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Addio Belle Époque: qui comincia il declino della modernità

di Aurelio Lepre - 14/01/2009

     
 
Aurelio Lepre recensisce il saggio di Emilio Gentile intitolato La Grande guerra per l’uomo nuovo in cui viene esaminata l’atmosfera intellettuale europea che precedette lo scoppio della Prima guerra mondiale. Il libro di Gentile fa ricorso a scrittori e artisti per indagare la figura dell’“uomo nuovo” e il senso di una palingenesi sociale che anticipò la Grande guerra presso i ceti intellettuali del Vecchio continente.

«Sotto la nostra mano abbiamo visto la forza della natura asservirsi e disciplinarsi (...). La macchina è diventata la regina del mondo (...). Le distanze diminuiscono fino a scomparire». Con queste parole il ministro del Commercio francese Alexandre Millerand inaugurò nel 1890 l’Esposizione di Parigi, che sembrò segnare la definitiva affermazione della modernità e dell’idea di progresso, sul fondamento dello sviluppo economico, scientifico e tecnologico degli ultimi decenni dell’Ottocento. In nome dell’umanità, ma la Francia fece la parte del leone: la civiltà europea era, in realtà, una sommatoria di civiltà nazionali.
Venti anni più tardi nessun intellettuale europeo avrebbe sottoscritto quelle parole: alla fine del primo decennio del XX secolo la Belle Époque, che aveva celebrato il suo trionfo a Parigi, tramontava in un affollarsi di visioni apocalittiche, nel presagio di una devastante, imminente guerra totale. «Le riflessioni sulla catastrofe della civiltà europea e sul destino dell’uomo moderno erano state già quasi tutte anticipate negli anni precedenti la Grande guerra», cioè proprio nella Belle Époque, ricorda Emilio Gentile nel suo ultimo, importante, lavoro L’Apocalisse della modernità. La Grande guerra per l’uomo nuovo (Mondadori). La Belle Époque conteneva già in sé le profonde contraddizioni che sarebbero esplose nel 1914 e la
Grande guerra, prefigurata in pagine e pagine di scrittori e filosofi o rappresentata nei dipinti visionari di un Franz Marc o di un Ludwig Meidner, era il punto di approdo di un processo che aveva visto l’uomo moderno costruttore della maggiore civiltà che la storia avesse conosciuto fino a quel momento, ma anche distruttore di ciò che aveva costruito: un conflitto dunque tutto interno alla società europea e alla modernità.
Friedrich Nietzsche era stato il primo a sostenere che sarebbe stato possibile uscirne solo attraverso la nascita del Superuomo. Altri lo seguirono su questa strada e il sogno della costruzione di un Uomo nuovo fu il lascito più fecondo di sventure ereditato dalle generazioni successive alla Grande guerra. Non a caso l’opera di Gentile si chiude proprio con la bella immagine di Hermann Hesse dell’«uovo cosmico» da cui sarebbe nato, appunto, l’Uomo nuovo.
Grazie anche all’uso di ampie citazioni e con uno stile che definirei spesso mimetico, Gentile riesce a trasportare in pieno il lettore nell’atmosfera di quegli anni. Immergendolo nel «pessimismo storico» di chi vedeva la storia come un cimitero di civiltà o nell’ «ottimismo catastrofico» dei rivoluzionari che consideravano la catastrofe come una necessaria palingenesi, coerente con «l’archetipo biblico dove la fine del mondo era preludio all’avvento definitivo del regno di Dio».
Le condizioni di vita erano migliorate, almeno nei Paesi economicamente più avanzati. Si viveva meglio e più a lungo e cominciavano a essere partecipi di un relativo benessere anche coloro che fino a quel momento ne erano rimasti del tutto esclusi. Perché questo progredire pacifico della società europea fu considerato un male da tanti uomini di cultura? Per alcuni era il trionfo della noia. «La nostra malattia — scrisse nel 1911 un giovane poeta, Gustav Heym — è una noia senza fine (...). La guerra è scomparsa dal mondo e la pace eterna ne ha raccolto miseramente l’eredità». Per altri, come sostenne Thomas Mann anticipando Oswald Spengler, era il trionfo della «civilizzazione» di stampo illuministico e materialistico, incarnata dai nemici della Germania, sulla «civiltà» dello spirito, che nella Germania aveva trovato invece la sua massima interpretazione.
Non furono in pochi in quegli anni a credere che solo un grande conflitto avrebbe potuto avere una funzione rigeneratrice. Eppure la guerra russo-giapponese aveva già mostrato come, all’inizio del XX secolo, i progressi compiuti dalla scienza bellica e le nuove strategie adottate da quella militare potessero avere effetti terribili. E qualcuno, anche nel mondo della cultura, ne aveva preso coscienza. Ma l’attesa dell’Apocalisse purificatrice continuò. Fino ad accorgersi troppo tardi che i quattro cavalieri dell’Apocalisse, tanto frequentemente quanto avventatamente invocati, erano veramente arrivati. [...]