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Il mondo dove l'estetica è alla base dell'etica

di Antonio Gnoli - 26/02/2006

Fonte: lgxserver.uniba.it

 

 

PARLA il professor GIANGIORGIO PASQUALOTTO

Da 20 anni il filosofo si occupa di pensiero orientale: ora esce un suo nuovo libro, "Yohaku"

A volte sono imprevedibili le vie filosofiche per l'Oriente. Prendiamo il caso di Giangiorgio Pasqualotto: professore di storia della filosofia all'università di Padova, che da almeno vent'anni si dedica al pensiero orientale. Ha da poco pubblicato Yohaku, l'espressione giapponese indica lo spazio vuoto, il margine (Esedra editrice, pagg. 157, lire 22.000). A gennaio uscirà la ristampa, per Marsilio, di Il Tao della filosofia, e sempre all'inizio dell'anno annuncia un nuovo libro: East & West, anch'esso per Marsilio.

Molte cose delle quali Pasqualotto si occupa da tempo, sono diventate oggi di un certo dominio pubblico. Si fa fatica a tenere dietro alle iniziative su un tema vasto come appunto è l'Oriente: un'espressione che abbraccia troppe cose per essere ridotta a una sola unità di misura. Ma in fondo non è quello a cui tutti tendono? Un sano principio unificatore che ci renda tutto più semplice e ordinato.

"Non imposterei la questione proprio in questi termini", precisa Pasqualotto. "Anche perché alla fine è più importante il percorso che il risultato".

A proposito di percorso il suo è stato lungo e frastagliato.

"Provengo dalla filosofia analitica. Ma le insoddisfacenti risposte che il pensiero angloamericano mi forniva, mi ha fatto emigrare verso Hegel e Marx. Credo di aver vissuto abbastanza drammaticamente il dilemma se dopo Hegel aveva ancora senso occuparsi di filosofia".

Come risolse la cosa?

"Beh, c'era pur sempre Nietzsche su cui ho sostato per una decina di anni, pubblicando un ampio commento allo Zarathustra. Ma l'impresa di andare oltre Hegel a Nietzsche non è riuscita. Ho palleggiato anche con la Scuola di Francoforte. Ma anche lì la strada mi è parsa bloccata. Cosa si poteva dire più di quanto avessero già detto Adorno e Horkheimer?"

E allora?

"A quel punto ho perfino provato a occuparmi del neoidealismo italiano. Ma anche qui ho dovuto alla fine ricredermi sul fatto che Gentile avesse capito tutto, e che il suo radicalismo fosse denso di conseguenze teoretiche. Così è venuta fuori la vera crisi del pensiero e mi sono arenato".

Non le bastava rimanere un buon professore di storia della filosofia?

"Se si lavora sul linguaggio filosofico, ci si deve porre il problema se quel linguaggio sia davvero in grado di dire qualcosa di nuovo. Quello che conoscevo non andava da nessuna parte".

C'era pur sempre Heidegger...

"Lasci perdere: fu un grande amore, seguito da una delusione spaventosa".

Non salva proprio nessuno.

"Mettiamola in questi termini: dal momento che il linguaggio poetico, filosofico, letterario ha esaurito la sua funzione, che cosa resta? A me rimaneva il gesto, l'azione".

Ma è una vecchia storia.

"D'accordo, sarà pure una vecchia storia, però è quello che restava: né più né meno che un discorso di tipo artistico. Ho pensato che l'arte, come azione allo stato puro, dovesse essere ridotta al massimo della essenzialità. E mi sono accorto che soprattutto il Giappone aveva fatto una riduzione essenziale di tutto ciò che è artistico".

Quando parla di riduzione essenziale allude al minimalismo?

"No, intendo il fatto che ci si può accostare a una forma artistica pittura, poesia, scultura senza un ragionamento preliminare di tipo filosofico, critico, o metacritico".

Certe cose si imparano sul campo.

"Non c'è dubbio. Io sono stato a Cylon, in Thailandia, in Giappone. Ho frequentato i maestri artigiani che facevano calligrafia, ceramica, o che si occupavano di discipline del corpo. E mi accorgevo che un po' tutte le arti tranne forse l'architettura cercavano l'azione artistica al suo grado più elementare. Pensi per intenderci alle ceramiche Raku la cui tecnica è considerata la più povera tra le arti. Ma è anche quella che fin dal Quattrocento i maestri delle ceramiche preparavano per la cerimonia del the. I risultati di tutto questo discorso li ho raccolti in un libro che ha come titolo L'estetica del vuoto".

Che relazione c'è tra questa idea di vuoto e quella che ha avuto l'Occidente?

"In sostanza nessuna. Il vuoto come siamo abituati a pensarlo noi, confluisce nel nichilismo. Mentre dall'altra parte è la condizione di possibilità di tutti gli eventi, di tutte le cose. Il vuoto in questo senso è il massimamente pieno. Questa è la grande idea che ha avuto il buddhismo. È il punto che lo fa incontrare con il taoismo in Cina e produce lo zen".

Non le sembra eccessivo questo interesse dell'Occidente per le filosofie orientali?

"Eccessivo non direi, piuttosto cercherei di evitare due difetti del modo in cui l'Occidente guarda a Oriente".

E sarebbero?

"Li riassumerei in due figure. Una è Hegel. Intelligentissimo come pochi e capace di considerare India e Cina come luoghi importanti, in base alle conoscenze di allora. Però Hegel dice anche che la Cina è il pensiero primitivo, il fanciullo inespresso. Ai suoi occhi occorrerà aspettare i Greci per vedere il dispiegarsi della ragione. Hegel pensa all'Oriente come a uno stadio primordiale del pensiero. Si tratta come è chiaro di una prospettiva di fuga che approda al cristianesimo luterano. È una forma di colonialismo soft: non schiaccia l'avversario, ma lo assume, lo ingloba".

L'altra posizione?

"È quella che schematicamente si può attribuire a Guenon. Per il quale la decadenza è l'Occidente, mentre la verità va cercata nelle civiltà dell'India e dell'Islam. Le quali hanno conservato i principi della tradizione. Entrambi gli atteggiamenti sono da evitare".

A vantaggio suppongo di una terza via.

"Mi piace immaginare Occidente e Oriente come i due poli di un campo magnetico. Nessuno dei due può esistere senza l'altro. È chiaro che la mia storia è quella di un occidentale che ha un proprio linguaggio, proprie regole. Ma la cosa importante è che io mi posso aprire all'altro. È chiaro che questa apertura ha in sé anche dei rischi. Ma è la sola vera possibilità di un arricchimento reciproco, antiriduzionistico, la sola alternativa al colonialismo aggressivo, da un lato o al soggiacere interamente a un modello culturale a noi estraneo, dall'altro".

Sta dicendo che esiste una zona in cui Oriente e Occidente possono confrontarsi, scambiarsi esperienze e crescere insieme?

"È così, in fondo anche a livello di pura speculazione ci sono molte cose in comune. Per esempio il concetto di identità, che in Occidente trova i suoi due punti più alti nel Sofista di Platone e ne La scienza della logica di Hegel, lo ritroviamo rovesciato nell'anatta (l'insostanzialità, il non sé) con cui il buddhismo elabora la sua idea di vuoto. La cui potenza si può vedere soprattutto nell'arte".

Un esempio di vuoto applicato all'arte, è la tecnica del bonsai.

"È un aspetto fondamentale di quello che sto dicendo. Un bonsai non è qualcosa di autonomamente definito, la sua potenza si manifesta grazie alla forma vuota che gli sta attorno".

Noi occidentali siamo abituati a vedere l'arte del bonsai come una tecnica costrittiva che modifica la natura stessa dell'albero, qualcosa di profondamente doloroso.

"È vero. Ma più che tecnica costrittiva userei il termine disciplinante. Noi pensiamo che i maestri giardinieri giapponesi massacrino gli alberi. In realtà la loro è una filosofia dell'autolimitazione. Qualcosa tra l'altro di molto pratico".

In che senso?

"Nel senso che il limite cui si può portare la costrizione del ramo è molto preciso, quasi fisiologico da un punto di vista botanico. Se si eccede nell'intervento il ramo o si secca o si spezza. È come nell'educazione dei ragazzi: non bisogna essere né troppo costrittivi né troppo permissivi".

Perché è importante sperimentare il limite?

"Perché il limite serve a vedere ciò che c'è al di qua e al di là di esso. Serve a impedire che una di queste due parti prenda il sopravvento".

In qualche modo l'estetica sta alla base dell'etica.

"Assolutamente. L'opinione comune, come sa, pensa invece che l'estetica sia autonoma dall'etica".

Ma non trova un po' pericoloso parlare di estetica legata all'etica?

"Pericoloso perché?"

Per tutto quello che ha significato, poniamo, da D'Annunzio in poi. O se vuole pensi a Mishima, in cui tutto si riduce a gesto.

"Mishima mi è sempre piaciuto molto. Però lo trovo anche un classico esempio di incapacità di vivere il limite. Che poi significa incapacità di gestire la disciplina, la forma. Mishima è stato travolto dalla forma. Come se un bonsai si strozzasse con il filo, così Mishima è stato travolto dalla bella morte".

Una morte per protesta, per sconfitta delle tradizioni, per eccesso di modernità in cui il Giappone era finito.

"Sì, diciamo anche un gesto esemplare, per un certo modo di leggere la sconfitta dell'Oriente".

Di fatto l'Oriente si è adeguato.

"È un po' paradossale. Ma ricordo che il vecchio Nedham smentì con i suoi studi il luogo comune che la Cina antica fosse ascientifica, antitecnologica. In fondo tutta una serie di invenzioni, anche tecniche, nascono a Oriente. Ma lì l'uso della tecnica era completamente diverso. Pensi alla bussola. Può essere utilizzata per navigare, per pescare, per non perdersi e può essere usata per scoprire nuove terre. Noi abbiamo fatto la seconda cosa, loro la prima. Così fu anche per la polvere da sparo. Loro facevano i fuochi artificiali, noi gli archibugi".

Fu la forza dell'Occidente.

"Una forza centrifuga che ha portato a invasioni e a scoperte geografiche. Questo è l'Occidente insieme ai monoteismi che ha prodotto".