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Due sono i gradi dell'intelligibile: l'uno per l'ordine naturale, l'altro per quello soprannaturale

di Francesco Lamendola - 01/02/2009

 


Il lettore che ci abbia seguito, in questi ultimi anni, attraverso le riflessioni e i ragionamenti indirizzati allo scopo di chiarire il nostro grado di consapevolezza spirituale e di farne partecipi, per quanto possibile, i nostri simili, ricorderà forse un articolo da noi pubblicato circa due anni or sono, «Elogio dell'inquietudine» (consultabile sempre presso il sito di Arianna Editrice).
In esso, avevamo affermato che, lungi dal costituire uno stato interiore preoccupante o potenzialmente pericoloso, al contrario l'inquietudine è espressione della coscienza che si pone di fronte al mondo e a se stessa in un atteggiamento di stupore, ma anche di insoddisfazione per i limiti di ciò che è abitudinario, per i sentieri ormai ben noti, per gli orizzonti ristretti e ormai troppo familiari;  e che avverte una pungente nostalgia di ciò che sta oltre: non oltre questo o quell'oggetto particolare della nostra esperienza, ma oltre la nostra stessa condizione di persone inautentiche, spente, ingrigite.
Essa è come un pungolo nella carne, che ci sprona a non sederci sulle comodità di quanto già riteniamo acquisito e ci sfida a osare, a buttarci, a lasciarci andare nella grande corrente dell'Essere, dalla quale proveniamo e alla quale aneliamo a fare ritorno. Come dice, con mirabile efficacia e densità di mente e di cuore Sant'Agostino nelle «Confessiones»: «Inqueutm est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine»: "inquieto è il nostro cuore finché non trova pace e riposo in Te, o Signore".
E avevamo concluso sostenendo che l'inquietudine è una finestra spalancata sulle profondità dell'Essere; e che, se è una finestra, essa è anche una possibilità. L'inquietudine, di per sé, non rende né migliori né peggiori coloro che ne sono afferrati; essa apre degli scenari nuovi e mette in gioco delle forze dello spirito che erano rimaste latenti.
Il suo insorgere costituisce nell'anima dell'essere umano, pertanto, una specie di richiamo: il richiamo delle lontananze, delle altezze. Il corvo ne sarà spaventato; ma l'aquila se ne sentirà vibrare tutta, ricorderà di avere un paio d'ali possenti, e si lancerà dalla vetta della montagna che, sino allora, le  era parsa una disperata prigione.

Scriveva Alphonse Gratry (un autore del quale ci siamo già occupati, nel recente scritto «Recuperare la profondità e il raccoglimento per ristabilire un giusto rapporto con la vita», anch'esso consultabile sul sito di Arianna Editrice) nel suo trattato «Itinerarium mentis» (in: A. Gratry, «La sete e la sorgente», a cura di M. Barbano, Torno, Società Editrice Internazionale, 1937, pp. 225-26 e 255-56):

«C'è qualcosa che parla in noi. Noi? Altra cosa da noi? "Sono io od è un altro?", si domandava Sant'Agostino. "Sono io ed è un altro nel tempo stesso?" Quel che è certo è che troviamo in noi una conversazione interiore, la quale non si svolge sempre in discussioni chiare o netti ragionamenti, ma più spesso in pensieri sordi, in impulsi ed impressioni. Ci sono visioni chiare e fredde, ci sono impulsi ardenti, ci sono impressioni segrete, desideri impliciti, lumi quasi impercettibili.
Ora, in mezzo a tutto questo, porti tu nell'anima lo sforzo costante ed abituale verso la saggezza? Tendi ed aspiri senza posa a qualcosa di migliore e di più grande di te? Oppure vivi in una disperazione abituale e segreta di giungere alla verità ed alla libertà?  O addirittura, consentendo formalmente a questa colpevole disperazione, neghi nel tuo cuore la virtù, la verità, l'avvenire dell'anima e volgi tutto il tuo sforzo alla ricerca delle gioie presenti?
Ecco le due tendenze, l'una verso Dio e l'altra contro Dio.. Mala tenenza verso Dio, il cammino verso la saggezza, ha due gradi-
Cerchi con inquietudine? Cerchi in un dubbio che sempre rinasce sull'insieme della verità, sebbene con certezze di particolari, con lumi che talora si ravvivano e sovente si spengono? Senti uno stato d'esilio dello spirito? La verità tutta che scorgi la vedi come fuori di te e lontana da te,  come la stella d'un altro mondo la quale fa giungere sì qualche raggio, ma non riscalda?
Se cerchi così, è certo che sei nel primo grado della tendenza verso la saggezza.  Questa saggezza ti parla, poiché tu la cerchi; ti parla sempre,  benché indirettamente, poiché non ti lascia pace, poiché non cessa di mostrarti l'imperfezione e il difetto di tutta la tua luce e di tutta la tua virtù presente.  Pure se tu perseveri nell'attesa,  se lo sforzo si mantiene, se la fede nella luce avvenire resta incrollabile, avrai compiuto il dovere di questo grado di vita; avrai fatto quel che era in te e devi sperare che Dio non rifiuterà di portarti al grado superiore.
Questo grado superiore è noto solo alle anime che da Dio stesso vi sono innalzate.  Il suo primo carattere è la pace. (…)
Ci sono due gradi dell'intelligibile i quali corrispondono a ciò che la teologia cristiana chiama l'ordine naturale e l'ordine soprannaturale.: ordine di ragione, ordine di fede.
Ora, non è forse certo, per l'esperienza di ciascuno di noi, come per la storia intera della mente umana, che il primo dei due gradi cerca con accorato desiderio l'altro e che più uno spirito s'innalza in questa prima sfera, sviluppa la sua ragione e porta alto la vista sua, e più comprende che la sua vista è parziale, che quanto egli vede è soltanto l'ombra, non la sostanza del vero?  Non è forse certo che la luce naturale della ragione, di mano in mano che cresce, produce sete sempre più ardente? Ma sete di che, se non della verità stessa, essenziale e totale, sostanziale e vivente,  la cui immagine sempre più distinta, i cui raggi sempre più numerosi nello specchio dell'anima vi accendono il desiderio della realtà, della totalità?
È la conclusione legittima della sana ragione, della ragione crescente, origine della vera filosofia. La ragione pigra, ferma, non lo sa e genera quella filosofia languida, sterile e versatile, che gira sopra se stessa senza avanzare. La ragione depravata lo nega e lo respinge assolutamente; ma tosto si rivolge contro se stessa, si nega e si distrugge e si chiama sofistica, suicidio della ragione. Tali sono evidentemente i tratti fondamentali della storia dello spirito umano, tali sono le categorie in cui si classificano le menti. Ciò posto, i Cristiani sono quelli che credono che la seconda sfera del mondo intelligibile sarà data e ch'essa è data effettivamente fin d'ora, in principio, per la fede nel Cristo, fede divina che mette in noi, come dice san Tommaso seguendo san Paolo, l'essenza e la sostanza del vero nel suo germe soprannaturale, sviluppabile nell'eternità.»

Il lettore non credente non si preoccupi per questi riferimenti al cristianesimo; crediamo che parole analoghe, frutto di una profonda saggezza «del secondo grado» (come direbbe Gratry) avrebbero potuto essere pronunciate da un monaco indù, da un filosofo buddista, da un'anima illuminata di qualunque orientamento spirituale: perché, in fondo, l'orientamento fondamentale dell'anima è uno solo: quello verso l'Essere.
Dunque, Gratry ci ricorda che esistono due gradi dell'intelligibile: quello naturale e quello soprannaturale; al primo corrisponde la ragione, il Logos; al secondo quella che comunemente si chiama la «fede», ossia la percezione più diretta e immediata della verità totale: qualche cosa che sta al di là e al di sopra della ragione, non certo qualche cosa che ne stia al di qua e al di sotto.
Ecco, qui si tratta di dissipare un grande equivoco, un grande malinteso, un profondo fraintendimento. Quelle filosofie che contrappongono o, comunque, separano nettamente e irrevocabilmente l'ambito della ragione da quello della contemplazione dell'Essere, rendono un pessimo servizio alla ragione stessa, mentre si illudono di servirla e di rivendicarne i presunti diritti di autonomia e libertà (come se l'anelito all'Essere li menomasse!).
Di fatto, esse operano una vera e propria spaccatura nella natura più profonda dell'anima umana: che è fatta di ragione e di contemplazione; di volontà di spiegare l'ordine naturale delle cose, ma anche di tensione a protendersi con tutta se stessa verso l'ordine soprannaturale, nel quale soltanto essa può trovare il perfetto appagamento e la pace, dopo le lotte imposte dalla bruciante inquietudine della ragione medesima.
Ben lo sapeva la cultura medioevale, la quale non vedeva affatto contrapposizione e nemmeno separazione fra l'ambito dei due ordini dell'intelligibile; ma, al contrario, considerava la ragione come una scala necessaria per intraprendere l'«itinerarium mentis a De», il viaggio dell'anima verso le sorgenti pacificatrici dell'Essere.
Che cosa ha fatto, invece, a questo proposito, la cultura della modernità?
Ha separato la creatura umana, e il mondo nel suo complesso, dalla loro Causa Prima; ha separato l'intelligenza dall'anima; ha tolto alla ragione i suoi due principali fondamenti, l'anima e l'Essere al quale essa incessantemente anela di fare ritorno.
Il risultato di tutte queste separazioni, di queste divisioni e di queste limitazioni è un Logos strumentale e calcolante, che gira a vuoto nella sua superba volontà di dominio e di manipolazione delle cose; ma, al tempo stesso, un Logos immeschinito, impoverito, ridotto all'ombra di quella che, per Platone e Aristotele, era la ragione umana. L'idea stessa di una ragione orgogliosamente chiusa in se stessa, capace di spiegare (e soggiogare) un mondo altrettanto chiuso in se stesso, è la negazione più radicale della vera natura della ragione umana ed è, contemporaneamente, lo stravolgimento e la contraffazione più plateale del giusto rapporto della mente con le realtà intelligibili, dell'essenza dell'anima con se stessa.
Così, con questa ragione mutilata, svuotata, ridotta ad un povero moncone, l'uomo moderno, figlio della prometeica Rivoluzione scientifica del XVII secolo (e, poi, dell'Illuminismo e del Posiotivismo) , ritiene di essersi «emancipato» da secolari errori, da mortificanti superstizioni, da un intollerabile stato di minorità  - l'espressione è di Kant - e di sudditanza, rispetto a un altro ordine di conoscenza.
Quale inganno funesto!
Così facendo, l'uomo non ha per nulla allargato i propri orizzonti: li ha penosamente ristretti; non ha realizzato alcun progresso, ma un grave regresso; non ha sviluppato le sue migliori e più affascinanti potenzialità speculative e creatrici, ma le ha mortificate, illanguidite, sprecate: fino a ridursi - lui, abitatore designato di un vasto e ricchissimo palazzo - nel buio e nell'aria stantia di una cantina triste e ammuffita.
L'uomo moderno, orgoglioso della scienza e della tecnica create dalla sua ragione strumentale e calcolante, è giunto a negare, puramente e semplicemente, l'esistenza dell'ordine soprannaturale; o, al massimo, ha ritenuto di poterla considerare un «optional», una specie di ipotesi indimostrabile e, quindi, scientificamente oziosa, riservata alla sfera «privata» delle opinioni strettamente individuali e ininfluenti da un punto di vista generale.
Le cose, però, stanno ben altrimenti.
Il legame fra la ragione e la contemplazione, fra l'ordine naturale e quello soprannaturale, non è un accidente gnoseologico, ma un fondamento ontologico. Negarlo o ridurlo al livello di una teoria astratta e di una semplice opinione privata, significa privarsi della possibilità di porre nella giusta relazione il movimento dell'anima verso l'Essere, ossia l'eterna tensione della mente verso la sua sorgente ultima, verso la sua Causa Prima e la sua ragione di esistenza.
Noi non siamo qui per caso, come vorrebbe una scienza materialista e prevenuta verso ogni idea di trascendenza, ma per comprendere e amare la fonte del nostro stesso esistere, ossia per chiudere il cerchio che, dall'Essere, porta alla creazione degli enti e, da questi ultimi, ritorna alla pienezza dell'Essere.
Questo, e non altro, è lo scopo del nostro esserci, il destino del nostro viaggio terreno.
Solo così l'anima può trovare l'appagamento alla sua eterna, bruciante inquietudine.
Solo così è dato all'essere umano di comprendere, con Antigone, che il senso della sua chiamata nel mondo è quello di amare, non di odiare.