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Ragione e fede nel pensiero di San Tommaso, cardine della spiritualità medievale

di Francesco Lamendola - 19/02/2009


La ragione è incompatibile con la fede?
Secondo la tipica mentalità moderna, sì; e, ad un filosofo  che si arrischi a sostenere il contrario, non vengono di certo risparmiati i sorrisetti ironici della maggior parte dei suoi colleghi, tutti imbevuti di cultura materialista, scientista e positivista, secondo la quale nulla esiste al di fuori i ciò che si può rappresentare il Logos strumentale e calcolante.
Per più di mille anni, tuttavia, la cultura cristiana medievale ha ritenuto il contrario; e, prima di essa, lo ha creduto anche il filone principale del pensiero classico, culminante nei grandiosi sistemi speculativi di Platone e di Aristotele.
Se, poi, diamo uno sguardo anche velocissimo alle altre culture, l'indiana, la cinese, l'araba, subito ci rendiamo conto - pur nella notevole diversità del quadro di riferimento generale - che nemmeno per esse esiste conflitto o una contraddizione tra l'ambito del pensiero logico e quello del sentimento religioso. È solo ed esclusivamente la modernità che ha «inventato» l'aut-aut tra le due cose; e, da Marx e Freud in poi (due ebrei atei: ma un ebreo è mai veramente ateo?), è diventato terribilmente fuori moda affermare una posizione diversa.
Il Medioevo, che non è stato affatto quell'età oscura e barbarica che ai nipotini di Voltaire e di Gibbon piace immaginare, ma che ha prodotto geni universali come Giotto, Dante, San Tommaso, per non parlare della possente spiritualità di figure come Francesco d'Assisi, Santa Chiara e Santa Caterina da Siena, ha raggiunto autentici vertici speculativi, come nella «Summa Theologiae» dell'Aquinate, e ha illustrato con chiarezza esemplare e con mirabile concisione gli argomenti razionali a favore dell'esistenza di Dio.
Li riassumiamo brevissimamente.
Prima prova: Dio è il Motore Immobile, origine del movimento di tutte le cose (perché tutto ciò che si muove è mosso da altro).
Seconda prova: Dio è la Causa Prima, perché nell'ordine delle cose sensibili, niente è causa efficiente di se stesso.
Terza prova: Dio è l'Essere necessario, perché le cose possibili potrebbero anche non essere (ma è impossibile che tutte le cose siano soltanto possibili, altrimenti ci sarebbe stato un tempo in cui niente esisteva, e dunque niente esisterebbe ora).
Quarta prova: Dio è la Perfezione assoluta, dato che nelle cose esistono vari gradi di perfezione, i quali presuppongono l'esistenza di un massimo (che, però, non esiste in natura).
Quinta prova: Dio è l'Intelligenza ordinatrice dell'universo, perché tutte le cose naturali tendono a un fine, che è l'ottimo; ma non vi tenderebbero le cose prive di conoscenza, se quel fine non esistesse fuori di loro.
Certo, la cultura e la spiritualità medievali avevano ben chiaro il concetto del limite: ossia che la ragione umana può arrivare a comprendere certe cose, ma non tutte; e che, davanti a quelle che la trascendono, essa deve porsi in un atteggiamento di estrema umiltà, e cedere la mano ad una facoltà di lei più grande e più elevata: la fede, appunto.
Per dirla con il gran padre Dante, per bocca di Virgilio (Purgatorio, III, 34-45):

«Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
perché, se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri"; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.»

E, sul problema del rapporto tra ragione e fede, ci piace riportare cinque brevi passi dell'opera di  San Tommaso, il più grande filosofo del Medioevo e uno dei più grandi nella storia del pensiero occidentale, nella «Summa contra Gentiles, I, 39, 5, 7,  8», trad. Di Napoli e «In Boëtium» De Trinitate", a 3 (in: E. Paolo Lamanna, «Letture filosofiche», Firenze, Le Monnier, 1969, vol. I, pp. 128-130).
Nel primo di essi, l'Aquinate distingue i rispettivi oggetti d'indagine della fede e della ragione; nel secondo, espone la necessità della fede; nel terzo, dimostra che la fede non è contraria alla ragione; nel quarto e nel quinto (tratti da due opere diverse) illustra quale sia la funzione propria della ragione di fronte alla fede.

«In tutto ciò che affermiamo intorno a Dio abbiamo due classi di verità.
Alcune verità trascendono tutto il potere della ragione umana, come la Trinità-Unità di Dio. Altre invece appartengono alla sfera della ragione naturale, come l'esistenza di Dio, la sua unità e simili; e queste i filosofi hanno affermato di Dio con processo dimostrativo alla luce della ragione naturale. Che vi siano verità teologiche trascendenti essenzialmente la ragione è di piena evidenza.
E difatti, siccome la base di tutta la scienza, che la ragione umana acquista di una cosa, è l'intelligenza della sua essenza, ne segue che la misura della conoscenza dell'essenza sia anche la misura di ciò che si conosce di quella cosa. Onde, se l'intelletto umano comprende l'essenza di qualche cosa, come di una pietra o di un triangolo, nessuno dei suoi elementi intelligibili trascende il potere della ragione umana.
Ciò che però non è il caso di Dio di fronte a noi. Poiché l'intelletto umano non può naturalmente arrivare ad intuire la sua essenza, per il fatto che il suo conoscere in questa vita parte dal senso. E pertanto ciò che cade sotto l'ambito del senso non può essere conosciuto dall'intelletto umano se non nei limiti della conoscenza sensibile. Ora le cose sensibili non possono elevare il nostro intelletto a un piano tale in cui si scorga il ciò che è [l'essenza] della scienza divina, data la loro inadeguatezza  alla causa che le produce.
Tuttavia il nostro intelletto è guidato dalle cose sensibili a conoscere il che è [l'esistenza] di Dio e quanto di simile sia da attribuire al Primo Principio.
Vi sono dunque alcune verità divine proporzionate alla ragione umana e altre che trascendono assolutamente il potere della ragione umana. (…)
È necessario che quelle verità, le quali trascendono la ragione, vengano proposte per fede divina all'uomo. Nessuno difatti tende con appassionata volontà a qualche cosa senza prima conoscerla. E siccome gli uomini sono ordinati per provvidenza divina ad un vene più alto di quanto possa sperimentare nel tempo la vita umana, è stato necessario che l'anima fosse chiamata a qualche cosa di più alto di quel che la nostra ragione possa raggiungere in questa vita: e così imparare attendere appassionatamente a qualche cosa che trascende lo stato della vita presente. Ciò è quanto conviene in modo particolarissimo alla religione cristiana la quale promette specialmente beni spirituali ed eterni. Onde  in essa vengono proposte verità che trascendono l'umano sentire... Perciò, benché la ragione umana non possa pienamente comprendere quelle verità che sono superiori alla ragione, tuttavia si perfeziona notevolmente se comunque le accetta almeno per fede. (...)
Benché la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione umana, quelle verità, che sono essenzialmente connaturali alla ragione, non possono essere contrarie alla verità di fede.
Difatti quelle verità, che sono essenzialmente connaturali alla ragione, ci constano essere verissime in tale maniera, che non sia possibile pensarle false; né d'altra parte è possibile pensare falso ciò che si tiene per fede dal momento che ha una così evidente conferma divina. Siccome dunque il solo falso è contrario al vero, come appare manifestamente dai loro concetti, è impossibile che la verità di fede sia contraria a ciò che la ragione conosce naturalmente. (…)
Le cose sensibili da cui inizia la sua marcia conoscitiva la ragione umana, posseggono un tal quale vestigio imitativo del divino (in quanto sono buone), imperfetto tuttavia, ed insufficiente a chiarire l'essenza di Dio. Poiché gli effetti hanno a loro modo una somiglianza con le loro cause per il fatto che ogni agente produce un simile a sé; però l'effetto non assurge alla perfetta somiglianza con l'agente. La ragione umana quindi, per conoscere la verità di fede, la quale può essere notissima soltanto a coloro che intuiscono l'essenza divina, non può che fissare delle analogie con essa; ; le quali tuttavia non bastano a ciò che la predetta verità [di fede] venga compresa quasi dimostrativamente o analiticamente. È utile tuttavia che lo spirito umano si esercirti in queste ragioni pur deboli, a patto che sia assente ogni presunzione di comprendere o di dimostrare. (…)
Possiamo nelle nostra dottrina usare la filosofia per tre fini: 1) per dimostrare i preamboli della fede, che sono necessari alla conoscenza per fede; quali sono le cose che si dimostrano intorno a Dio con la ragione naturale: che Dio esiste, che Dio è uno, e altre simili verità d Dio e della creature, che in filosofia vengono dimostrate e dalla fede sono presupposte; 2) per chiarire, mediante similitudini, cose che sono di pertinenza della fede; così sant'Agostino nel "De Trinitate" si serve di molte similitudini tratte da dottrine filosofiche per chiarire la Trinità; 3) per confutare le obiezioni che si muovono alla fede mostrando o che sono false o non sono necessarie. - D'altra parte, quelli che si servono della filosofia nella dottrina sacra possono errare in due modi: in primo luogo introducendo nozioni contrarie alla fede, e queste non appartengono alla filosofia ma sono piuttosto errori o abusi di essa, come fece Origene; in secondo luogo, includendo nel dominio della filosofia cose che sono di pertinenza della fede, come se non si intendesse credere altro che quello che la filosofia può dimostrare; mentre invece la filosofia deve essere ricondotta ai fini della fede, secondo il detto di paolo (I Corinti, X): "portano in cattività tutta l'intelligenza per ossequio a Cristo".»

Questo è il modo di ragionare dell'uomo medievale: limpido, conseguente, rigoroso; e, al tempo stesso, perfettamente coerente con la convinzione che la ragione possa e debba esplorare solo una parte dell'intelligibile.
Due sono gli ordini che abbracciano il piano della realtà: l'ordine della natura e l'ordine del soprannaturale: al primo è preposta, quale strumento d'indagine, la ragione; al secondo è riservata la fede.
La ragione non viene sminuita, né, tanto meno, mortificata, se le si pongono dei limiti: perché quei limiti non sono un ostacolo a ciò che l'uomo può comprendere, ma solo il riconoscimento che l'uomo non può comprendere tutto.
La ragione dell'uomo medievale non sa nulla di scissione dell'io, di disgregazione delle certezze, di conflitto tra ragione e fede, perché colloca ogni cosa nell'ambito che le è proprio, ordinatamente e serenamente. Il senso del limite ed il senso del mistero, questi due pilastri dell'«animus» religioso, le sono profondamente connaturati; perciò non li vive come fonte di frustrazione e di sconfitta, ma come doveroso riconoscimento dell'ordine soprannaturale, cui la ragione può accostarsi solo in parte, fermandosi sulla soglia.
La lacerazione dell'io e il conflitto tra fede e ragione è una malattia tipica della modernità: una nevrosi che scaturisce dalla «hybris» di un Logos che non accetta limiti e vorrebbe infrangere ogni barriera; Logos che è, a sua volta, il risultato di una radicale laicizzazione della cultura, di una visione ormai pienamente immanentistica e desacralizzata della vita.
Il primo intellettuale che ha impersonato la nevrosi della modernità è stato Francesco Petrarca (cfr. il nostro articolo: «Francesco Petrarca e lo spirito della modernità», sempre sul sito di Arianna Editrice); poi, a ruota, tutti gli intellettuali si sono gettati a capofitto nello stesso peccato di orgoglio e sono sprofondati nella medesima palude.
L'uomo medievale comprendeva istintivamente la verità dell'apologo del bambino che, sulla riva del mare, cerca di travasarne tutta l'acqua in una buca scavata nella sabbia, per far capire a Sant'Agostino l'inanità del suo sforzo di penetrare razionalmente i misteri della fede; la comprendeva ed era capace di convivere con il senso del limite.
L'uomo moderno, dominato dalla smania di spiegare tutto e di sostituirsi a Dio nella funzione di intelligenza ordinatrice del mondo, non può accettare una tale atteggiamento; e, di conseguenza, vive in uno stato di perenne frustrazione: proteso oltre se stesso per ghermire l'Assoluto, e tuttavia, ogni volta, inesorabilmente respinto verso la propria finitezza e la propria mortalità.
Sarebbe un grave fraintendimento quello di pensare che la ragione, nel Medioevo, fosse trascurata o sottovalutata in nome della fede; è vero piuttosto il contrario: corroborata dal rapporto vivificante con la fede, essa era tenuta in altissima stima. Semplicemente, non le si domandava più di quanto essa sia in grado di dare.
Del resto, noi moderni dovremmo liberarci dell'idea che la categoria della fede sia, semplicemente, un residuo del pensiero mitico (almeno, se non si ridefinisce il significato del pensiero mitico, che è qualcosa di molto più profondo di quanto non creda la cultura neopositivista oggi imperante). Né dovremmo intenderla in senso angustamente confessionale, come un elemento specifico del cattolicesimo; è vero, invece, che essa esprime una eterna caratteristica della natura umana, ossia l'apertura verso la trascendenza.
Intesa in questo senso, è chiaro che la fede non è qualche cosa che si possa contrapporre alla ragione; ma, al contrario, una forma di apertura coscienziale che include la sfera della ragione calcolante, inglobandola, ma anche oltrepassandola decisamente.
Il fatto è che, cancellando il senso del limite e sopprimendo il senso del mistero, l'uomo moderno non ha solo allontanato il divino dal proprio orizzonte spirituale; ha anche condannato se stesso alla maledizione di misurarsi senza posa con un compito più grande di lui. Da ciò, le due tipiche modalità di fuga dell'uomo moderno, davanti all'impossibilità di assolvere il proprio ruolo: la fuga in avanti, sotto forma di vitalismo esasperato, di superomismo e di delirio di onnipotenza; e la fuga all'indietro, sotto forma di pessimismo patologico, di nausea e disgusto per l'esistente, di resa al proprio destino di essere-per-la-morte.
Chissà: forse, rileggendo Agostino, Tommaso e gli altri filosofi medievali, molti uomini moderni potrebbero trovare una risposta alla loro inquietudine esistenziale, alla loro delusione e alla loro amarezza; e riscoprire il benefico influsso di un pensiero che sa coesistere con il proprio limite, anzi, con l'idea del limite in quanto tale - e che riesce, al tempo stesso, a vedervi una  porta d'accesso verso la dimensione dell'Essere.