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Notizie dal Mondo 22/28 febbraio

di rivistaindipendenza - 02/03/2006

Fonte: rivistaindipendenza.org

 

Kosovo. 22 febbraio. Al prossimo 17 marzo un nuovo incontro negoziale sul futuro del Kosovo. Argomenti in discussione saranno: il decentramento, la finanza locale, la cooperazione tra municipalità e i legami di alcune di queste con quelle serbe, che rimarrebbero al di là di una ipotetica frontiera. Lo ha annunciato il mediatore dell’ONU Albert Rohan. Secondo il ministro kosovaro dell’Amministrazione Locale, Lufti Haziri, ieri «abbiamo assistito all’inizio di un processo che va a condurre il Kosovo all’indipendenza». Dal canto suo, Leon Kojen, delegato serbo e consigliere del presidente, Boris Tadic, ha rilevato che le posizioni sono inconciliabili: «Noi respingiamo l’idea che il Kosovo sfugga all’integrità e alla sovranità serba, mentre nell’altro campo esiste un ardente desiderio di indipendenza». Rohan ha espresso la speranza che i tempi del dibattito si accelerino e che la questione possa chiudersi questo stesso anno.

 

Kosovo. 22 febbraio. La Serbia sembra aver ricevuto contro-assicurazioni sulla futura adesione all’Unione Europea in cambio di una maggiore disponibilità al compromesso sulla questione kosovara. Al Kosovo, dall’altra parte, è stata data più o meno l’assicurazione della futura indipendenza, ma con tappe graduali, il cui raggiungimento dipende soprattutto dalle capacità degli stessi kosovari. L’abile tecnica negoziale, sotto la regia delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, ha condotto a concludere, in modo cauto, una prima tornata di colloqui incentrata su problemi di natura amministrativa, relativi al decentramento e alla nuova organizzazione del Kosovo, piuttosto che direttamente sullo spinoso e controverso tema dell’indipendenza. I delegati si sono scambiati opinioni su argomenti non di “stretta attualità politica”, bensì trovando un terreno comune di discussione: gli assetti delle amministrazioni municipali, la tutela della salute, l’organizzazione scolastica e della cultura, l’organizzazione dello Stato sociale, la polizia e la giustizia. Il tutto discusso nell’attesa della formulazione di una decisione finale più ampia. In altre parole sono state per ora approcciate tutte quelle questioni che, nel quadro di un accordo generale (ancora però da raggiungere), costituirebbero allegati o appendici.

 

Kosovo. 22 febbraio. Da parte serba sono stati sottolineati alcuni aspetti positivi di questa prima fase di incontri: in primo luogo il concetto di indipendenza condizionata, accettato –secondo i serbi– anche dai leader kosovari. La questione tuttavia è tutt’altro che sciolta. Viene riconosciuto agli albanesi del Kosovo il diritto a costruire il proprio futuro e contemporaneamente non viene reciso il legame dei serbi con la madrepatria. Il Kosovo dovrebbe avere un autogoverno proprio e una limitata capacità di relazioni esterne nel quadro dell’integrazione europea e della normalizzazione dei rapporti con Belgrado mentre, in modo speculare, i serbi e le altre minoranze continueranno a mantenere dei rapporti orizzontali con le istituzioni serbe sul piano educativo, sociale e sanitario. La Serbia non vedrà modificati i proprii confini né subirà l’amputazione del Kosovo. In generale pertanto i confini dei Balcani non saranno messi in discussione. Indirettamente Bosnia e Macedonia vedono rinforzata la loro situazione in quanto viene esclusa la possibilità di una divisione della Macedonia secondo una linea etnica e si allontana il pericolo di una secessione della Repubblica Serba di Bosnia mentre, dall’altro lato, si esclude la possibilità di creare una Grande Albania o un secondo Stato etnicamente albanese. L’Unione Europea diventerà il garante della stabilità nella regione. Questo aspetto assume una particolare importanza perché alla fine del 2008 è previsto l’ingresso della Romania e della Bulgaria e lo status del Kosovo riceverà un’ulteriore garanzia strutturale che si rinforzerà ancora dopo l’ingresso della Serbia nell’Unione. In questo quadro si ritiene prevedibile un alleggerimento degli impegni militari della NATO e una probabile sostituzione con forze di stabilizzazione a guida europea. Altri Paesi alle prese con movimenti secessionisti dovrebbero inoltre veder ridurre le tensioni interne, non essendosi stabilito un pericoloso precedente in tema di indipendenza unilaterale (cfr recenti dichiarazioni di Putin sul Kosovo e pensando al Caucaso, in “Notizie dal mondo” Georgia. 5 febbraio). Allo stato ognuna delle due parti è in realtà convinta che sia l’altra ad accettare gli aspetti più scomodi del compromesso. Si proseguirà a Vienna il 17 marzo.

 

Palestina. 22 febbraio. Mazen affida a Haniyeh la formazione del nuovo governo. L’incarico del presidente Abu Mazen è arrivato ieri. Come era nelle previsioni, la scelta è toccata a Ismail Haniyeh, candidato della formazione (Hamas) vincitrice delle elezioni, che ora ha cinque settimane di tempo per formarlo. Haniyeh ha subito dichiarato che lavorerà per un «governo di unità nazionale», quantunque il suo partito abbia i numeri (74 seggi su 132) per governare da sola. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) ha già risposto positivamente, non così la Jihad Islamica che vuole mano libera nella resistenza. Abu Mazen, da parte sua, insiste nel reclamare da Hamas il riconoscimento degli accordi firmati con Israele dall’Autorità Palestinese.


Palestina. 22 febbraio. Ismail Abdou Al-Salam Ahmed Haniyeh, Abu Abed, è figlio della resistenza palestinese. Nato in un campo di rifugiati, è stato tre volte nelle carceri israeliane ed è sopravvissuto ad un attacco aereo israeliano (settembre 2003). La prima esperienza tra le sbarre durò 18 giorni (dicembre 1987) poco dopo l’inizio della prima Intifada. La seconda detenzione è del gennaio 1988, quando trascorse sei mesi di arresto amministrativo in una prigione israeliana nel deserto del Neghev. La terza, nel maggio 1989, quando fu condannato a tre anni di carcere. Nel dicembre 1992, l’allora primo ministro d’Israele, Isaac Rabin, ordinò la deportazione di 452 dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica nel sud del Libano. Haniyeh figurava tra questi prigionieri e non tornò nella Striscia di Gaza fino al 1993. Quarantatreenne, è già nonno. Sposatosi da studente ha tredici figli. Un fatto molto abituale in tutta la società palestinese. L’agenzia islamica Centro Palestinese di Informazione sottolinea «la sua calma, la sua moderazione e la sua insistenza sull’unità nazionale», oltre «le sue buone e forti relazioni con i capi di tutte le organizzazioni palestinesi».

 

USA. 22 febbraio. Sono quasi cento i prigionieri morti in Afghanistan ed Iraq sotto custodia degli Stati Uniti. Secondo un rapporto del gruppo sui diritti umani, Human Rights First, presentato in anteprima dal programa Newsnight, della BBC, almeno 34 dei 98 morti di cui è stato possibile accertare sono classificati come omicidi «causati in modo intenzionale o negligente». Altri 11 casi sono considerati sospetti, tra gli otto ed i dodici riguardano prigionieri torturati fino alla morte. Secondo la portavoce del gruppo, Deborah Pearlstein, il numero dei morti può, però, essere molto più alto.

 

Haiti. 22 febbraio. Il presidente di Haiti, René Préval, ha affermato che la Costituzione consente il ritorno dell'ex capo dello Stato, Aristide. «Lo può fare poiché l'art. 41 stabilisce che nessun haitiano ha bisogno di un visto per entrare o uscire dal Paese», ha precisato Préval, a suo tempo uno stretto collaboratore dell'ex presidente. La cornice è stata quella della sua prima conferenza stampa dopo la vittoria alle elezioni del 7 febbraio scorso. Aristide si trova attualmente in esilio a Pretoria (Sudafrica).

 

Euskal Herria. 23 febbraio. «Il diritto di autodeterminazione non esiste nei paesi democratici». Zapatero ha replicato così, ieri, al Partito Popolare (PP). Come tutti i mercoledì, il Congresso  spagnolo è stato scenario di una serie di interrogazioni cui risponde lo stesso capo del governo José Luis Rodríguez Zapatero. Ad una di queste domande, posta dall’esponente del PP, Mariano Rajoy, («Garantisce il presidente del governo che Lei ed il suo partito non negozieranno né accetteranno il diritto di autodeterminazione?»), questi ha replicato che non avrebbe negoziato intorno a tale diritto giacché «non esiste nell’ordinamento costituzionale spagnolo né in quello di nessun paese democratico». Stridono queste parole con quelle usate da Zapatero più volte, su questioni di geopolitica mondiale, invocando l’ONU che da almeno 60anni, nella sua carta, prevede questo diritto. Certo, l’ONU reale è profondamente diversa dall’ONU ideale dei suoi principi, ma tant’è. Nella carta ONU è sancito il diritto all’autodeterminazione. Forse, per Zapatero, l’ONU è un organismo non democratico. E nel processo di pace non ancora cominciato nei Paesi Baschi, come sarà presa questa dichiarazione? Come una dichiarazione di guerra?

 

Corsica. 23 febbraio. La Corte di Appello di Parigi ha assolto ieri i militanti indipendentisti còrsi Vincent Andriuzzi e Jean Castela per la morte, in un attentato nel 1998, del prefetto francese Claude Erignac. Castela e Andriuzzi erano stati condannati a 30 anni di carcere nel luglio 2003. Il tribunale però ha mantenuto la condanna rispettivamente di dieci ed otto anni per vari attentati senza vittime tra il 1994 ed il 1997.

 

Iraq. 23 febbraio. La distruzione della Moschea di Askariyah o Moschea Dorata di Samarra ha scatenato un’ondata di proteste degli sciiti in tutto l’Iraq, con attacchi a 29 luoghi di culto sunniti e decine di morti. La Moschea di Askariyah è una delle più venerate dagli sciiti d’Iraq perché tomba dei tre imam sciiti dei secoli XI e XII, Ali al Hadi e Al Hasan al Askari. Secondo la tradizione è stata edificata nel luogo dove scomparve l’imam Mahdi, figlio di Al Askari, nell’878. Dopo l’esplosione, migliaia di persone si sono radunate gridando slogan contro il «terrorismo» e contro le truppe statunitensi ed il governo iracheno, accusato di non proteggere i santuari. Nel popoloso quartiere sciita di Sadr City, a Baghdad, migliaia di sciiti, militanti dell’Esercito del Mahdi, alcuni dei quali con Kalashnikov, hanno dato vita ad una manifestazione antistatunitense. La loro guida spirituale di riferimento, lo sciita Muqtada al-Sadr, ha interrotto la sua visita in Libano, dove pensava di restare per una decina di giorni, per tornare in Iraq. Dal canto suo l’Associazione degli Ulema Musulmani, massima rappresentanza religiosa sunnita in Iraq, ha condannato l’attacco e lo ha definito come «un atto criminale che mira ad istigare, in questa fase critica, scontri settari».


Iraq. 23 febbraio. L’ambasciatore statunitense a Baghdad, Zalmay Khalilzad, ha detto che Washington non gradisce che ai ministeri della Difesa e degli Interni siedano sciiti. Lo ha fatto usando un linguaggio diplomatico, esprimendo cioè il gradimento di Washington che, a ricoprire detti ministeri, siano «figure non settarie».


Iraq. 23 febbraio. L’esponente radicale sciita Moqtada Sadr ha lanciato un appello a sciiti e sunniti perché pongano fine alle violenze interreligiose in Iraq. I disordini nel paese si sono intensificati dopo l'attentato di ieri alla moschea di Samarra. «L'unità dell'Iraq», ha detto Moqtada Sadr in un'intervista ad al Jazira, «è una nostra precisa responsabilità». L'esponente sciita ha poi evocato il piano «dell'occupante statunitense di fomentare la guerra confessionale».

 

Iraq. 23 febbraio. Moqtada al-Sadr sta giocando un ruolo chiave nel quadro politico iracheno. I voti dei suoi seguaci, oltre il 20% nell’Alleanza Unita Irachena (il listone sciita) e un altro 12% di altri sadristi, sono stati determinanti nell’elezione di Al Jaafari come primo ministro, a scapito del candidato preferito dallo SCIRI. Questo movimento ha portato al Jaafari, il cui partito ha poco peso nell’Alleanza, a dipendere dalla politica di al-Sadr, e questo non è apprezzato dai kurdi e men che meno dagli Stati Uniti. Recentemente al-Sadr ha visitado Iran, Giordania, Siria e Libano, mantenendo incontri al più alto livello, prova del peso che ha acquisito negli ultimi mesi. Uno sviluppo molto poco gradito, eufemisticamente parlando, a Washington.

 

Iran / Palestina. 23 febbraio. Il segretario del Tribunale Supremo dell’Iran, Ali Larijani, ha detto ieri che il suo paese «sicuramente» aiuterà il nuovo governo palestinese. Lo ha detto riferendosi al blocco finanziario messo in atto da Israele sui fondi legittimi dell’Autorità Nazionale Palestinese dopo l’esito non gradito del voto democratico nei Territori Occupati,

 

Sri Lanka. 23 febbraio. Tamil e governo cingalese a colloquio a Ginevra. Il capo negoziatore della guerriglia tamil, Anton Balasingham, ed i delegati del governo dello Sri Lanka si sono incontrati ieri per la prima volta in tre anni per rinegoziare il cessate-il-fuoco del 2002, che ieri compiva il suo quarto anniversario. L’incontro è avvenuto sotto la supervisione del mediatore norvegese Erik Solheim. Il rappresentante delle Tigri di Liberazione della Terra Tamil (LTTE) ha definito l’accordo come «uno strumento valido per la pace» e respinto l’intento della controparte di introdurre cambiamenti. Balasingham ritiene che ciò che manca non è l’accordo in sé, ma la sua mancata applicazione. In tal senso ha rimproverato ai rappresentanti del governo di non aver adempiuto ai propri obblighi, come disarmare i «paramilitari non autorizzati» ed evacuare le centinaia di templi hindu e scuole occupate dall’esercito nelle zone tamil. Il ministro Nimal Siripala de Silva, delegato del governo, ha condannato le violazioni del cessate-il-fuoco.

 

Svizzera. 24 febbraio. Il senatore svizzero Dick Marty, che dirige l’inchiesta del Consiglio d’Europa sulle attività della CIA, critica la «passività» delle autorità europee ed ha sottolineato che «nessun governo» dell’Unione Europea ha messo sotto inchiesta Washington per i sequestri effettuati dai servizi segreti statunitensi in Europa. Sul grado di possibile connivenza delle autorità europee con i voli e carceri segrete degli Stati Uniti, Marty ha detto di ritenere che «certi governi non sapessero niente, ma mi risulta difficile pensare che i loro servizi segreti non sapessero niente».

 

Turchia / Kurdistan. 24 febbraio. Otto guerriglieri curdi del PKK sono stati uccisi in scontri con l'esercito turco avvenuti ieri e oggi nel sudest della Turchia. Lo hanno reso noto fonti vicine alle forze di sicurezza locali. I disordini si sono verificati vicino alla frazione di Belen, nella provincia di Mardin. Secondo le autorità locali in questa zona, a un centinaio di chilometri dal confine con la Siria, sono in corso operazioni delle forze di sicurezza turche.

 

Iraq. 24 febbraio. Guerra civile tra sunniti e sciiti dopo l’attentato alla moschea di Samarra? Sami Ramadani, esule politico del regime di Saddam Hussein in Gran Bretagna, dove insegna alla Metropolitan University di Londra, non lo crede. In un articolo su The Guardian, Ramadani afferma che gli sciiti non hanno preso di mira le moschee sunnite, bensì «le bandiere USA. Lo slogan che li unificava due giorni fa era: “Kalla, kalla Amrica, kalla kalla lill-irhab”, no all’America, no al terrorismo. Unanime le accuse rivolte agli USA dagli esponenti religiosi sciiti più ascoltati (…) Fra questi c’erano Moqtada al-Sadr; Nasrallah il leader degli Hezbollah in Libano; l’Ayatollah Khalisi, leader dell’Iraqi National Foundation Congress; il Grande Ayatollah Khamenei, la Guida spirituale dell’Iran. Assieme al Grande Ayatollah Sistani, essi hanno inoltre dichiarato che attaccare i sunniti è un “peccato” grave, così come hanno fatto tutti gli esponenti religiosi sunniti riguardo gli attacchi contro gli sciiti».

 

Iraq. 24 febbraio. E gli attacchi contro le moschee e simboli religiosi sunniti? «Nessuno è stato compiuto dai cortei di protesta in massima parte spontanei (…) Come hanno mostrato chiaramente le manifestazioni di mercoledì tramesse in diretta sulle TV satellitari irachene e arabe, il sentimento popolare era contro l’occupazione piuttosto che di tipo confessionale». E allora? «I resoconti indicano che essi sono stati opera di uomini armati mascherati (...) L’Iraq è inondato di voci sulla collusione delle forze di occupazione e dei loro protetti iracheni con gli attacchi a carattere confessionale e gli squadroni della morte: l’opinione diffusa è che gli USA stanno alimentando la divisione confessionale per impedire l’emergere di una resistenza nazionale unita. Prove del loro coinvolgimento nelle ritorsioni contro i sunniti sono state raccolte dal Times, secondo cui, dopo un attacco armato contro la moschea sunnita di al-Quds a Baghdad, uomini armati sono risaliti su sei automobili, mentre i soldati della Guardia Nazionale irachena controllata dagli USA che gli avevano fatto strada per lasciare la zona li incitavano».

 

Iraq. 24 febbraio. Gli Stati Uniti mirano dunque a far scoppiare una guerra civile generalizzata che agevoli la loro occupazione, soprattutto in vista di un attacco all’Iran. Gli esiti sono però infruttuosi, ritiene Ramadani. «Due anni fa sostenevo su queste pagine che l’obiettivo degli Stati Uniti di installare un regime vassallo filo-USA a Baghdad rischiava di far precipitare il paese in una guerra non di arabi contro kurdi o di sunniti contro sciiti, ma fra una minoranza (di tutte le confessioni ed etnie) appoggiata dagli USA contro la maggiornza degli iracheni. È questa la direzione in cui sta andando l’Iraq». I piani predisposti dall’ambasciatore USA a Baghdad, Zalmay Khalilzad, organizzatore dell’opposizione filo-USA prima dell’invasione ed uno degli ideatori della divisione confessionale dell’Iraq, non stanno avendo l’esito sperato. Determinante il ruolo di Moqtada al-Sadr, rafforzatosi dopo le elezioni di dicembre, che ha operato per marginalizzare lo SCIRI, «la fazione sciita più propensa a lavorare con gli USA», ed imporre «Ibrahim Ja'afari come primo ministro contro l’uomo dello Sciri appoggiato dagli USA, Adel Abdel Mahdi. Khalilzad è inamovibile sul fatto che i sostenitori di Sadr non dovrebbero essere in grado di esercitare una tale influenza». Per Bush&compagnia, non c’è soluzione politica possibile per le proprie ambizioni. Dice Ramadani: «liberati da questa occupazione odiata, gli iracheni fieri e indipendenti non eleggeranno mai un insieme di pupilli appoggiati dagli USA e dalla Gran Bretagna».

 

Iraq. 25 febbraio. Al Qaeda non ha nulla a che fare con la distruzione della Moschea sciita di Samarra. Lo ha comunicato ieri il luogotenente dell’organizzazione di Bin Laden in Iraq, Zarqawi, in genere pronto a rivendicare i suoi attentati. Intanto testimonianze raccolte a Samarra da Baghdad Dweller e diffuse da Rebelión puntano il dito sulle truppe occupanti. Muhammad Al-Samarrai, proprietario di un ciber-café vicino alla moschea, dice che dormiva nello stabilimento «perché mi preoccupa che dei ladri mi possano rubare gli ordinativi». Alle 20.30 «forze congiunte della Guardia Nazionale Irachena e soldati statunitensi mi hanno detto di non uscire. Se ne sono andati dopo mezz’ora. Alle 23.00 tornano e cominciano a pattugliare l’area fino alla mattina». Alle sei della mattina del giorno seguente «la Guardia Nazionale abbandona la zona. Gli statunitensi se ne vanno mezz’ora più tardi. E solo dieci minuti dopo si è prodotta la prima esplosione», alla quale è seguita un’altra cinque minuti più tardi. Un altro testimone, anonimo, conferma detta versione in relazione alla Guardia Nazionale, senza menzionare gli statunitensi. «Mi chiedo come i terroristi abbiano potuto entrare nella zona se è normalmente controllata dalla Guardia Nazionale Irachena e come siano potuti passare per la strada che porta alla moschea senza essere fermati dalla polizia», ragiona dopo aver riflettuto su ciò che aveva visto e sentito.

 

USA / Mondo arabo. 25 febbraio. Deludente il tour arabo di Condoleezza Rice. La segretaria di Stato USA non è riuscita ad ottenere l’appoggio arabo che Washington desiderava per isolare sia il movimento palestinese Hamas, vincitore delle elezioni palestinesi di gennaio, sia l’Iran sul suo programma nucleare. In quasi tutte le sue tappe (­Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Libano­), la Rice ha registrato un’attitudine reticente ad isolare Hamas. Pressoché unanime il messaggio che «bisogna dar tempo» a questo movimento. Il più chiaro è stato il ministro degli Esteri saudita, Saud al Faisal, che ha espresso l’impegno del suo paese nel continuare a sostenere finanziariamente i palestinesi ed ha avvertito del pericolo di «emettere giudizi anticipati» prima di conoscere la politica che applicherà Hamas. Secondo osservatori, l’unica cosa che ha ottenuto la diplomazia statunitense è l’impegno dell’Egitto «ad esercitare i suoi buoni uffici con Hamas per indurlo alla negoziazione con Israele». La stampa araba ed internazionale si sta interrogando, in questi giorni, sul perché gli Stati Uniti abbiano esercitato forti pressioni a che si tenessero elezioni in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e, una volta celebrate e sancite dalla vittoria di Hamas, si stiano impegnando a boicottare i vincitori.

 

USA / Mondo arabo. 25 febbraio. Sul programma nucleare iraniano, gli interlocutori arabi hanno chiesto alla Rice di farla finita con le armi nucleari di Israele. Le hanno ricordato che «tutto il Medio Oriente» deve essere libero dalle armi nucleari, quindi anche da quelle di Israele.

 

USA / Libano. 25 febbraio. Nella sua tappa libanese la Rice ha chiesto ai suoi numerosi interlocutori l’adempimento della risoluzione 1559 dell’ONU, che esige il disarmo di Hezbollah, il movimento di resistenza nazionale oggi tra le componenti al governo. Hezbollah, in concomitanza con l’arrivo della Rice, ha organizzato una manifestazione oceanica di centinaia di migliaia di libanesi. Hassan Nasrallah ha invitato la Rice ad inviare soldati per disarmare Hezbollah.


USA / Iran. 25 febbraio. Bush: l’Iran è «sponsor del terrorismo». Parlando ieri a un gruppo di reduci, il presidente George Bush ha detto che: «una società non trasparente che sia la principale sponsor del terrorismo nel mondo non può avere il permesso di possedere le più pericolose armi del mondo». Ha quindi aggiunto che il regime iraniano è «una piccola élite religiosa che isola e opprime il suo popolo», implicitamente ponendo gli Stati Uniti come liberatori. Intanto al momento è l’Iraq che preme drammaticamente alle porte e che non ne vuole sapere dei “liberatori” statunitensi e dei suoi vassalli.

 

Russia. 26 febbraio. La Duma, la camera bassa del parlamento russo, ha approvato in via definitiva un progetto di legge «contro il terrorismo». La nuova legge consentirà all'esercito di abbattere un aereo di linea dirottato e di colpire obiettivi considerati «terroristici» all'estero. Il testo precisa che la decisione di impegnare «forze antiterrorismo» all'estero spetta al presidente.

 

Iran / Russia. 26 febbraio. Preaccordo tra Iran e Russia sull'arricchimento dell'uranio in territorio russo destinato a centrali nucleari iraniane. Il responsabile dell'agenzia iraniana per l'energia nucleare, Aghazadeh, che ha incontrato il suo omologo russo, Kirienko, a Bushehr, ha detto che è stato raggiunto un «accordo di massima» per costituire una «società multinazionale» che gestisca l'arricchimento dell'uranio iraniano. I dettagli dovranno essere discussi nei prossimi giorni a Mosca.

 

Iran / USA / Israele. 26 febbraio. Teheran: se Bush ci attacca, bombe sui siti nucleari d’Israele. È quanto riporta il sito israeliano Haaretz.com. In caso di attacco militare degli Stati Uniti, la Repubblica Islamica si dichiara pronta a colpire i siti nucleari e le fabbriche di Israele ad Haifa o nell’area di Zakhariya. Haifa è la località con la più forte concentrazione di industrie chimiche e di raffinerie del Paese. Zakharuya è l’area commerciale della zona: nei pressi, c’è la base missilistica israeliana di Gerico.

 

USA / Giappone. 26 febbraio. Gli Stati Uniti hanno proposto al governo di Tokyo il ritiro di 8mila marines dall'arcipelago di Okinawa. Il gesto di Washington si inserisce nel dibattito sullo spiegamento di forze USA nel paese, scrive il quotidiano Yomiuri. Il numero previsto nel programma di disimpegno delle forze USA dal Giappone è di 7mila marines, che verranno trasferiti sull'isola di Guam, nel Pacifico. Le truppe statunitensi ad Okinawa si ridurrebbero a 11mila uomini.

 

Euskal Herria. 27 febbraio. Trovato morto nella prigione di Cuenca il prigioniero politico basco Igor Ángulo Iturrate. Secondo fonti penitenziarie spagnole citate dalle agenzie stampa, il suo corpo è stato trovato «appeso alla grata della finestra della sua cella con un laccio da stivali». Hanno aggiunto che «aveva un laccio intrecciato nelle mani ed una sedia di fianco al corpo», «si trovava solo nella cella», che «al momento non si è trovata nessuna lettera e neanche si era a conoscenza che avesse problemi psicologici». Angolo Iturrate, 33 anni, fu arrestato dalla Guardia Civil a Iruñea, all'alba del 28 novembre 1996, insieme a Pedro Zubizarreta Balboa. Nel marzo del 2001 fu trasferito nel carcere di Cuenca, unico prigioniero politico basco qui imprigionato, ad oltre 600 chilometri dalla sua località natale, Santurtzi. Le autorità spagnole gli hanno applicato ripetutamente la politica di dispersione penitenziaria. Le sue precedenti prigioni erano state Carabanchel, Soto del Real, Curtis, Aranjuez e, alla fine, Cuenca. Dopo la sua detenzione nel 1996, Igor Ángulo denunciò di essere stato oggetto di torture da parte della Guardia Civil nel periodo di isolamento. Torturaren Aurkako Taldea ricorda la sua testimonianza: «il momento della detenzione fu molto violento. Per i colpi che gli avevano inferto, perse conoscenza e gli dovettero essere applicati cinque punti di sutura nella parte posteriore sinistra della testa (...). Ripresi i sensi fu oggetto di un forte colpo alla testa con il calcio di un arma lunga da fuoco e di calci ai testicoli e nello stomaco. Durante i giorni di isolamento ed i costanti interrogatori senza assistenza, ricevette colpi al viso, alla testa, sul collo». Quattro mesi fa, un altro prigioniero politico basco è stato ritrovato cadavere in cella. Sono dodici dal 1985; gli ultimi tre casi si sono registrati in meno di due anni. Ad Angulo era stata imputata l’appartenenza al «comando Nafarroa» di ETA. Questo solo fatto, pur senza che gli fosse imputato alcun attentato, gli aveva comportato la condanna a 34 anni di carcere. I familiari escludono l’idea del suicidio. Secondo il cognato, Oscar Lorenzo, «la famiglia esclude il suicidio. Per come era e per come stava d’animo in questi ultimi tempi. Due settimane fa eravamo andati a trovarlo e questo scorso fine settimana lo avevano fatto due sue amiche. Tutti lo vedevamo molto bene di spirito e molto felice per il figlio che aveva».

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Euskal Herria. 27 febbraio. Sotto accusa la politica carceraria del PSOE, per la morte di Igor Angulo, prigioniero politico basco. Condanne unanimi da partiti della sinistra abertzale (patriottica, ndr) come Batasuna, Aralar e ANV, e anche dai due sindacati più rappresentativi dei Paesi Baschi, LAB ed ELA. Batasuna ritiene «prioritario chiarire le circostanze di questa morte». Intanto scontri si sono avuti con la polizia autonomica a Donostia. Concentrazioni e manifestazioni anche a Deusto, Bakio, Ataun, Aulesti, Gasteiz, Errenteria-Orereta, Andoain, Legorreta, Beasain, Iturrama-Iruñea, Altza-Donostia, Zarautz, Arrosa-dia-Iruñea, Eskoriatza, Alde Zaharra de Iruñea, Baiona, Zumaia, Elorrio, Zamudio, Ordizia, Lazkao, Zaldibia, Berango, Ondarroa, Abadiño, Villabona-Amasa, Altsasu, Euba, Urduliz, Deba, Astigarraga, Bera, Otxarkoaga-Bilbo, Leioa, Antsoain e Iurreta. A Santutxu sono state alzate barricate.

 

Iraq. 27 febbraio. L’autorevole esponente sciita Moqtada al-Sadr chiama a manifestazioni e a preghiere congiunte tra sunniti e sciiti per la partenza delle truppe USA, britanniche e di tutte le altre straniere dall’Iraq. «I capi delle preghiere del venerdì di tutto l’Iraq, dal nord al sud e da est ad ovest, devono chiedere una dimostrazione pacifica che sia partecipata da tutte le componenti della popolazione irachena (…) Il popolo iracheno è uno, da nord a sud». Moqtada chiede inoltre che le preghiere del venerdì siano partecipate assieme da sunniti e sciiti, asserendo che «non ci sono moschee di sciiti o di sunniti; siete un unico popolo». Moqtada ha poi puntato l’indice sulle forze di occupazione, che intendono scatenare l’odio confessionale. «Desiderate aiutare il nemico? Far trionfare l’occupante? Desiderate la vittoria di Satana od aiutare la verità? Se brucerete le moschee, aiuterete il bene o il male?», ha domandato retoricamente Moqtada, che ammonisce: «questa serie di attacchi non è la prima e non sarà l’ultima. Gli attacchi continueranno. Siate calmi e responsabili. La religione è la vostra responsabilità, le moschee sono la vostra responsabilità, la gente musulmana è la vostra responsabilità (…) Amatevi l’un l’altro e preoccupatevi l’un dell’altro in modo che il nostro Iraq sia sicuro, stabile ed indipendente. Desideriamo l’espulsione dell’occupante».

 

Israele. 27 febbraio. Abbas è «irrilevante». Ieri la ministra israeliana degli Esteri, Tzipi Livni, ha definito il presidente palestinese, Abu Mazen, «irrilevante», lo stesso termine usato da Israele per isolare diplomaticamente Arafat. «Abu Mazen (soprannome di Mahmud Abbas, ndr) non può essere il volto presentabile di un governo terrorista», ha detto la Livni alla radio pubblica israeliana dopo essersi incontrata con il sottosegretario di Stato USA per il Medio Oriente, David Welch.

 

Taiwan. 27 febbraio. Sfidando Cina e USA, il presidente taiwanese Chen Shui-bian ha abolito il Consiglio Nazionale per l'Unificazione. Il Consiglio esisteva solo sulla carta ma era simbolo della volontà di ricongiungersi un giorno alla madrepatria. Taiwan, di fatto indipendente dal 1949, è considerata dalla Cina una provincia ribelle. Pechino ha minacciato più volte un attacco militare. Washington si è dichiarata contraria a qualsiasi iniziativa che modifichi lo status quo.

 

Unione Europea. 28 febbraio. L’Unione Europea sblocca 120 milioni, congelati da quando Hamas ha vinto le elezioni, per evitare il collasso economico dell'Autorità Nazionale Palestinese, ad appena due settimane dalla bancarotta e dal caos. Non è un gesto d'apertura nei confronti del movimento islamico considerato dall'UE e dagli Stati Uniti un'«organizzazione terroristica», ma un'operazione tampone che rientra nell'accordo di sostenere, per «ragioni umanitarie», la popolazione palestinese e il suo governo fino al momento in cui sarà Hamas a guidarlo. «Dopo», è l'auspicio del ministro degli Esteri israeliano che non ha criticato l'iniziativa europea, «le cose dovrebbero cambiare». Resta la contraddizone di fondo. Questa stessa popolazione sarà penalizzata quando a guidare il governo sarà Hamas? La commissaria europea ha spiegato come saranno utilizzati i fondi: 40 milioni andranno a pagare le bollette energetiche, ossia finiranno in gran parte in Israele dove una compagnia privata ha già sospeso il rifornimento di benzina e gas da cucina, 64 milioni sono il versamento annuale all'Unrwa, l'agenzia dell'ONU per i rifugiati, e 35 milioni sono per i salari dei dipendenti pubblici e delle forze di sicurezza.

 

Germania / USA / Iraq. 28 febbraio. La Germania al tempo dell’invasione dell’Iraq? Un paese critico particolarmente vociferante, ma alla fine un «non membro della coalizione cooperante». Arrivano ulteriori indiscrezioni sul ruolo tedesco nell’invasione dell’Iraq. A pochi giorni dall’ammissione di Berlino di aver fornito collaborazione «limitata» a Washington con i suoi servizi segreti (BND), una relazione del Pentagono assicura che la cooperazione è arrivata sino a consegnare nelle mani del Comando USA il piano difensivo di Baghdad. Il rapporto, reso noto da The New York Times, include l’Egitto e l’Arabia Saudita, anche loro ufficialmente ostili all'intervento militare statunitense, ma inseriti da Washington nella categoria degli «alleati silenziosi» (l’Egitto permettendo l’atterraggio sul suo territorio di aerei USA ed il passaggio per il Mar Rosso di navi lancia missili di crociera; l’Arabia Saudita permettendo alla Forza Delta e ad altri corpi speciali attacchi contro l’Iraq).

 

Germania / USA / Iraq. 28 febbraio. È stato il “pacifismo” dell'allora cancelliere Gerhard Schroeder solo un'ipocrisia e una scelta di facciata? Gli autori del libro che uscirà nei prossimi giorni negli Stati Uniti insinuano di sì. New York Times non ha fatto altro che anticipare, ieri, aspetti scottanti contenuti nel libro "Cobra 2" scritto dal giornalista Michael Gordon e dall'ex generale statunitense Bernard Trainor che riprendono un rapporto ad hoc del Pentagono. Saddam Hussein ed i suoi comandanti si erano riuniti il 18 dicembre 2002 per modificare la strategia di difesa della capitale, che consisteva nel sigillare la strada di accesso alla città e creare un sistema di difesa basato su cerchi concentrici, il più piccolo assegnato alla Guardia Repubblicana. Spie tedesche ottennero una copia del piano che consegnarono ai loro superiori. Nel febbraio 2003, obbedendo ad ordini superiori, un ufficiale dell’intelligence tedesco in Qatar lo consegnò ad un agente dell’Agenzia di Intelligence di Difesa (DIA) statunitense, che a sua volta lo consegnò alla divisione di Intelligence del Comando Centrale del generale statunitense Tommy Franks. Il rapporto del Pentagono segnala inoltre la collaborazione delle navi tedesche nel Corno d’Africa nel blindare le rotte marittime, in piena invasione, e lo stazionamento di truppe tedesche a Camp Doha (Kuwait), ufficialmente per affrontare attacchi chimici iracheni. Il governo tedesco, per bocca del suo portavoce Ulrich Wilhelm, ha smentito come «assurde» queste informazioni. Lo stesso aveva fatto per settimane in relazione alla collaborazione dei suoi servizi segreti fino allo scorso giovedì, quando ha ammesso, in un rapporto, una collaborazione «limitata»: si identificavano obiettivi per appurare se fossero «civili e umanitari ed evitare che fossero attaccati» avvertendo gli Stati Uniti. Però, si assicura, si rimase sul terreno sino al 17 marzo, tre giorni prima dell’invasione. Anime candide!


Serbia-Montenegro. 28 febbraio. Il Montenegro cede alle pressioni dell’Unione Europea (UE). I partiti della coalizione di governo (sovranisti) hanno accettato ieri le regole imposte dalla UE per il referendum di autodeterminazione. L’inviato speciale della UE, Miroslav Lajcak, «mediatore» tra il governo e l’opposizione in Montenegro, aveva «proposto» l’esigenza, per convalidare la consultazione, che partecipi al voto più della metà del corpo elettorale e situa al 55% dei voti validi il listone minimo che devono superare i favorevoli all’indipendenza. Il governo di Podgorica riteneva bastevole il 41% degli iscritti al voto favorevoli all’indipendenza, percentuale che giustificava sulla base del fatto che la partecipazione elettorale non ha mai superato l’81%. La Serbia ritiene invece illegale che il Montenegro dichiari la sua indipendenza se non lo ratifica il 50% non già dei votanti ma degli iscritti alle liste elettorali.

 

Afghanistan. 28 febbraio. Si è conclusa con un bilancio tra i quattro ed i sette morti la rivolta di circa duemila prigionieri nel penitenziario di Pul-i-Charkhi, il più grande dell'Afghanistan. Il carcere è situato 15 km a est di Kabul. Sono una ventina i feriti. «La situazione è calma e totalmente sotto controllo», ha detto il comandante della forza di reazione rapida della polizia, Mahboob Amiri. Un portavoce dei rivoltosi ha chiamato l’Associated Press ed ha chiesto che vengano celebrati nuovi processi. Maqsodi, così ha detto di chiamarsi chi ha chiamato da uno dei blocchi ammutinati del carcere, ha sostenuto che «due terzi dei prigionieri sono innocenti e che molti processi non sono stati giusti». Di altri ha lamentato condanne eccessivamente lunghe. La rivolta è scoppiata sabato notte, con il rifiuto di indossare l’uniforme carceraria. La prigione di Policharki, costruita negli anni ’70, è divenuta tristemente nota per le dure condizioni di detenzione ed il sovraffollamento.

 

Israele. 28 febbraio. Della questione iraniana si è occupato il ministro della Difesa israeliano. La parola è, per ora, alla diplomazia, ha ammesso Shaul Mofaz rivolgendosi a una scolaresca di Tel Aviv. «Per quanto riguarda un attacco israeliano contro l'Iran, Israele ha il diritto e l'obbligo di fare qualsiasi cosa sia necessaria per difendersi... E noi lo stiamo facendo». Il ministro ha voluto fornire agli studenti anche la sua visione dei futuri confini d'Israele. Vi ha incluso numerosi insediamenti della Cisgiordania, anche alcuni di quelli che il premier ad interim Olmert aveva trascurato in un recente discorso criticato dai pacifisti israeliani e, naturalmente, dai palestinesi.

 

Filippine. 28 febbraio. Interrogativi sul presunto colpo di Stato. Il governo mantiene la sua versione del cocktail eversivo, e cioè che militari di destra, oppositori di sinistra e guerriglia del Nuovo Esercito del Popolo si siano uniti per destituire la presidentessa Gloria Macapagal Arroyo. Per questo venerdì scorso era stato dichiarato lo stato di emergenza. Ieri la notizia dell’arresto di 16 personalità (sia militari sia deputati e capi dell’opposizione) per cospirazione. Dall’anno scorso la Arroyo è sempre più oggetto di critiche per corruzione e frode elettorale e non pochi osservatori ritengono che sia la sua risposta per impedire il crescere delle manifestazioni popolari ed il loro concretarsi come avvenne proprio vent’anni fa, tra il 22 ed il 25 febbraio 1986, con le storiche manifestazioni che portarono alla caduta della dittatura di Marcos. Sotto questa presidentessa si sono riproposti molti aspetti del precedente regime dittatoriale; è cresciuto, raggiungendo cifre del passato, il numero degli attivisti di sinistra uccisi da squadroni della morte; la militarizzazione del paese è un fatto sempre più evidente, e la presenza delle truppe statunitensi è ormai visibile ed operativa in tutte le Filippine. La corruzione di politici, giudici e militari si completa con politiche pro imperialiste, contrarie fattivamente agli interessi nazionali e popolari. Ultimamente la Arroyo stava propiziando mutamenti sostanziali nella Costituzione.

 

Filippine. 28 febbraio. Recependo direttive di Washington, la Arroyo ha adottato misure che, in nome della «guerra al terrore», opera tagli alle libertà e sostanziali modifiche al sistema democratico. Sono stati facilitati gli investimenti acquisitivi stranieri (praticamente statunitensi) su terre, risorse naturali ed imprese statali e private (di qui anche un malcontento ‘a destra’). Quindi il via libera all’installazione di tutta una serie di basi USA come Washington premeva da tempo. Alle crescenti accuse di corruzione e scandali, la Arroyo ha risposto così con la denuncia di supposte trame golpiste. Sempre più nel paese, per opera di una serie di organizzazioni e militanti di sinistra, si sta diffondendo la convinzione di dover dirigere gli sforzi «non al mutamento di un presidente per un altro simile, ma a rimuovere dalle fondamenta questo sistema che le élite filippine utilizzano a proprio beneficio, ed ottenere riforme sociali ed una democrazia popolare». Il reddito pro capite è in continua discesa, la povertà sta investendo settori sociali sempre più ampi e la separazione tra la maggioranza e solo poche famiglie che dominano economicamente il paese si accresce ogni giorno (quindici famiglie controllano più della metà del Prodotto Interno Lordo).

 

Filippine. 28 febbraio. Le negoziazioni tra governo e guerriglia del Partito Comunista delle Filippine si sono arenate. Quest’ultima sta acquisendo di giorno in giorno sempre più influenza nella vita sociale e politica del paese. Anche la resistenza nel sud dell’arcipelago, condotta da differenti organizzazioni more che reclamano l’indipendenza della propria terra, hanno mostrato un governo disposto ad utilizzare tutte le armi repressive. In questo contesto si colloca la sempre più invasiva presenza militare degli Stati Uniti nel paese. Con la scusa di combattere il «terrore», Washington collabora a tutto campo nella lotta contro queste organizzazioni, presentandola come una questione di interesse mondiale. Intanto assicura nuovamente la sua presenza in uno dei luoghi geostrategici più importanti dell’Asia. Secondo analisti locali, la recente ondata di arresti della Arroyo, che non ha esitato ad incarcerare anche noti deputati, può avere corto respiro, segnando al livello più alto il grado della sua impopolarità ed essere lo snodo per l’articolazione di nuove e più incisive forme di protesta preludio a cambi nel paese. Quel che resta da verificare è se, producendosi questi cambi, il popolo filippino ripeterà gli errori del passato e si accontenterà di un cambio d’immagine, o piuttosto voglia incidere sui mali strutturali che investono il suo sistema politico e connotano le condizioni socioeconomiche della maggioranza della popolazione.