell’agorà comunicativa non sono alla pari. La libertà dei flussi non può celare le differenze di potere fra la concentrazione tecnocratica della merce comunicazione in una ristretta élite di soggetti multinazionali e la passività atomizzata di una fetta ancora enorme di consumatori. Lo slogan ideale per chi magnifica il libero flusso dell’informazione senza uno sguardo critico potrebbe essere "libero lupo in libero ovile".

Da qui colgo anche il rimpianto di Chiesa, che ricorda ancora una volta che il progetto di un nuovo format televisivo,
Pandora, non si fa tuttora strada fra chi pure ne trarrebbe vantaggio.
Con il tempo la comprensione e la convergenza di spinte diverse verso un forte network sarebbe un esito naturale. Ma ora non viviamo in tempi normali. La strage di Gaza, il racconto che passa di essa, ne è il segnale evidente. Forze potenti sono in grado di far condensare la Grande Crisi in una Grande Guerra. Quel che normalmente sarebbe un percorso fatto di tappe intermedie, ora richiede accelerazioni.
Un format che tratta immagini e che non si limita a fare documentari, ma interviene in diretta e mostra ciò che il mainstream oggi tace: questo è lo scopo del “servizio” Pandora. Non so che possibilità abbiamo e di che tempi materialmente utilizzabili disponiamo affinché la galassia dei “non disinformati” inneschi un suo Big Bang creativo, ora che intanto che perde terreno nei confronti della propaganda bellica e della riorganizzazione dei grandi poteri di fronte alla crisi.

I tempi sono urgenti ma il problema è vecchio, se pensate a queste parole di Primo Levi: «Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col timore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola» (dal «Corriere della Sera», 8 maggio 1974).

Intanto avviamo almeno un percorso che infittisca lo scambio fra chi ha idee, risorse, reti, disponibilità. Non penserete mica che il dio della guerra si fermi a Gaza, e che il dio della propaganda si fermi al Tg1,tanto per farvi un piacere?