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Heidegger, il Tao, l'abbandono e il vuoto*

di Riccardo Franciolli - 24/02/2006

Fonte: vimax.com/ulisse/Heidegger


 

«Il grande sentiero non ha porte, 
  Migliaia di strade vi sboccano. 
  Quando si attraversa quella porta senza porta, 
  Si cammina liberamente tra cielo e terra» 
                                                 Mumon, La porta senza porta 
1  L’Abbandono
In opposizione all’ideologia dello scientismo moderno e ai suoi principi teorici, nella metà degli anni Trenta Heidegger inizia una riflessione radicale sul pensiero della tecnica. Anticipando, la tecnica diventerrà per Heidegger la traccia in cui si ci mostra la storia dell’essere e del suo oblio. 
Altri pensatori, negli stessi anni, hanno intrapreso la stessa via per irrompere nella complessità della "questione della tecnica". Nel 1931 Spengler pubblica L’uomo e la tecnica, nel 1932 Jünger L’Operaio. Nel 1936 con la Crisi delle scienze europee Husserl chiude la serie di pubblicazioni prima che il conflitto mondiale chiami il pensiero a riflettere su ulteriori problematiche legate alla tecnica, al rapporto uomo-natura-scienza. 
Nel 1938 Heidegger tiene una conferenza a Friborgo, pubblicata per la prima volta in Holzwege, dal titolo Die Zeit des Weltbildes. In questo saggio Heidegger debutta affermando ”La metafisica dà fondamento a un’epoca in quanto le offre la base della sua configurazione essenziale, attraverso una determinata interpretazione dell’ente e una determinata concezione della verità” . Una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno È la scienza moderna, quella che nei saggi successivi verrà ”semplicemente” chiamata Tecnica. Siamo dunque nell’epoca della tecnica. Sarà essa che darà una determinata interpretazione dell’ente e della verità. In questa sede non stiamo a percorrere l’analisi , come sempre lucida, cui Heidegger sottopone l’oggetto della sua indagine. Basti sapere che l’essenza della scienza moderna, attraverso progetto e rigore, procedimento e operazione, si qualifica come Ricerca. La scienza moderna diventa ricerca quando si ripone l’essere dell’ente in oggettività e si pensa alla verità come certezza del rappresentare. 
Nelle pagine successive, per molti versi affascinanti, Heidegger espone il suo pensiero in modo magistrale, riferendo a Cartesio l’origine del pensiero dell’ente come oggettività. In questo mutamento epocale del senso dell’essere dell’ente, anche l’essenza dell’uomo subisce inevitabilmente un radicale cambiamento: l’uomo si costituisce a soggetto. Cosi, il mondo moderno definisce la propria epocalità pensando l’essere dell’ente come essere-rappresentato dell’ente. Come scrive Heidegger: "Che l’ente sia fatto consistere nel suo essere rappresentato è cosa che dà un carattere di assoluta novità all’epoca in cui ciò avviene" . 
Questa situazione di dimenticanza e di oblio è oltrepassabile unicamente mediante il superamento di ciò che essa stessa ha fondato, mediante cioè l’oltrepassamento della Metafisica. Questo superamento si rende necessario in quanto la scienza moderna è entrata nella fase decisiva della sua storia. Esponendo la questione della tecnica in questo modo, Heidegger pone l’uomo di fronte ad essa come fosse innanzi a un baratro senza fondo che occorre necessariamente superare. 
Spengler nel suo L’uomo e la tecnica, si allontana dalle conclusioni heideggeriane, nonostante anch’egli giunga innanzi allo stesso pericolo: ”Oggi ci troviamo all’apice, là dove comincia il quinto atto. È l’ora delle decisioni ultime. La tragedia si conclude. Ogni civiltà superiore è una tragedia; la storia dell’uomo nel suo insieme è tragica” . Secondo Spengler nella tecnica si rappresenta il destino dell’uomo occidentale, e non possiamo in alcun modo sottrarci ad esso. Di più. L’uomo occidentale ha tradito la sua anima faustiana, mettendo in vendita la tecnica, egli ha venduto così facendo la propria anima: ciò che ci attende, nella voce lugubre spengleriana, è l’apocalisse. 
Questa democratizzazione della tecnica annulla le differenze. La civilizzazione planetaria possiede ovunque la stessa caratteristica. In essa non è più possibile nessuna grande filosofia, nessun grande pensiero. Di fronte a questi tragici eventi, a questo destino, c’è solo un atteggiamento possibile: portare il tutto alla sua fine, il più presto possibile. 
In Spengler dominano parole quali ”tragico”, ”eroico”, parole fondamentali per comprendere la questione della tecnica. Ma nell’analisi spengleriana, ciò che maggiormente ci interessa è l’aspetto del tradimento dell’uomo faustiano, dell’uomo occidentale che ha venduto la propria anima, rendendo la tecnica dominio mondiale su base planetaria. Anche Heidegger attraverso la sua disamina giunge a concludere che ”...la tecnica moderna domina ormai tutta la terra”. Manca però in Heidegger l’aspetto tragico presente nell’analisi spengleriana. È infatti interessante, oltre che affascinante, la visione di Spengler: questo nostro tradimento porta a un’unica conclusione possibile: l’apocalisse. 
Per Spengler ormai il ”dado è tratto”. Quest’epoca deve essere percorsa fino alla fine del suo tortuoso cammino. Non ci sono altre possibili soluzioni. Nessuna via d’uscita. ”Per ogni singolo, per ogni strato sociale e per ogni popolo, il pericolo è diventato talmente grande, che sarebbe un atto meschino mentire sullo stato delle cose. Il tempo non può essere arrestato: non esistono né una saggia inversione di marcia, né una giudiziosa rinuncia” . Tutto ciò che ci resta da fare è mantenere le nostre posizioni perdute, come ”quel soldato romano le cui ossa furono trovate davanti a una porta di Pompei, e che morì, poiché al momento dell’eruzione del Vesuvio ci si dimenticò di scioglierlo dalla sua consegna. Questa è grandezza, questo significa avere razza. Una fine onorevole è l’unica cosa che all’uomo non può essere tolta” . 
Sicuramente il più vicino al pensiero di Spengler per quanto riguarda la questione della tecnica è Heidegger. Ma in Heidegger manca completamente la visione apocalittica che contraddistingue il pensiero di Spengler. 
Dopo il saggio Die Zeit des Weltbildes nel quale abbozza una prima presa di posizione: “La scienza moderna sta entrando nello stadio decisivo della sua storia” , Heidegger nel 1953 presenta la relazione Die Frage nach der Technik. In questo saggio, la domanda circa la tecnica va oltre alla mera definizione strumentale, poiché essa non è in grado di cogliere l’essenza della tecnica stessa.
Con una mossa inaspettata, Heidegger cita il Simposio di Platone: “Ogni far-avvenire di ciò che -qualunque cosa sia- dalla non presenza passa e si avanza nella presenza è poiesis, pro-duzione” . 
Corroborando la tesi secondo la quale l’essenza della tecnica non è nulla di strumentale, egli aiutandosi con Platone scrive che “una produzione, poiesis non è solo la fabbricazione artigianale [...]. Anche la physis, il sorgere di per sé, è una produzione, è poiesis . La physis è anzi poiesis nel senso più alto” . 
La produzione in quanto tecnica porta alla luce, e si fonda in ciò che Heidegger chiama il disvelamento e ciò che i greci chiamavano aletheia, verità. 
A questo punto si fa pressante una domanda: l’essenza della tecnica cosa ha a che fare con il disvelamento, con la verità in quanto aletheia? Heidegger risponde in modo sibillineo: “Tutto. Giacché nel disvelamento si fonda ogni pro-duzione” . 
L’evento decisivo della tecnica sta dunque in questo disvelamento, cioè essa “dispiega il suo essere nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza, dove accade la verità” . 
Ma il disvelamento che governa la tecnica moderna non si dispiega in questo produrre (poiesis), bensì oggi vige un altro modo del disvelamento. Esso ha il carattere del richiedere (stellen) nel senso della pro-vocazione. Ma ciò che è tecnico, secondo le sue varie manifestazioni, è considerato come il piano che l’uomo progetta, un piano che alla fine costringe l’uomo a dover decidere se egli voglia diventare schiavo del suo stesso piano o se voglia invece restarne il signore. Con questa rappresentazione della tecnica si finisce per rafforzarsi nell’opinione comune che la tecnica sia qualcosa che riguarda soltanto l’uomo. Si trascura di dare ascolto all’appello dell’essere, appello che parla nell’essenza della tecnica. Chi compie il richiedere provocante non è dunque unicamente l’uomo, che attraverso la tecnica moderna immagazzina, trasforma l’energia nascosta portata allo scoperto proprio da questa provocazione. La tecnica non è un operare puramente umano. Egli risponde all’appello pro-vocante di ciò che noi chiamiamo GESTELL (l’imposizione). In questa imposizione che è la vera essenza della tecnica moderna, avviene il destino come disvelamento, in quanto l’imposizione è un “invio del destino come ogni modo di disvelamento” . 
Qui giace il vero pericolo, quando il destino domina i modi dell’imposizione. In questa imposizione si nasconde il modo di procedere del disvelamento in quanto produzione (poiesis). L’imposizione nasconde e cancella il disvelamento come tale. Questo fatto porta alla dimenticanza e all’oblio ciò che nella disvelatezza accade: la verità 
Non è dunque la tecnica a rappresentare il pericolo, contrariamente a quanto pensava Spengler, il quale scriveva nel Tramonto dell’Occidente: ”Grazie a questa tecnica l’esser desto può però intervenire nel mondo dei fatti; [...] viene il momento in cui la critica tecnica si stanca di servire la vita e si costituisce a despota di essa” . E l’essenza della tecnica il vero pericolo poichè essa in quanto imposizione nasconde la verità, non permette all’uomo di raccogliersi nel disvelamento più originario, nel luogo presso il quale la tecnica come poiesis permetteva invece di avvicinare. E l’appello stesso della verità come aletheia che qui va perso, dimenticato. 
La domanda circa la tecnica ci ha dunque portati in un luogo inaspettato: questo domandare ci porta a interrogarci circa la costellazione in cui accade ciò che costituisce l’essere della verità. 
 Qui avviene il netto distacco tra il pensiero di Spengler considerato in precedenza e la posizione heideggeriana. Infatti, citando Holderlin, Heidegger scrive che la dove c’è il pericolo là cresce anche ciò che salva. Esiste dunque la possibilità di una salvezza, possibilità esclusa a priori da Spengler, che della tecnica ha una visione apocalittica. Ma nel pericolo si mostra anche la possibilità di quella svolta in cui l’oblio dell’essenza dell’essere si rivolge. Questo oblio non viene semplicemente messo da parte, accantonato, bensì esso viene esperito come richiamo al fatto che l’oblio, il restar velati, appartengono allo svelamento. Ciò che salva non sta al di fuori della tecnica. Anzi, si radica nella sua essenza. L’uomo può giungere a questa salvezza unicamente se prende dimora nella sua essenza. Dunque la tecnica se esperita nella sua essenza ci porta essa stessa verso quella salvezza che preserva l’essere nella sua essenza. 
Nel saggio Die Frage nach der Technik la salvezza sta nell’arte, poiché essa portava il semplice nome di tèchne, ed essa di conseguenza “era un disvelamento producente e perciò faceva parte della poiesis. Questo nome fu da ultimo attribuito come specifico a quel disvelamento che governa ogni arte del bello, cioè la poesia, il poetico [...]. La poesia penetra ogni arte, ogni disvelamento di ciò che è, nella forma del bello” . 
Di nuovo ci troviamo confrontati con il pensiero aurorale greco, di nuovo si impone un ritorno, quel passo a ritroso arrischiante che solo può farci soggiornare, tramite quel salto del pensiero, là dove la verità si dà come aletheia, come svelatezza. 
Questo salto del pensiero è possibile e attuabile unicamente con un cambiamento del modo di pensare, anders denken così spesso chiamato in causa in queste pagine. Il pensiero meditante è ciò che ci permette di pensare diversamente. 
Sempre nel 1953 un altro scritto di Heidgger riflette su questi temi, si tratta di Wissenschaft und Besinnung. In questo saggio Heidegger cerca nel pensiero meditante la “salvezza”. Questo scritto funge da ponte ideale per giungere all’apice del pensiero heideggeriano circa la tecnica che sarà la breve ma fondamentale conferenza Die Gelassenheit. 
Infatti egli scrive in Wissenschaft und Besinnung che “la meditazione è il tranquillo abbandono a ciò che è degno di essere pensato” . E incamminarsi verso ciò che è degno di essere pensato non è un’ avventura ma un ritorno in patria. Questo significa che attraverso la meditazione noi perveniamo là dove già da tempo soggiorniamo, là dove nasce la salvezza, là dove l’esperienza dell’essere e della verità è ancora possibile. 
Anche in questo saggio viene ribadito che la tecnica è una conseguenza necessaria e che essa è sul punto di estendere conclusivamente la sua potenza su tutto il globo terrestre. 
Come detto, l’apice del pensiero di Heidegger circa la tecnica lo troviamo nel saggio del 1959 Die Gelassenheit . Questo saggio è ricco di spunti che ci permetteranno in seguito di costruire quel ponte che ci faciliterà il cammino verso oriente. Ma questo cammino ha bisogno innanzitutto che si segua passo per passo la riflessione heideggeriana. 
“L’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo di oggi” . Questo è reso possibile poiché l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero. Ciò nonostante ci resta quello che si chiama pensiero calcolante. Esso si distingue e si differenzia dal pensiero meditante. Entrambi sono necessari e giustificati. Ma quando noi diciamo che l’uomo è in fuga davanti al pensiero, si intende che egli sta sfuggendo dal pensiero meditante, poiché il pensiero meditante richiede uno sforzo, non è immediato. Ma siamo ancora disposti a meditare? Oggigiorno dimentichiamo di pensare, siamo tutti in balia della tecnica, succubi di essa e inermi. La tecnica si sviluppa e diventa sempre più veloce e non potrà più arrestarsi. Ma ciò che inquieta non è il fatto che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Ciò che inquieta è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Questo significa che il nostro pensiero meditante non è più in grado di confrontarsi in modo adeguato con ciò che emerge nella nostra epoca. 
Heidegger invita a contrapporre al pensiero calcolante che ovunque dilegua senza ostacoli, il pensiero meditante, al fine di non soccombere inermi a questo strapotere della tecnica. Ma sarebbe folle lanciarsi contro la tecnica a testa bassa. Noi infatti possiamo comportarci diversamente: non soccombere supinamente alla tecnica bensì fare uso dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo e dobbiamo renderci liberi, così da poter in ogni momento farne a meno. “Possiamo dir sì all’uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no” . Mediante questo sì e no il nostro rapporto con la tecnica diventa così semplice e sicuro. Si tratta ormai di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. 
Abbandono di fronte alle cose. 
Noi non sappiamo a cosa porterà il dominio della tecnica. Ma ciò che si mostra e si sottrae allo stesso tempo è ciò che chiamiamo il mistero. Il sì alla tecnica, o il modo in cui ci teniamo aperti al senso della tecnica lo chiamiamo l’apertura al mistero. L’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero si coappartengono. Questi due ambiti ci permettono di intravedere la possibilità di un nuovo modo di radicarsi dell’uomo al proprio terreno. 
Ma il pericolo persiste continuamente, che cioè il pensiero calcolante diventi presto l’unico pensiero. E perciò necessario tener desto l’essere stesso dell’uomo, è necessario tener desto il pensiero. Soltanto con l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura la mistero è possibile far fronte all’incedere inarrestabile del pensiero calcolante, dell’assenza del pensiero. Questo atteggiamento, l’abbandono e l’apertura accadono unicamente con il nostro consenso. Siamo noi che dobbiamo dire ad un tempo sì e no. 
Heidegger conclude scrivendo: “Se teniamo desto in noi l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero, potremo raggiungere quella via che conduce ad un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno” . Concludendo il saggio con i versi di Hebel: “Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliamo fiorire nell’etere e dare i loro frutti” , Heidegger ci invita a ripensare al nostro fondamento, cosa che noi abbiamo tentato sommariamente nel terzo capitolo. 
Scrivevamo che il saggio Die Gelassenheit offriva al nostro pensiero un ponte ideale per incamminarci verso oriente. Intraprendiamo dunque questa via, consci che “il grande sentiero non ha porte, migliaia di strade vi sboccano , quando si attraversa quella porta senza porta, si cammina liberamente tra cielo e terra” . Ma l’attraversamento della porta senza porta è ciò che di più gravoso e difficile può essere chiesto al pensiero. 
Chang Chung-yuan è uno dei pochi studiosi che ha visto in questo saggio heideggeriano un avvicinamento al pensiero orientale. Egli infatti ha tentato una comparazione tra il concetto di Abbandono con il rispettivo concetto orientale di wu wei passando attraverso il dire pensante di Chuang-tzu. Nella sua relazione The philosophy of taoism according to Chuang-tzu cita il passaggio di Heidegger da noi più volte menzionato: “Si tratterà infatti di lasciare entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbanonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un’antica parola:l’abbandono di fronte alle cose”. Questo abbandono richiama ciò che sta scritto nel capitolo 22 del Chuang-tzu: “Colui che ha particato intimamente il non-agire è tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come la melodia. [...] Ciò che fa si che le cose siano cose non è limitato dalle cose; tutte le cose hanno i loro limiti propri; è quel che si chiama il limite delle cose; [...] Ciò che si chiama la pienezza e il vuoto, la decadenza e la diminuizione; contenuto nella pienezza e nel vuoto, il Tao non è pienezza né vuoto; contenuto nella decadenza e nella diminuizione, il tao non è né decadenza né diminuizione” . 
Dire che noi ci sentiamo liberi da pienezza e vuoto, da crescita e decadimento, è lo stesso che dire che lasciamo entrare nella nostra vita la tecnica e nello stesso tempo la lasciamo fuori. Questo è propriamente dire no e allo stesso tempo sì. Questo propriamente significa abbandonarsi di fronte alle cose. E da ultimo, questo è anche l’insegnamento di Chuang-tzu che conduce gli uomini alla libertà di fronte alle cose. 
Chuang-tzu nel secondo capitolo distingue la conoscenza in due parti: la grande e la piccola. L’uomo dalla grande conoscenza è colui la cui mente è senza limiti. Egli è libero dal proprio ego e dalle cose. Quando ha a che fare con le cose egli è spontaneo, diretto e non attaccato alle cose. Questa tipologia di uomo è colei che ben rappresenta l’uomo che è spinto da un pensiero meditante, da colui cioè che sa abbandonarsi di fronte alle cose e aprirsi al mistero. L’uomo dalla piccola conoscenza, procede attraverso il pensiero calcolante, nel quale la dicotomia io-altro è chiaramente distinguibile, la barriera tra oggetto e soggetto è salda. L’insegnamento taoista è libero dalla dicotomia tra oggetto e soggetto. Se si dà una separazione tra conoscere e conoscente, non si dà l’intuizione. Queste sono le parole di Chuang-tzu: ”conoscere senza conoscere”. Questa certamente rappresenta una nuova via del pensiero, poiché essa differisce in modo sostanziale dalla conoscenza tradizionale. 
Kant scrive nella Critica della ragion pura: “In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisce a oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mia come mezzo, è l’intuizione. Ma questo ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci stia davanti” . Da queste parole risulta chiaro che affinché avvenga l’intuizione, deve esserci una relazione tra l’uomo che intuisce e l’oggetto intuito. 
Secondo la lezione di Chuang-tzu, questa dicotomia è considerata un impedimento per cogliere la realtà ultima. Realtà ultima, l’infinita intuizione che Kant attribuisce a Dio e non all’uomo. Nel pensiero orientale, l’infinita intuizione non è destinata a un Dio religioso. Essa sta dietro ad una esperienza teologica o metafisica. Essa è infatti immediata e diretta conoscenza interiore, quando la mente dell’uomo è risvegliata e aperta. 
La parola utilizzata da Heidegger per questa conoscenza interiore della mente aperta è la parola greca aletheia. In Tempo e Essere Heidegger scrive: “Il compito del pensiero sarà il pensiero antecedente alla determinazione della cosa del pensiero”. Per cogliere il significato proprio di aletheia egli scrive: “L’uomo assennato deve far esperienza del cuore che non trema della disvelatezza” . Ma questo cosa significa? Ancora Heidegger scrive che “la disvelatezza è per così dire l’elemento in cui solo si danno tanto l’essere che il pensiero, come la loro coappartenenza” . 
L’importanza di apertura e presenza e la coappartenenza di essere e pensare indicano che la dicotomia dell’intuizione svanisce nel momento assoluto. 
La realtà è identità di essere e non essere. Il significato di questa conoscenza può essere messa in relazione all’apertura e presenza della mente della nuova via del pensiero di Heidegger. 
Nel capitolo 27 abbiamo inoltre la classificazione di tre tipi di parole: la parola metafisica, la parola ortodossa, la parola perfetta. La parola perfetta è come il levar del sole e armonizza con la naturale identità delle cose. Questa è come “i fiori sbocciano in primavera e la neve cade in inverno”. Ci si può domandare come sia possibile raggiungere questa identità e riuscire ad esprimerla con parole perfette. Sempre nel capitolo 27 possiamo trovare la risposta di Chuang-tzu: “come dire si a una cosa? Si dice si a una cosa che è. Come dire no a una cosa? Si dice no a una cosa che non è [...]. Tutte le cose del mondo nascono da un germe che si trasforma incessantemente. Il loro principio e il loro fine sono come un circolo il cui ordine non ha termine. Questo ciclo dei principi e delle fini si chiama il tornio del cielo. Il tornio del cielo è la legge della natura”. 
Chuang-tzu dice che ogni parola è simbolo della totalità dell’universo, così questo insegnamento può essere compreso in quello che si chiama "dire come mostrare". Infatti Heidegger scrive in Unterwegs zur Sprache: “Il Dire originario è mostrare [...]. Il dire originario non è affatto l’espressione linguistica, aggiunta in un secondo momento, di ciò che appare: vero è piuttosto che ogni apparire e non apparire poggia sul mostrare del Dire originario...il Dire originario domina e compone in unità la libera distesa di quella radura luminosa” . Un poeta cinese scrisse: 
"The shadow of the bamboo sweeps on the stone steps. 
no dust is stirred. 
the light of the moon penetrates to the bottom of the chilly lake. 
no trace is left behind" . 
L’ombra del bamboo e la luce della luna non sono semplici concettualizzazioni, esse sono liberate in ciò che Heidegger chiama “dare presenza”. 
Quando essere e dire sono identici, è il raggiungimento del tao. Nell’espressione di Heidegger, questa identificazione si chiama Logos. Il poema sopra citato rivela simultaneamente essere e dire. Le parole Tao e Logos sono contenute nelle parole perfette di Chuang-tzu. Le parole perfette sono le parole libere da parole. Così quando uno parla libero da parole egli parla tutto il tempo di parole senza pronunciare parola. 
Nel poema il linguaggio diventa così la casa dell’essere. Queste parole rivelano l’esperienza poetica, e come Heidegger afferma, poetare è pensare. Nel taoismo abbiamo visto che attraverso l’autoidentità della contraddizione, il pensiero rappresentativo, tipico della metafisica, si trasforma in un pensiero essenziale. Questa trasformazione del pensiero è chiamato da Chuang-tzu, illuminazione. Heidegger parla invece del Dire originario come ciò che domina e compone in unità la libera distesa di quella radura luminosa. 
Ma dove siamo andati a parare con la questione della tecnica? Siamo giunti a concludere che il linguaggio è la casa dell’essere. Ma questo già lo sapevamo. Heidegger però vede nella predominanza del pensiero calcolante l’imminente annichilimento del non-dicibile. Il pensiero calcolante distrugge l’abitare poetico che rende incapace l’uomo di vivere su questo mondo. 
Ma torniamo nei pressi del nostro problema. L’essenza del pensiero taoista, secondo quanto scrive G. Parkes, consiste nell’insegnamento: sii naturale. Infatti affinché l’essere dell’uomo sia in armonia con il Tao, egli deve essere in armonia con il Tao naturale. Di conseguenza l’appropriata attitudine verso le cose consiste proprio nel wu wei (non-agire). 
Uno dei passaggi più illuminanti lo troviamo in Lao-tzu. Nel capitolo 43 egli scrive: “Così io so che il Non-agire ha il sopravvento. insegnare senza parole a trarre profitto dal Non-agire, pochi nel mondo vi riescono! Perciò il Santo si attiene alla pratica del Non-agire e professa un insegnamento senza parole”. Nel capitolo 47, Lao-tzu scrive: “Senza uscire dalla porta, conoscere il mondo! Senza guardare dalla finestra, vedere la Via del cielo! Più lontano si va, meno si conosce. Perciò il Santo conosce senza viaggiare; egli nomina senza vedere; egli compie senza azione”. 
La vera conoscenza si acquisisce così, con il Non-agire. Questo atteggiamento è vicino all’abbandono heideggeriano poichè entrambi, nonostante le parole Abbandono e non-agire ci invitino quasi a pensare a una passività del pensiero, non sono affatto accadimenti casuali. Entrambi scaturiscono soltanto da un pensiero incessante e appassionato. Per questo motivo Lao-tzu sottolinea che questo atteggiamento è soltanto del Santo, poiché richiede quello che Heidegger chiama il pensiero meditante. 
Nell’opera di Lao-tzu possimo trovare innumerevoli cenni a questo riguardo. Il non-agire è la qualità essenziale del santo. Questo è l’unico atteggiamento corretto di fronte alle cose affinché gli sia concessa la conoscenza, o meglio di essere in armonia con il Tao. 
Per concludere questo paragrafo, abbiamo visto come la distinzione soggetto/oggetto è perpetuata dalla concezione rappresentativa del mondo, concezione nella quale tanto l’oggetto che il soggetto, in quanto sono pensati come essenti, rendono impossibile ogni accesso all’essere. Infatti il cogito pensa le cose rappresentandole. La tecnica, come una delle manifestazioni essenziali del mondo moderno, è essa stessa l’età finale della metafisica, in quanto età dell’oblio perfetto dell’essere. L’ambiguità del modo della tecnica, come fa notare il curatore dell’edizione italiana dell’Abbandono, rimanda a quella coappartenenza di disvelamento e velamento che contraddistingue l’essenza della verità e che Heidegger in questo saggio chiama Geheimis. Ma gia in Vorträge und Aufsätze egli scrive: ”L’essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama la Geheimis di ogni svelamento, cioè della verità” . 
La tecnica moderna, come ultima manifestazione della metafisica tende ad occultare nella sua unilateralità la verità delle cose. Il pensiero calcolante che deriva dalla tecnica moderna, tende ad occultare il pensiero meditante e il pericolo a cui andiamo incontro è proprio la mancanza stessa del pensiero. Inoltre l’unilateralità di questo pensiero ci fa perdere propriamente quel Geheimnis, ossia il rapporto autentico con le cose. Perciò l’uomo è chiamato al compito di salvaguardare il rapporto che abbiamo con le cose, cioè egli deve aprirsi al mistero. Solo così facendo noi possiamo soggiornare nel mondo “senza pericolo all’interno del mondo della tecnica” . 
L’apertura al mistero che “si configura quindi come il rapporto pensante dell’uomo a quell’originario gioco dell’essere che non dipende dall’uomo, che è ohne Warum“ . 
Anche questo paragrafo si conclude con la richiesta di un nuovo inizio. Sembra che la riflessione sul pensiero di Heidegger porti continuamente a questa incessante richiesta: un nuovo inizio del pensiero che sappia farci soggiornare là dove da tempo siamo , ma di cui ancora non siamo coscienti. Un ritorno che ci conduce a un nuovo fondamento, ad un nuovo terreno: “Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliamo fiorire dell’etere e dare i loro frutti” . 
Ancora la domanda se oriente e occidente siano sulla stessa via dell’esperienza dell’essere resta senza risposta, o meglio essa risulta essere una domanda mal posta, poiché ovviamente le due tradizioni di pensiero hanno un’esperienza dell’essere diversa. La domanda deve piuttosto diventare se queste due tradizioni di pensiero siano invece in cammino verso la stessa comprensione dell’essere e della verità. Infatti la tecnica divenuta ormai planetaria ha in un certo modo unito il mondo intero. Se molti studiosi giapponesi e cinesi continuamente si rivolgono al pensiero occidentale, questo è dovuto al fatto che con l’invasione della tecnica occidentale essi si sono trovati improvvisamente senza “fondamento”. Essi si sono dovuti quindi rivolgere verso quel pensiero che ha reso possibile la tecnica, cioé verso il pensiero occidentale, e in particolare verso Heidegger che meglio di altri ha saputo comprendere l’epoca moderna. 
Non si tratta quindi di capire se la nostra tradizione abiti nelle vicinanze del pensiero orientale, o viceversa. Si tratta piuttosto di capire se il mondo sia o no pronto a coinvolgere, come lo ha fatto la tecnica, tutto il pianeta in una cultura mondiale, dove come si augurava Nishida, ogni tradizione di pensiero pensi al proprio fondamento e dove questa riflessione si confronti con le altre tradizioni e apporti la sua esperienza al fine di costruire una cultura mondiale. Probabilmente il pensiero calcolante ha preceduto il pensiero meditante, anzi, lo ha totalmente cancellato, non permettendo così che il mondo intero lo potesse seguire senza dover cadere nell’oblio. 
Si fa allora pressante la domanda se noi tutti siamo o no sulla stessa Via. Non dobbiamo permettere che il pensiero calcolante prenda definitivamente sopravvento. Il problema non consiste assolutamente nel rinnegare la tecnica; questo sarebbe un atteggiamento ingenuo e inutile. Il problema consiste invece nel fatto che questo pensiero calcolante diventi l’unico pensiero, ossia che noi tutti dimentichiamo di pensare. 
L’atteggiamento verso le cose, la Gelassenheit, il wu wei, sono le risposte di Heidegger e del taoismo. La Gelassenheit deve riportare il pensiero verso un pensiero meditante, verso un corretto rapporto con le cose, senza lasciarci sopraffare. Il wu wei è l’atteggiamento di sempre dei saggi orientali per non perdere il giusto contatto con le cose e l’armonia con il Tao naturale. 
Un corretto rapporto con le cose, senza che la tecnica ci cancelli, lo si può ottenere con il radicamento del pensiero alle proprie origini. Come poeta Hölderlin, dove cresce il pericolo, là cresce anche ciò che salva. Altrimenti saremo sempre stranieri su questa terra e saremo costretti, come scrive Rilke, a dir sempre addio. 

2  Physis - Tao
Il cammino verso una stessa comprensione e la stessa esperienza dell’essere, passa probabilmente anche attraverso altre vie. Se, come abbiamo visto, la Gelassenheit si avvicina in modo sorprendente al wu wei taoista, vi sono altri luoghi in cui i due pensieri trovano punti d’incontro. 
Come più volte accennato, non cerchiamo qui una identità tra i due pensieri. Piuttosto preferiamo pensare a questi punti d’incontro come ad un’armonia prestabilita. Niente di più. Abbiamo abbandonato strada facendo, la presunzione di voler in un qualche modo cercare attraverso un’attività comparativa, l’influsso del pensiero orientale sull’opera di Martin Heidegger. Infatti la presenza di punti d’incontro non può portare all’affrettata conclusione che Heidegger, visto il suo grande interesse per il pensiero orientale, sia stato influenzato decisivamente da esso. La presenza di tematiche comuni indicano, a mio modo di vedere, la necessità del pensiero di cercare la verità, di soggiornare presso la verità. Più il pensiero si fa essenziale, più esso si avvia verso quelle contrade che lo portano nei pressi di quella radura luminosa, dove solo la verità nel suo velamento si mostra. Se dunque il pensiero di Heidegger e il pensiero orientale hanno punti d’incontro, questo indica che entrambi i pensieri sono sulla via della comprensione autentica dell’essere e della verità. Ma, come osserva Lao-tzu, ”La via veramente via, non è una via costante” . Questo perdersi del pensiero lungo “sentieri interrotti” non fa altro che rafforzare la convinzione che stiamo sulla stessa via, quella che continuamente avanza nell’interrogare. Questa solo è l’essenza del pensiero, la sua natura interrogante, che consiste per Heidegger in un procedere a ritroso, in quello Schritt zur¸ck che è l’approccio essenziale per affrontare l’anders denken. Passo a ritroso del pensiero che solo può permettere l’incontro tra occidente e oriente, come osserva Chang Chung-yuan. 
Volgiamo dunque il nostro sguardo verso ciò che la nostra riflessione ancora chiama. Continuiamo lo studio comparativo interessandoci di altri topoi centrali di queste due tradizioni di pensiero. Cercheremo allora, come primo passo, di volgerci verso una delle parole fondamentali a cui Heidegger fa spesso riferimento: la Physis. 
Per avvicinarci alla physis nella usa verità, cioè come suggerisce Heidegger, pensata grecamente, prenderemo in considerazione due frammenti di Eraclito, il frammento 16 e il frammento 123, discussi da Heidegger stesso nel corso universitario del semestre estivo del 1943 e pubblicato nel 1953 in Saggi e Discorsi con il titolo Aletheia. 
Il frammento 16 dice: “Come può uno nascondersi davanti a quello che mai tramonta” . 
Seguendo l’interpretazione heideggeriana , è subito chiaro di cosa parli la sentenza: di quello che mai tramonta. Restando fedeli a tale interpretazione e aderendo all’invito di Heidegger di rovesciare la forma negativa della frase in quella affermativa corrispondente, udiamo finalmente ciò che la sentenza designa come “quello che mai tramonta” e cioé quello che costantemente sorge, emerge (aufgehen). Eraclito parlerebbe dunque della physis. E dunque la physis che senza essere nominata è l’oggetto della sentenza . E lei che si trova determinata, negativamente, come ciò che non entra mai nell’occultamento. Siamo ora in possesso di una prima determinazione della physis: physis come Aufgehung, cioË come sorgenza, il sempre perdurare disvelamento e si definisce di conseguenza in opposizione dell’occultamento. 
Ma l’espressione “il pur tuttavia mai tramontare” significa, come spiega Heidegger , sia disvelamento che nascondimento. 
Ora, non avevamo appena detto che physis significa il sempre perdurante disvelamento? Certo. Possiamo ora identificare con physis sia il disvelamento che il nascondimento? Certamente, ma a condizione che si ripensi la physis e le si aggiunga una seconda determinazione che mostri che physis non è solo e unicamente un puro emergere. La necessità di un tale ripensamento e dunque di una seconda determinazione ci giunge inoltre da un altro frammento di Eraclito, il 123. Il frammento dice: 
«La physis ama nascondersi» . 
Se come abbiamo interpretato prima, physis significa non entrare mai nel nascondimento, ci troviamo ora di fronte ad una contraddizione. Infatti qui si dice che la physis ama nascondersi. 
Come fa notare Marlène Zarader , c’è un modo per sfuggire a tale contraddizione, cioè stabilire tra i due tarmini, non-nascondimento e occultamento, un rapporto di successione temporale. La physis è si un emergere, ma a volte, per cambiare, essa avrebbe una predisposizione a rovesciare nel suo contrario. 
Occorre mantenere le due determinazioni della physis e cercare di pensarle insieme. Infatti la physis pensata come scoprimento presuppone necessariamente il coprimento. Essa non può essere disvelamento se non sorge costantemente dal velamento. Heidegger stesso scrive che “il sorgere è come tale già sempre incline al chiudersi” . In questo modo i due termini antitetici hanno una reciproca inclinazione: “essi sono lo stesso” . In questa inclinazione in cui il sorgere e il nascondersi si chinano l’uno verso l’altro risiede la pienezza della physis . 
Risuona in queste determinazioni della physis la parola-guida Zusammengehören che quasi quindici anni dopo Heidegger utilizzerà nel saggio Identität und Differenz, proprio per mostrare questo reciproco appartenersi. Disvelamento e Nascondimento non sono dunque pensati come due avvenimenti distinti e semplicemente giustapposti, bensì come una sola e medesima cosa, tenendo comunque sempre presente la loro irriducibile differenza. 
Lasciamoci quindi guidare da questo Zusammengehören e cerchiamo di pensare alla contrapposizione di Terra e Mondo, citati per la prima volta nel saggio del 1935, L’origine dell’opera d’arte. 
Quello che Heidegger intende con terra e mondo non è di facile comprensione, e probabilmente il significato resterà sempre un poco oscuro. (Inoltre questa contrapposizione non sarà mai più citata da Heidegger). Il mio proposito è ora quello di discutere e riflettere la relazione-opposizione che intercorre tra yin e yang per illuminare, se mai possibile almeno un aspetto dell’idea filosofica heideggeriana di terra e mondo. Sarà infatti la dynamis di terra/mondo e mondo/terra a richiamare la nostra attenzione, dynamis che può essere di più facile comprensione già alla luce della doppia determinazione della physis che poc’anzi ho cercato di illustrare, tralasciando i complessi problemi relativi alla riflessione heideggeriana sull’opera d’arte come messa in opera della verità e del suo storicizzarsi. 
Terra, sostiene Heidegger, corrisponde a ciò che i greci chiamavano physis. La physis “illumina ad un tempo ciò su cui e ciò in cui l’uomo fonda il suo abitare. Noi la chiamiamo terra” . In ciò che sorge è-presente la terra come nascondente proteggente. Su di essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo. Ma cos’è il mondo? Il mondo di cui qui si tratta non è il mero emergere di tutte le cose. Non è “neppure un possibile oggetto che ci stia innanzi e che possa essere intuito” . Esso è il luogo dove cadono le decisioni essenziali della nostra storia. Da ciò si può pensare che il mondo non sia già aperto, ma che invece si apra a partire da un fondo, la terra, che resta costantemente chiuso. Nel prosieguo della sua riflessione, Heidegger ci fa notare che mondo e terra sono essenzialmente diversi l’uno dall’altro e tuttavia mai separati. Cioè il mondo si fonda sulla terra e la terra sorge attraverso il mondo. Mai il mondo dunque potrebbe aprirsi se non a partire dal richiudersi in sé della terra. La relazione terra e mondo non si esaurisce nella vuota contrapposizione di elementi distinti, poiché riposando sulla terra il mondo aspira a dominarla. In quanto autoaprentesi non sopporta nulla di chiuso. Da parte sua la terra in quanto coprente-custodente tende ad assorbire e a risolvere in sé il mondo. Sempre il mondo tenterà di imporre la sua legge alla terra, cercando di svelarne il volto nascosto, ma sempre la terra si chiuderà in sé e si negherà al mondo e ad ogni indiscrezione calcolatrice. Questo continuo contrapporsi di mondo e terra è una vera lotta “nella quale i lottanti -l’un l’altro- si elevano all’autoaffermazione della propria essenza” . Nella lotta ognuno porta l’altro al di sopra di ciò che esso è. Mondo e terra sono sempre in contrapposizione e in conflitto, poiché solo come tali prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. Ma sarebbe sbagliato pensare che il mondo sia solo l’aperto corrispondente all’illuminazione e la terra solo chiuso corrispondente al nascondimento. Nella lotta infatti viene conquistato lo Zusammengehören, l’unità di terra e mondo, o come afferma Heidegger: “poiché la lotta giunge al culmine nella semplicità di ciò che è intimo, per questo nel corso della lotta, ha luogo l’unità dell’opera” . 
Visto il retroterra culturale e filosofico di Heidegger, è molto probabile che le radici dell’idea di terra e mondo siano da ritrovare nel pensiero dei presocratici, nel mito greco e nella poesia di Hoelderlin. Ma considerato il fatto che Heidegger era anche un grande conoscitore della tradizione orientale, possiamo ritenere che egli conoscesse la traduzione tedesca del Libro dei mutamenti curata da R. Wilhelm, uscita in tedesco nel 1924. In questa pubblicazione troviamo un’idea molto simile. Infatti terra e mondo sono incredibilmente vicini alle forze primordiali rappresentate dai trigrammi yin e yang, che sono rispettivamente “k’un” il ricettivo associato all’oscurità della terrra, "ch’ien" il creativo associato all’apertura del cielo. 
Terra dunque come yin, l’assidua infaticabile non costretta, la coprente custodente che destina al fallimento ogni tentativo di penetrare in essa. Yin, come afferma Wilhelm, significa originariamente il nuvoloso, l’oscuro. In contrasto Heidegger parla di apertura del mondo. Mondo come yang, l’autoaprentesi apertura. Yang che significa originariamente ‘vessillo che sventola al sole’, dunque cose illuminate e chiare. Come per terra e mondo anche tra yin e yang si instaura quella lotta che per Eraclito è “padre di tutte le cose, di tutte è re” . La lotta qui considerata è un conflitto originario in quanto anzitutto origina i combattenti come tali. La lotta cioè delinea ciò che non è stato fino allora né detto né pensato. Questa lotta che porta al continuo rovesciamento, non è priva di senso, in quanto è soggetta alla legge che tutto permea, cioè la Tao. Infatti si può leggere nel cap.26 del Tao-te-ching: “Allontanarsi significa tornare, cioè la Via torna al proprio contrario”. E ancora nel cap.40: “Il ritornare è il movimento della Via”, e ancora più esplicitamente nel cap.42: “I diecimila esseri si scostano dall’elemento yin ed abbracciano l’elemento yang” . In tutte queste citazioni si può leggere chiaramente che tutte le cose volgono le spalle all’oscurità (yin) e cercano la luce (yang). Eppure sia l’una che l’altra sono essenziali per uno sviluppo armonioso. Conflitto che non è altro che una forma specifica di relazione, di connessione. Anzi è proprio la tensione che caratterizza il conflitto a produrre l’armonia. Come dice Eraclito nel frammento 8: “Ciò che è opposto concorda e dai discordi l’armonia più bella”. La connessioene dialettica che produce quest’armonia è il modo fondamentale con cui la physis si dispiega e produce eventi e cose. Analogamente il nesso yin e yang non è uno dei tanti rapporti tra opposti, ma è il prototipo di ogni rapporto oppositivo che non dimentica mai la propria Zusammengehörigkeit. Infatti il conflitto che Heidegger chiama Streit è da lui inteso come Riss , tratto che non spalanca un baratro, ma è piuttosto un convenire reciproco dei lottanti. Tale tratto at-trae i contendenti, come dice Heidegger, verso l’origine della loro unità. Questo tratto non permette altresì che gli opposti si dilacerino, ma inserisce la contrapposizione in un unico contorno (Umriss). Riss che può allora essere pensato come linea tra yin e yang nel simbolo del Tai chi, e il contorno, cioé l’Umriss può essere pensato come quel tratto, contorno, perimetro che circondando lega. Umriss che solo permette all’interno di sé che si attui costantemente e continuamente quel conflitto senza però che mai si debba aprire un baratro incolmabile tra i lottanti. Questa lotta primordiale della Verità tra rivelazione e nascondimento, corrisponde al Tao inteso come unità (che sta dietro) di yin e yang? E noto che yin e yang non designano due principi statici o due termini contrari di un’opposizione fissa, ma al contrario due modi complementari della stessa realtà. Infatti essi designavano in origine rispettivamente la parte all’ombra e la parte al sole di una montagna. Niente di meglio di questa esemplificazione mostra che la complementarietà tra i contrari non è distinguibile dall’oggetto a cui si riferisce: il lato all’ombra e il lato al sole sono inseparabili non solo tra loro, poiché appartengono alla stessa montagna, ma alla montagna stessa. Quindi yin e yang non sono derivazionre del Tao, ma suoi costitutivi modi di essere. A rigore, come giustamente afferma Pasqualotto, si dovrebbe dire “suo costitutivo modo d’essere” dato che il Tao non si dà mai soltanto nella forma yin o soltanto in quella yang, ma sempre in un nesso di polarità reciproco di yin e yang. Non è difficile capire che la prevalenza di uno non significa mai la soppressione dell’altro. Così anche nella polarità terra e mondo. Heidegger scrive che: “l’opera in quanto opera espone un mondo, ma l’esposizione di un mondo è solo uno dei due caratteri fondamentali di quell’essere opera dell’opera” , e più in avanti prosegue: “ciò in cui l’opera si ritira e ciò che in questo ritirarsi essa lascia emergere, lo chiamiamo terra” . Ciò che si fa presente in questa lotta di illuminazione e nascondimento è la loro irriducibile differenza, sempre pensata a partire dal loro reciproco appartenersi. Come afferma Caterina Resta: “Ridurre il mondo a immagine significa ignorare il sottrarsi della terra. Per l’epoca dell’immagine del mondo non vi è altro che perfetta visibilità che il mondo ridotto a immagine, mostra. La terra sparisce dimenticata e il mondo è perfettamente calcolabile. Così terra e mondo sono riducibili l’uno nell’altro, perfettamente indifferenziati” . Attorno allo stesso tema Chuang-tzu afferma: “Lo squilibrio tra yin e yang, o l’oblio di uno dei due contendenti porta alla rottura dell’armonia dell’universo: per questo il tuono rimbomba e il fulmine scoppia” . 
Quando si dà la preferenza ad un solo aspetto non ascoltiamo affatto il richiamo dello Zusammengehören. In questo caso particolare, dimentichiamo che il mondo chiama e re-clama la terra e viceversa. 
Concludo questo paragrafo con una sentenza di Eraclito che in un qualche modo giustifichi l’armonia che ho cercato di evidenziare: 
«Più potente è l’armonia nascosta di quella che appare» . 

3  Weg - Sage - Ereignis
Continuando la nostra attività comparativa, prendiamo in considerazione in modo particolare due testi della produzione tarda di Heidegger, Das Wesen der Sprache e Der Weg der Sprache. Ambedue i testi appartengono alla raccolta Unterwegs zur Sprache, raccolta nella quale Heidegger si sofferma con particolare attenzione sul pensiero orientale. 
In questi saggi Heidegger considera con attenzione un altro topos del suo pensiero: Die Sage, il Dire originario che funge anch’esso da parola-guida della sua tarda riflessione giunta alle soglie della sua definitiva, seppur sempre incompiuta, formulazione. 
Heidegger osserva: “Nel linguaggio in quanto Dire originario è presente e operosa qualcosa cui si conviene il nome via” . In seguito continua scrivendo: “In questa via intrinseca al linguaggio, si cela il momento distintivo fondamentale del linguaggio” . Ma il momento fondamentale di questa riflessione si cela invece nel saggio scritto due anni prima, Das Wesen der Sprache, in cui vi si può leggere: “Nella parola Tao si nasconde il mistero di tutti i misteri del Dire filosofico se -posto che ne siamo capaci- lasciamo riaffondare queste parole in ciò che resta in esse il non detto” . Qui Heidegger parla del segreto di tutti i segreti del dire filosofico e conclude affermando che “tutto è via” . 
Da una prima comprensione del dire heideggeriano cogliamo la co-appartenenza del Dire originario (che Heidegger definirà in altri luoghi ciò che è massimamente degno di essere pensato) con la Via. In questa co-appartenenza un altro topos gioca un ruolo decisivo: l’Ereignis. Abbiamo poc’anzi scritto che la via è il Dire originario o, che è lo stesso, il Dire originario è la via (tao). Ma in altri luoghi di questo stesso libro Heidegger scrive: “L’Ereignis [...] fa che il Dire originario giunga la parola” . Inoltre: “L’Ereignis è l’evento che fa seguire la via, che è la via: la via che conduce il Dire originario alla parola” . Sempre per rimanere in questa triplice co-appartenenza, Heidegger sentenzia: “Perciò il linguaggio parla sempre conformemente al modo con cui l’Ereignis si disvela o ritorna” . 
Ritorna in questa osservazione una caratteristica, una peculiarità del dire heideggeriano che già da tempo si fa a noi presente: lo svelarsi e il ritrarsi, cioè la disvelatezza e la velatezza, tratto fondamentale della Physis, dell’Aletheia, dell’essere e della verità. 
Infatti Heidegger aggiunge poco più avanti: “Questa natura è la Physis, che poggia su quell’Eriegnis dal quale il Dire originario si leva per imprimere il suo moto” . Per concludere la riflessione avviata dieci anni prima con La lettera sull’umanismo il filosofo tedesco sottolinea: “Dimora dell’essere è il linguaggio, poiché il linguaggio, come Dire originario è il ‘modo’ dell’Ereignis”. 
Ora, per riflettere sul linguaggio per ri-dire occorre un MUTAMENTO del linguaggio. Il mutamento del linguaggio non riguarda il linguaggio di per sé. Non è certo inventando nuove parole che possiamo ottenere un simile mutamento. Un mutamento avviene nel momento in cui cambia il rapporto che noi intratteniamo con l’essenza del linguaggio. Siccome però “l’Ereignis è il rapporto di tutti i rapporti” , il nostro rapporto con l’essenza del linguaggio si determina in base al modo con cui noi apparteniamo all’Ereignis. Heidegger aggiunge che è possibile il mutamento del linguaggio poiché “ogni meditante pensare è un poetare, ogni poetare è pensare” . 
E importante e decisiva questa apertura verso il dire poetico. Infatti anche il colloquio tra Heidegger e Tezuka si conclude con questa stessa apertura verso la poesia e il dire poetico. Sembra che proprio in questa apertura consista la soluzione “aperta” di Heidegger. Solo in questo Dire originario, che è poetare, “il linguaggio chiama e aduna e, "Aperto all’Aperto", fa si che nelle cose si manifesti il mondo” . 
In questa mia riflessione, partendo dal Dire originario, passando attraverso la via (Weg), sono giunto alla parola-guida fondamentale del pensiero tardo di Heidegger: l’Ereignis. Ma muovendoci lungo questo percorso abbiamo citato anche la parola cinese Tao. Questa parola cinese non conosce probabilmente una traduzione univoca. Essa può essere tradotta in più maniere senza per altro giungere a una traduzione o definizione precisa e definitiva. 
Heidegger fa dunque ricorso a tre parole chiavi: Weg - Sage - Ereignis. Ma la “conquista” ultima del pensiero heideggeriano è propriamente l’Ereignis. Quest’ultima, da quanto abbiamo scritto poc’anzi, sembra abbracciare sia Weg che Sage. Questo non ci deve stupire. In Tempo e Essere, Heidegger fa notare: “Allora l’essere sarebbe un modo dell’Ereignis e non l’Ereignis un modo dell’essere” . Questa osservazione è un passo ulteriore nel cammino di Heidegger (forse l’ultimo). Con l’Ereignis egli giunge alle ultime conquiste del suo pensiero, o, per mantenerci nelle sue metafore, l’Ereignis è una delle ultime conquiste del suo pensiero che si è sviluppato lungo il cammino che lo ha visto unterwegs per oltre cinquant’anni. Cammino che lo ha visto giungere, ma il forse qui è d’obbligo, in quella Lichtung, nel “luogo della silente ferma calma”  dove da sempre il suo meditare lo voleva condurre. 
Ma se davvero l’Ereignis abbraccia tutto, assume un altro significato l’affermazione secondo cui l’Ereignis “è altrettanto difficle da tradurre quanto la parola graca Logos e la cinese Tao” . 
Infatti la parola-guida del dire pensante taoista è Tao. Essa racchiude in sé il significato della realtà ultima, sebbene essa sia indicibile. Nella versione del Tao-te-ching curata da J.J.L. Duivendak, la parola Tao viene sempre tradotta con “Via”, sebbene il significato di Via nell’antica opera del grande maestro taoista Lao-tzu, sia inesauribile da pensarsi. Nella versione curata da Etiemble in francese, la parola Tao non viene tradotta, proprio perché il Tao indicibile e innominabile, sebbene il taoismo non si allontani dal linguaggio (infatti affermare che il tao in quanto realtà ultima è indicibile, è già un parlare). 
Questa indicibilità e innominabilità fanno si che la parola Tao possa abbracciare più significati senza mai esaurirsi in uno particolare. 
Da questo nostro punto di vista parziale, Tao e Ereignis svolgono nei rispettivi pensieri lo stesso importantissimo ruolo di parola guida. Alla luce di questa vicinanza di Tao e Ereignis, fa riflettere l’osservazione di Heidegger: “Mit dem Ereignis wird ueberhaupt nicht mehr griechisch gedacht” . Inoltre qualche riga prima Heidegger osserva: “Non si riuscirà a pensare l’Ereignis con i concetti di essere e di storia dell’essere; tanto meno con l’aiuto del greco (si tratta precisamente di andare oltre)” . 
Questa affermazione di Heidegger datata 1969 non può non turbarci. Con la sua ultima fatica concettuale sembra che egli voglia indicarci una nuova via per il pensiero che non debba per forza indugiare al proprio fondamento, che rimane comunque “greco”. L’Ereignis diventa allora un concetto che fa già parte della nuova svolta del pensiero, quello non-metafisico. Con l’Ereignis Heidegger sarebbe così riuscito ad oltrepassare la metafisica, indicando a tutti noi la via da intraprendere. Sembra di udire il domandare poetico di Montale: “Il varco è qui?” , e la risposta affermativa di Heidegger. 
Proprio per questo motivo la parola Ereignis è intraducibile e difficile da comprendere. Essa necessita di un pensiero e di un pensare diverso per essere colta nella sua essenza. 
Se dunque attraverso questa parola non si pensa più grecamente, l’insinuazione della parola Tao si fa ora maggiormente interessante. 
Tao:Ereignis: lo stesso? Certamente no. Ma la vicinanza di queste due parole fondamentali deve farci riflettere. Interrogarci su questa vicinanza, che può essere pensata conme Nahheit, ci mette in cammino verso la localizzazione di quel luogo, che se esiste davvero, potrà fungere da ponte per avvicinare e collegare Occidente e Oriente. Ma questo luogo, nonostante la tecnica abbia drammaticamente imposto un suo dominio su tutto il mondo, è ancora tutto da esplorare. La “comparazione” probabilmente è già una prima “comprensione”, essa è un passo ulteriore verso quella direzione che porta alla localizzazionze di quel luogo. Questa localizzazione è ancora tutta da pensarsi ma, secondo la conclusione del saggio Identità e Differenza: “Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è già stato pensato, ci troviamo ad essere volti al servizio di ciò che ancora da pensare” . 

4  Vuoto
Consideriamo ora un altro topos, il vuoto. Visto la vastità del tema, che potrebbe portare la nostra riflessione allo smarrimento, consideriamo unicamente un caso particolare: il capitolo 11 del Tao-te-ching e la relazione heideggeriana La cosa. 
Il saggio di Heidegger esordisce con un interrogativo non nuovo per Heidegger: “Che cos’è una cosa?” . Curiosamente Heidegger per spiegare cosa una cosa sia, prende in esame una “cosa” tra tante: la brocca. La brocca permette ad Heidegger di interrogarsi, in un procedimento a lui caro, sulla cosalità della cosa. In questo caso particolare, la cosalità della brocca consiste nel fatto che essa è come recipiente. Ma quando noi riempiamo la brocca, il fluido fluisce nella brocca vuota. “Il vuoto, questo nulla della brocca, è ciò che la brocca è come recipiente che contiene” . 
Si fa avanti in queste righe che la cosalità della brocca “non consiste affatto nel materiale di cui esso consiste, ma nel Vuoto, che contiene”. Da un punto di vista scientifico la brocca non è vuota, essa è piena di aria. Ma se ci lasciamo sviare da una riflessione di tipo scientifico ci lasciamo sfuggire l’essenza stessa della cosa, cioè in che cosa consiste l’esser-brocca della brocca. Seguendo una riflessione scientifica “non abbiamo lasciato che il vuoto della brocca fosse davvero il suo vuoto” . Per contro in una riflessione meditante l’esser-brocca della brocca consiste nell’offrire: “L’essenza del vuoto contenente è raccolta nell’offrire” . Perciò il vuoto stesso della brocca riceve la sua esenza dall’offerta. Giunti a questo punto del saggio, la riflessione heideggeriana conosce un salto. L’offerta del versare daà da bere ai mortali. Non solo. Se il versare ha un senso di consacrazione, l’offerta è rivolta agli dei immortali. Quindi in questa offerta del versare ”permangono insieme terra e cielo, mortali e divini” . L’essenza della brocca, il suo coseggaire riunisce la Quadratura. A questa essenza si dà il nome di COSA. 
Anche in questo saggio Heidegger ribadisce una sua convinzione. Alla domanda quando e come e come vengono le cose come cose, egli risponde: ”Esse non vengono in forza di operazioni dell’uomo. Ma neppure vengono senza la vigilanza dei mortali. Il primo passo verso una tale vigilanza è il passo indietro del pensiero puramente rappresentativo, cioè spiegante-fondante al pensiero rammemorante” . Ancora una volta si fa pressante l’esigenza di questo passo all’indietro. Ancora una volta si fa impellente il bisogno di pensare diversamente. Anche in questo saggio, tra le righe, si reclama un altro inizio del pensiero. (Come già abbiamo visto, ma che ancora vedremo, questa esigenza funge da motivo trainante dell’intero percorso filosofico di Heidegger, per cui il nostro continuo ripeterci non fa altro che seguire l’esigenza stessa del pensiero heideggeriano). 
Siamo ora pronti per un confronto con il capitolo 11 del Tao-te-ching, confronto che si rende quasi necessario dopo aver trattato il saggio La cosa di Heidegger. Di questo capitolo diamo ora due versioni. La prima è curata dal sinologo olandese J.J.L. Duyvendak, e dice nella versione italiana: 
«Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, 
l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è. 
Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, 
l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è. 
Si ha un bell’aprire porte e finistre par fare una casa, 
l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è. 
Così, traendo partito da cio che è, 
si utilizza quello che non c’è». 
La seconda versione è stata curata da Etiemble in francese: 
«Trente rayons convergent au moyeu 
mais c’est le vide médien qui 
confère à la voiture sa fonction. 

On façonne l’argile pour faire des vases, 
mais c’est du vide interne 
que dépend son usage. 

Une maison est percée de 
portes et de fenêtres, 
c’est encore le vide qui 
permet l’usage de la maison. 

Ainsi "ce qui est" constitue 
la possibilité de toute chose; 
"ce qui n’est pas" 
constitue sa fonction». 
Abbiamo dato ambedue le versioni, poiché insieme facilitano la nostra interpretazione. Nella versione del sinologo olandese si legge: “ciò che non c’è”. Per contro, nella versione francese curata da Etiemble si parla semplicemente di “vide”, vuoto. Il vuoto dunque non esiste: esiste solo ciò che è. Ma ciò che è esiste solo in quanto viene dal vuoto. Il vuoto non esiste, non può essere in alcun modo afferrato, però fa essere l’essere. Ciò che si può cogliere e in un qualche modo pensare, sentire, è solo tale movimento del vuoto. Questo concetto è di vasta portata ed è inesauribile a pensarsi. Ma ciò che mi premeva far notare con questo esempio del vuoto è però qualcosa d’altro. 
La filosofia comparata è ormai una branca della filosofia. Essa rivendica per sé uno spazio autonomo dove poter crescere e far esperienze. Ma considerando le due versioni del capitolo undicesimo del Tao-te-ching (ma avremmo potuto citare un qualsiasi altro capitolo), non ci possono sfuggire le differenze tra le due traduzioni. Se consideriamo che gli studi filosofici si basano essenzialmente sulla parola scritta, come possiamo considerare in modo rigoroso studi che hanno come oggetto qualcosa che non è ancora ben definito? 
Nasce in questa discussione anche il grande problema della traduzione, tema complesso nel quale non voglio né posso addentrarmi. Eppure queste grandi differenze nelle traduzioni dei testi fondamentali del pensiero orientale devono far riflettere. Una filosofia comparata che vuole essere considerata rigorosa deve dapprima risolvere questi problemi.

*"Contributi per unattività comparativa", 1998