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Quando il medico era lo sciamano

di Pasquale Rotunno - 25/09/2005

Fonte: rinascita.info

Quando il medico era lo sciamano


di Pasquale Rotunno


Che cosa è la malattia? Le definizioni della malattia riflettono una realtà oggettiva o rappresentano soltanto una maniera di “organizzare intellettualmente” una realtà complessa e mutevole? Le malattie sono entità individuali e la realtà patologica è qualcosa di completamente distinto dalla realtà fisiologica (concetto ontologico della malattia)? O sono invece semplici invenzioni utili per misurare il grado di deviazione dei sistemi viventi dal funzionamento normale (concetto fisiologico o funzionalistico della malattia)? La microbiologia medica e la più recente medicina molecolare del gene hanno rilanciato il concetto ontologico della malattia. D’altro canto, alla definizione di una particolare condizione come malattia concorrono non tanto criteri obiettivi o scientifici, bensì “i sistemi di valori prevalenti in un particolare contesto storico-culturale, nonché quelli individuali”. Prima di essere oggetto di scienza, la malattia è un’esperienza riferita dal malato al suo medico. Qualcuno si è spinto a concludere che i concetti di salute e malattia sono “relativi” e dipendenti dai contesti culturale, economico e ideologico.
I tentativi di spiegare e trattare le patologie umane sono ricostruiti da Gilberto Corbellini (in foto ndr), nella sua “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Carocci editore). L’autore, docente di Storia della medicina e Bioetica all’Università La Sapienza di Roma, analizza le interpretazioni di salute e malattia che hanno accompagnato gli sviluppi delle scienze biomediche.
La storiografia medica occidentale si è interessata all’evoluzione delle idee di salute e malattia sulla base di almeno due differenti presupposti filosofico-metodologici. L’accento è stato posto di volta in volta sulle dimensioni naturalistiche o su quelle socioculturali della fenomenologia associata alla salute e alla malattia. Se la malattia è un fenomeno biologico reale; le dinamiche epidemiologiche a cui va incontro sono condizionate dal contesto sociale. Salute e malattia vengono collegate in modo interdipendente alle dimensioni socioculturali. Ogni cultura e ogni epoca avrebbero un proprio “stile patologico”, analogo allo stile artistico o alle forme della politica, e caratterizzato non solo dalle malattie fisicamente prevalenti ma, soprattutto, dai significati che le diverse civiltà e culture attribuiscono a esse. L’approccio naturalistico cerca invece di interpretare le idee di salute e malattia alla luce dei fenomeni biologici sottostanti. Un altro punto di vista è quello di Mirco Grmek (1924-2000). Egli ha valorizzato l’approccio naturalistico e allo stesso tempo le specificità socioculturali, in modo particolare l’impianto filosofico, delle teorie mediche. Grmek ipotizza l’esistenza di una dinamica globale delle malattie. Egli non si riconosceva in un approccio storiografico trionfalistico, pedagogicamente finalizzato a esaltare la superiorità delle conoscenze attuali. Preferiva una storiografia “filosofica”, che cerca di ricostruire la genesi e le trasformazioni del sapere medico leggendovi un processo di tipo evolutivo. Di fatto concepiva la storia della medicina come un sapere empirico e coltivava un’epistemologia di carattere naturalistico.
Corbellini ritiene che l’apprendimento e la comunicazione delle scienze, in particolare quelle biomediche, soffrono di una “fallacia astorica”, cioè l’assenza di senso della storia. La “fallacia astorica” si manifesta come incapacità di inquadrare i problemi conoscitivi e pratici in un più ampio contesto temporale. Alla base vi è una serie di assunzioni, che contrastano con lo spirito antidogmatico della scienza; come l’idea che l’esperto debba avere sempre ragione o che le cose dette più recentemente debbano sempre essere più vere di quelle meno recenti, o che l’aumento di informazioni produca automaticamente un accrescimento della conoscenza.
La “fallacia astorica” caratterizza anche le modalità d’insegnamento delle scienze. Trasmette una visione della scienza come processo lineare, cumulativo e inclusivo d’incremento di informazioni, soprattutto in ambito biomedico. Anche quando nelle facoltà mediche si insegna la storia della medicina, “manca una riflessione critica sulla funzione che può o dovrebbe svolgere una formazione storica, ovvero su come e che cosa possa essere utile insegnare circa la storia della medicina a chi intraprende una carriera come medico e/o ricercatore”.
Oggi sia gli insegnamenti di base sia quelli clinici “veicolano prevalentemente nozioni e tecniche, senza contestualizzarle rispetto alle dinamiche concettuali e metodologiche da cui sono scaturite e che verosimilmente ne renderanno presto superate una parte consistente”. L’inquadramento storico-epistemologico dei concetti, delle tecniche e dei problemi medici, consente “una formazione in grado di affrontare dinamicamente e positivamente i cambiamenti ed evitare le dispersioni nella selva delle informazioni e dei dettagli”.
Inizialmente le malattie furono spiegate come manifestazioni di forze occulte. La malattia apparve un fenomeno di possessione; per cui all’anima della persona si sovrapporrebbe un’anima estranea, che prende il controllo del corpo per consumarlo. Per guarire si ricorreva allo sciamano. L’intreccio tra malattia e religione è profondo e interessa le origini stesse della mentalità religiosa. Una tesi diffusa è che la formazione delle credenze religiose risponda al bisogno di costruire relazioni causali per spiegare eventi inattesi. La malattia è il principale evento stressante costantemente legato alle credenze religiose. La malattia sarebbe la conseguenza temuta per una trasgressione o per non aver dato ascolto a una prescrizione divina. Anche la paura di essere impuri e i rituali di purificazione sono presenti nella maggior parte delle forme di religione, soprattutto in quelle primitive. La concettualizzazione prescientifica della malattia tenta insomma di chiarire “la causalità del male”. Per ricostruire una condizione di normalità.
L’emergere di un pensiero razionale e naturalistico stimolò la nascita di una setta medica che si richiamava a Ippocrate. Per la prima volta si concepì la malattia come un fenomeno naturale che interferisce con uno stato di buon funzionamento dell’organismo, che è la salute. La dottrina medica ippocratica concepiva il corpo come un contenitore di umori e la malattia come uno squilibrio nei rapporti tra essi. Fu organizzata in sistema da Galeno, che per primo associò salute e malattia al funzionamento o meno di particolari organi. La rivoluzione scientifica nel Seicento portò a confutare la teoria degli umori, l’anatomia e la fisiologia di Galeno. In seguito, l’incontro delle tradizioni anatomica e clinica produce una moderna nozione anatomo-clinica della malattia.
Negli ultimi due secoli, poi, si è passati da un concetto cellulare a uno molecolare e genetico-molecolare della malattia.
La conoscenza dei diversi sistemi fisiologici (nervoso, endocrino e immunitario) e la pratica clinica hanno consentito di caratterizzare le manifestazioni della malattia a livello nervoso o in termini di carenze alimentari o funzionali.
Tuttavia è diffusa la tesi che la clinica e le discipline della salute non siano comunque scienze naturali, e che solo la conoscenza biologica della malattia meriti l’appellativo di scienza. Esisterebbe un divario incolmabile tra le componenti “scientifiche” del ragionamento clinico (che rispondono a fatti obiettivi) e quelle “umanistiche” (che hanno a che fare con la cultura dei valori). Gli approcci “biosperimentali” cercano le cause delle malattie o verificano l’efficacia di un farmaco o di un trattamento. Valorizzano perciò l’indagine condotta in laboratorio su modelli sperimentali. La tradizione biosperimentale è concentrata insomma sulla malattia, spiegata in termini di processi fisiologici deviati rispetto al suo funzionamento tipico. Ed è prevalentemente ispirata a una visione riduzionistica, che assegna alle scienze di base il ruolo guida nella medicina.
Gli approcci statistici o “epidemiologici” tendono invece a stabilire un’associazione tra stati patologici e ipotetici fattori di rischio ambientali. Più che sulla malattia questi approcci mettono l’accento sulla salute. Lo scopo degli studi epidemiologici non è la spiegazione della malattia; quanto piuttosto “l’identificazione di correlazioni tra fattori di rischio e malattie per sviluppare sistemi di prevenzione e promuovere la salute”. Sono stati applicati anche alla caratterizzazione dei fattori sociali, economici e politici della salute e della malattia. Gli approcci epidemiologici alla sanità pubblica si sono riconosciuti in una prospettiva “olistica”, tipica, ad esempio, della teoria generale dei sistemi, o nelle critiche epistemologiche del riduzionismo. La diagnosi clinica è vista come un’inferenza induttiva, che utilizza il ragionamento probabilistico per correlare i dati clinici alle ipotesi diagnostiche e quindi arrivare alla diagnosi.
Il nuovo “paradigma” dell’Evidence Based Medicine (EBM), ovvero la medicina basata sulle prove di efficacia, fa riferimento alla filosofia degli approcci epidemiologici. Chi ritiene che la medicina debba anche spiegare le malattie facendo riferimento a meccanismi biologici, “si chiede se l’EBM non stia determinando una deformazione dell’epistemologia medica”, avverte Corbellini. La metodologia statistica oggi prevalentemente usata in medicina “sta probabilmente diffondendo un’idea distorta del modo scientifico di ragionare”.
Negli anni settanta del secolo scorso l’efficacia della medicina come sistema di promozione della salute era messo in dubbio dall’interno della medicina stessa. Ad esempio, si affermava che il merito del progresso della salute umana non fosse dovuto tanto ai passi avanti fatti dalla medicina, quanto al miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione. In effetti, le principali malattie sono diventate quelle cronico-degenerative associate a stili di vita non sani. Si finiva così per mettere l’accento sulla sanità pubblica e la prevenzione. Ci si illuse che lo sviluppo di un programma sanitario nazionale avrebbe in prospettiva migliorato la salute; quindi ridotto le malattie e la domanda di servizi e i relativi costi. In realtà la spesa sanitaria ha continuato a crescere in tutti i paesi occidentali. La domanda di cure mediche cresce, infatti, via via che la società diventa più ricca; perché si alzano gli standard di salute. Il premio Nobel Amartya Sen ha dimostrato che più elevata è la spesa sanitaria di un paese, più è probabile che coloro che vi vivono si considerino malati.
La percezione della salute è influenzata dalle condizioni socioeconomiche. Il concetto di malattia include un sempre più ampio spettro di fenomeni biologici e sociali; e persino determinati stili di vita associabili al rischio di sviluppare patologie (ad esempio il consumo di grassi o di alcool). La salute è collegata alla virtù; e il controllo degli stili di vita, in nome della salute, diventa un meccanismo per combattere il vizio e per disciplinare la società nel suo insieme. Si intensificano quindi le azioni governative volte a promuovere la salute. La conseguenza, apparentemente paradossale, è l’aumento dei cosiddetti “sani preoccupati” (worried well): individui che un tempo sarebbero stati considerati sani e che oggi, incoraggiati dalla medicina “ufficiale”, si sottopongono ansiosamente a check-up e fanno indigestione di consigli più o meno sensati per evitare ogni sorta di malattia. Questa “tirannia della salute”, com’è stata definita, trasforma il ruolo del medico. Egli sta perdendo la sua autonomia professionale; diventa sempre più il tramite di politiche di controllo e mette in atto strategie allarmistiche rispetto ai rischi sanitari.
In ambito medico-scientifico prevale tuttavia l’idea che malattia e salute siano fatti oggettivi, riconducibili a definizioni empiriche e avalutative. Recentemente sono stati elaborati approcci naturalistici alla malattia.
Il processo d’adattamento evoluzionistico consente di definire la malattia come “incongruenza tra l’organismo individuale e qualche aspetto dell’ambiente, interno o esterno”. Nella prospettiva neodarwiniana – spiega Corbellini – “le cause immediate e precipitanti delle malattie sono il risultato della ‘convergenza’ di predisposizioni biologiche e culturali portate all’interno delle famiglie dall’ereditarietà dei geni e delle abitudini”. La visione evoluzionistica della malattia è “allo stesso tempo biologica e socioculturale”. Tiene conto sia dei fattori evolutivi e funzionali, sia del peso dell’esperienza individuale in un determinato contesto socioculturale. Le conoscenze neurobiologiche e neuropsicologiche cominciano ora a indicare quali sono le basi fisiologiche delle dimensioni soggettive o relative che salute e malattia tendono ad assumere.