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Il genocidio armeno e il negazionismo di Guenter Lewy

di comunita armena - 19/02/2009

Fonte: comunita armena

E’ uscito il nuovo romanzo storico di Antonia Arslan sul genocidio armeno (documento n. 1).
Il quotidiano la Repubblica, nel recensirlo, fa propria la tesi dell’ebreo Guenter Lewy che nega il progetto di sterminio da parte del governo turco (doc. n. 2).
La comunità armena di Roma scrive al quotidiano una lettera di protesta (doc. n. 3).

Doc. n. 1 - Nuovo romanzo storico sul genocidio armeno
L'attesissimo seguito de La masseria delle allodole. Tre bambine e un maschietto vestito da donna si imbarcano su una nave per Venezia. Altri orfani trovano rifugio prima ad Aleppo e poi a Smirne. Sono i sopravvissuti al genocidio degli armeni. Le prove che dovranno affrontare non sono finite…
È finita. La fuga è giunta alla sua conclusione. Al sicuro a bordo di una nave che li condurrà in Italia, Shushanig e i suoi quattro figli si lasciano alle spalle le atrocità che hanno sconvolto la loro vita e sterminato i loro cari e tante altre famiglie armene. Quello è il passato, racchiuso e conservato per sempre tra le pagine della Masseria delle allodole. Ora una nuova storia incalza. Mentre in Italia i figli di Shushanig si adattano dolorosamente a una nuova realtà, Ismene, la lamentatrice greca che tanto ha fatto per strapparli alla morte, cerca di dare corpo all’illusione di salvare altre vite, prendendosi cura degli orfani armeni che vagano nelle strade di Aleppo, ostaggi innocenti di una brutalità che non si può dimenticare. Ma proprio quando nella Piccola Città dove tutto ha avuto inizio qualcuno torna per riprendere quel che gli appartiene, ogni speranza di ricostruire un futuro compromesso cade in frantumi. La narrazione di Antonia Arslan stupisce per il coraggio di testimoniare fino in fondo le vicende di un popolo condannato all’esilio e per la capacità di dipingere un mondo vivo e pulsante di donne e uomini straordinari. Donne e uomini normali che hanno sofferto senza spezzarsi, attraversando le alte fiamme che, nell’incendio di Smirne, sembravano voler bruciare la speranza di una vita nuova.
Antonia Arslan, La strada di Smirne, Ed. Rizzoli, 2009, pp. 280, euro 18.50.
Sullo stesso argomento: Alberto Rosselli, L'olocausto armeno. Breve storia di un massacro dimenticato, Edizioni Solfanelli, Chieti 2007, pagg. euro 7,50,
www.edizionisolfanelli.it
 
Doc. n. 2 - L’articolo de la Repubblica
Sempre più spesso il massacro degli armeni lascia le pagine dei libri di storia e si trasferisce nei romanzi, regalandoci talvolta ottimi scrittori, raramente un maggior grado di verità. Ottima scrittrice è certamente Antonia Arslan, che a cinque anni dal suo La masseria delle allodole ora completa quella saga con La strada di Smirne (Rizzoli, pagg. 275, euro 18,50).
Se il primo romanzo raccontava le stragi e le deportazioni degli armeni alla fine dell' impero ottomano, il secondo narra l' epilogo di quell' esodo, il rogo di Smirne. Nell' incendio che chiuderà il romanzo sembreranno bruciare, insieme alla seconda città dell' impero e ai suoi abitanti greci e armeni, anche gli ultimi residui di un' epoca. «La vita garbata e gradevole dell' Europa ottocentesca» soccomberà alla brutalità degli scontri etnici, lo stile cosmopolita di una società mercantile sarà soppiantato da ferocie sterminatrici e da rapacità contadine. Epilogo tanto più atroce perché travolge Smirne proprio nel momento del suo maggior fulgore, quando, svanito l' impero ottomano, la città sembra dare vita ad un equivalente mediterraneo dell' Austria felix rimpianta da Joseph Roth. A Smirne sbarcano stranieri di tutte le razze e di tutte le religioni; vi convivono «turchi, greci, armeni, ebrei e levantini, e sono d' accordo di vivere in un luogo benedetto da Dio». Ogni speranza è ammessa, giacché «la bella infedele si è svegliata libera, e va dove la porta il suo antico istinto di grande città marinara, seguendo i venti e i capricci del mare».
La Arslan è bravissima nel farci rivivere quello splendore da ultimi giorni di Pompei, e corretta nel dare un nome all' eruzione che lo sommergerà: il «fanatismo nazionalista, ciò che di più estraneo esiste per l' animo mediorientale e levantino». Però nel suo romanzo quel mostro sembra avere unicamente l' uniforme dei soldati turchi e gli occhi gelidi di Kemal Ataturk.
E qui forse la memoria tramandata dai sopravvissuti, in ogni caso rispettabile, non sembra corrispondere esattamente alla verità storica. Qui non si tratta di concedere qualcosa al negazionismo di quella parte della storiografia kemalista che non riesce ad ammettere neppure quanto è ovvio. E' indiscutibile che in Anatolia la minoranza armena, soggetta per tutto l' Ottocento a violenze e soprusi, fu aggredita con la partecipazione attiva delle autorità, e che gli irregolari curdi esecutori materiali dei massacri furono di fatto autorizzati. Non per questo risulta più credibile la tesi della storiografia nazionalista armena, ostinata nell' attribuire le stragi ad un piano di sterminio sistematico, paragonabile alla "soluzione finale" applicata dal Terzo Reich agli ebrei.
Tra i non pochi storici occidentali che rigettano questa lettura c' è Guenter Lewy, autore di un saggio dal sottotitolo dubbioso, Un genocidio controverso (Einaudi). Secondo Lewy il regime ottomano voleva certo espellere dall' Anatolia la popolazione armena, temendo che agisse da quinta colonna della Russia, le cui truppe erano entrate in profondità nella regione di Van; ma i massacri che costellarono la deportazione non furono preordinati, e andrebbero semmai spiegati con il caos in cui si dissolveva la statualità imperiale. Inoltre i timori ottomani non erano peregrini, giacché l' indipendentismo armeno combatteva effettivamente al fianco delle truppe russe, e con metodi che includevano la strage di intere comunità musulmane. Infine, l' avanzata dei russi e degli indipendentisti in Anatolia occidentale aveva costretto all' esodo decine di migliaia di contadini turchi, che riparati in Anatolia orientale pensarono di vendicare i lutti e di recuperare le proprietà perse rifacendosi sugli armeni. Riletto in questo contesto, il massacro di quel milione di cristiani perde la sua esclusività turca e diventa una spaventosa "pulizia etnica", affine alle "pulizie etniche" che dalla fine dell' Ottocento, e nel corso di un secolo, le popolazioni cristiane ribellatesi alla Sublime Porta abbatterono sulle minoranze musulmane nei Balcani.
Appartiene a questa sequenza criminale anche l' incendio di Smirne, i cui bagliori chiudono il romanzo della Arslan? Secondo un' opinione consolidata in Occidente, i vincitori turchi vollero cancellare la presenza greca e armena. La storiografia turca obietta, citando testimoni occidentali, che ad appiccare il fuoco sarebbero stati imprevidenti greci, per impedire che i magazzini abbandonati dall' esercito ellenico in fuga cadessero nelle mani delle truppe di Ataturk. Debole o no che sia questa versione, è bizzarro che non si riesca a trovare una versione grossomodo condivisa di vicende occorse un secolo fa. Colpa del peso della memoria, ma soprattutto delle interferenze di politiche che utilizzano il massacro degli armeni per i propri fini (impedire ad Ankara l' ingresso in un' Europa che si vorrebbe "cristiana"; imporre il nazionalismo turco come ideologia di Stato, quale è sempre meno). Eppure nelle accademie turche come in quelle armene non mancano studiosi ormai decisi a guardare al passato con uno spirito di verità. Liberarsi di una storia etnicamente orientata (armena o turca, cristiana o musulmana) sarebbe un esercizio altamente salutare per tutti gli europei.
Probabilmente ci porterebbe a convenire con quanto afferma un libro che andrebbe letto nelle scuole italiane ( Sono razzista, ma sto cercando di smettere, di Guido Barbujani e Pietro Cheli, Laterza): «A qualcuno può sembrare strano, ma la storia documenta come mantenere identità ricche e complesse fosse più la regola che l' eccezione, prima dell' esaltazione monoidentitaria del Novecento. Difficile oggi immaginare la Salonicco di minareti, sinagoghe e monasteri, ottomana e poi greca, dove gli ebrei in fuga dalla Spagna cattolica hanno trovato ospitalità in una comunità che comprendeva anche il fondatore dello stato turco moderno, Ataturk; Salonicco nel cui bazar si inseguivano una dozzina di lingue, e che finisce nel momento in cui i turchi si scoprono musulmani, i greci cristiani, e cominciano le deportazioni: dei turchi nel 1912, degli ebrei nel 1943». Chiunque l' abbia incendiata, la Smirne di Antonia Arslan appartenne a quel mondo di identità plurime che il secolo scorso distrusse e che questo tende a ricostruire, tra fortissime ostilità.
(Da la Repubblica del 18.02.2009, articolo di Guido Rampolli)
 
Doc. n. 3 – Lettera della Comunità Armena di Roma a la Repubblica
Pubblichiamo di seguito  la lettera che il Consiglio per la comunità armena di Roma ha voluto indirizzare alla redazione del giornale in risposta all'articolo di Guido Rampoldi apparso su La Repubblica del 18.02.09.
Egr. Direttore,
Abbiamo letto con certo stupore e un pizzico di sgomento la recensione al libro di Antonia Arslan “La Strada di Smirne” del Dr. Guido Rampoldi apparsa su La Repubblica di oggi.
Lo stupore riguarda alcuni passaggi ed affermazioni del giornalista che riguardano la oramai acclarata verità storica del genocidio armeno perpetrato nel 1915 a danno della minoranza armena da parte dell’allora governo turco. Argomento trattato nel romanzo della Arslan.
Il Dr Rampoldi invece di limitarsi ad una recensione letteraria dell’opera si cimenta in una ricostruzione storica personale delle vicende avvenute nel 1915 facendo riferimento al  già noto e discusso libro di Guenter Lewy. Storico, che per sua stessa ammissione, dice di non conoscere né la lingua armena né quella turca e che fa una analisi della vicenda,  alquanto controversa, sposando appieno le tesi negazioniste del Governo di Ankara.
Il Dr Rampoldi tralascia (volutamente?) quella montagna di storiografia occidentale ed i numerosi storici come Marcello Flores (italiano) o Taner Akcam (turco), giusto per citarne alcuni,  che hanno invece affermato che il genocidio degli armeni è una verità storica incontestabile.
Rampoldi vuol farci credere che l'annientamento e lo sradicamento di  un milione e mezzo di armeni è dovuto solo alla circostanza che “l'avanzata dei russi e degli indipendentisti in Anatolia occidentale aveva costretto all'esodo decine di migliaia di contadini turchi, che riparati in Anatolia orientale pensarono di vendicare i lutti e di recuperare le proprietà perse rifacendosi sugli armeni.”?
Oppure è rimasto l’unico ad affermare che  “ad appiccare il fuoco (di Smirne) sarebbero stati imprevidenti greci, per impedire che i magazzini abbandonati dall'esercito ellenico in fuga cadessero nelle mani delle truppe di Ataturk”... quando questa tesi è stata ampiamente smentita dagli stessi studiosi e giornalisti turchi in articoli ed opinioni che hanno riempito, nemmeno un anno fa, pagine di giornali?
Non è la prima volta che ci vediamo costretti a manifestare la nostra ferma contrarietà a certe affermazioni del Suo giornale. Affermazioni che feriscono la memoria dei sopravvissuti e sminuiscono l’opera di tanti eccellenti storici anche turchi.
Proprio adesso che in Turchia dove l’opinione pubblica si sta svegliando da un letargo durato fin troppo e dove un gruppo di intellettuali ha lanciato una campagna di scuse verso i fratelli armeni  “per gli avvenimenti del 1915” crea certo stupore e sgomento leggere sulle pagine di un quotidiano italiano frasi come: “E qui forse la memoria tramandata dai sopravvissuti non sembra corrispondere esattamente alla verità storica.” Oppure “Indiscutibile l’aggressione alla minoranza armena ma non fu una “soluzione finale”.
Sempre più spesso la storia del genocidio degli armeni si trasferisce sulle pagine dei giornali regalandoci, ahinoi, talvolta una verità faziosa e distorta.