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Il paesaggio è la nostra casa

di Luisa Bonesio - 19/03/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 

 


 

1. Conservazione: una parola scomoda

La questione (e il termine stesso) della "conservazione" è un problema cruciale e ineludibile, difficile da pensare e da argomentare, per l’immediata - quanto spesso irriflessa e pregiudiziale - diffidenza che suscita. Eppure la "conservazione" è un aspetto non secondario in qualsiasi riflessione che voglia comprendere la realtà del paesaggio al di là del mero studio delle forme tramandateci del passato: alla conservazione e alla tutela dei beni culturali, ma anche ambientali, sono dedicati corsi di studio e di specializzazione, istituzioni, saperi e tecnologie specifiche. Oggi che si fa sempre più urgente e sentita l’esigenza di un pensiero del paesaggio (o del territorio) come identità singolare dei luoghi non ci si può esimere dal porsi la questione e interrogarsi sul valore della conservazione, allargando il dibattito sulla conservazione, presente e vivo in ambito architettonico e storico-artistico, alla considerazione filosofica ed estetica, ma soprattutto geofilosofica.

Di fronte al paesaggio di Orte scempiato dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, Pierpaolo Pasolini poteva legittimamente mostrare come il degrado estetico andasse congiunto a una decadenza civile e sociale. Del pari, Cesare Brandi, già negli anni Sessanta, denunciava aspramente l’inizio del disastro civile e ambientale che si stava prefigurando per l’Italia proiettata nella logica del boom economico, nell’incomprensione per il valore di irrepetibile identità del paesaggio italiano, del suo essere non un generico pittoresco, "ma un pittoresco storicizzato, assurto a fisionomia stessa del paese", e rivendicava un’attiva difesa e sostegno all’agricoltura, di contro all’industrializzazione più irresponsabile, come la forma più efficace di salvaguardia della facies dei paesaggi storici. Analogamente, tutto il mondo ha stigmatizzato il vandalico abbattimento del ponte di Mostar, simbolo e realtà della cultura bosniaca: la sua distruzione faceva parte della volontà di annullare la specificità della cultura (evidentemente non solo estetica) che lo aveva costruito e conservato come segno e parte irrinunciabile del proprio essere. Analogamente, quando i Taliban hanno fatto saltare in aria le colossali statue del Buddha di Bamiyan, l’opinione pubblica ha correttamente compreso che, oltre l’iconoclasmo islamico, era stata determinante una volontà di umiliazione e annichilimento di un’altra millenaria tradizione. Però, oggi, se si pone l’accento sull’inscindibilità della manifestazione estetica di un paesaggio dalla sua realtà culturale, dalle modalità dell’abitare che in quel luogo si realizzano (dunque delle scelte economiche, ecologiche, sociali, sacrali, ecc.), mostrando come lo scempio paesaggistico e la dissipazione del patrimonio storico e architettonico non siano una deplorevole svista causata dalla priorità di questioni ineludibili (l’economia, il mercato, la modernizzazione), ma discendano necessariamente dal modello culturale della modernizzazione e dall’indiscriminata apertura a modelli globalizzanti, immediatamente si è sospettati di "conservatorismo" e di nostalgie passatiste.

Tra gli esperti di conservazione dei beni monumentali e architettonici, invece, è abbastanza normale esprimere allarme e indignazione per la distruzione accelerata portata dalla "ruspa del moderno"; ma anche in alcuni dei più autorevoli urbanisti, negli ultimi anni, forse anche a motivo della presenza di un clima di pensiero geofilosofico (esplicitamente menzionato negli scritti recenti di Paolo Portoghesi), ricorre l’affermazione della improrogabile necessità di mutare i paradigmi della pianificazione, i suoi obiettivi, ritmi, strumentazioni tecniche e concettuali: la necessità di conservare, ripristinare, ma anche di demolire e de-costruire, riconoscendole come aberrazioni dannose, molte costruzioni (residenziali, ma anche infrastrutture) realizzate nei decenni scorsi in nome del modernismo e della modernizzazione. Nel contesto tardomoderno in cui giungono al più alto livello la crisi e l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul dogma di una crescita illimitata, e dunque sulla riduzione del territorio a estensione indifferentemente manomettibile dalla tecnica e da criteri di economicità dettati dalla globalizzazione, si impone con urgenza la questione della distruzione irreversibile di quel patrimonio che sono i luoghi, non più interpretabili come meri depositi di risorse o di spazio. Il territorio, in quanto realtà naturale e ambientale, ha proprie regole di conservazione e riproduzione (di lunga durata), le quali, se vengono ignorate, portano al dissesto e alla distruzione. I luoghi sono sempre dotati di una propria "individualità" che costituisce propriamente la loro facies culturale, il loro essere paesaggio prodotto da comunità che ne rispettano la logica intrinseca di configurazione e mantenimento.

In altri termini, i paesaggi della nostra cultura sono tali solo se "i caratteri fondativi delle identità dei luoghi", sono riconosciuti nella loro natura di "patrimonio territoriale" durevole. Secondo Alberto Magnaghi, devono essere questi "caratteri identitari", che costituiscono il "valore di un luogo", a dettare "direttive, prescrizioni, azioni per la tutela e la valorizzazione secondo obiettivi prestazionali riferiti alla sostenibilità dello sviluppo, dal momento che è la permanenza e la durevolezza di tali caratteri a costituire l’indicatore principale della sostenibilità". Va subito allontanato lo spettro di una conservazione come mera imposizione di "vincoli", attuata prevalentemente a posteriori, a partire da una logica che, riconoscendo l’ineluttabilità del degrado, si limita a preservare artificialmente tracce e testimonianze di un passato non recuperabile se non in forma documentaria. Si tratta invece di porre le basi per unariterritorializzazione, una sempre ulteriore valorizzazione dei luoghi che non si limiti alla loro fissazione museale o turistica, ma che altrettanto si rifiuti di considerarli come semplici "risorse" in un’ottica esclusivamente economicistica.

Di fatto non può sussistere paesaggio senza trasmissione di sapere, cultura e stile specifici del territorio (inteso come il risultato di atti coerenti, anche se distribuiti in un arco temporale magari molto lungo, di territorializzazione): senza tradizione. Ma la tradizione, diversamente dall’accezione imbalsamatoria ed eternizzante in cui per lo più suona il termine, è un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del "patrimonio" che costituisce una cultura nella sua differenzialità, mantenendo però la riconoscibilità delle "matrici formali" nell’incessante adattamento e trasformazione della realtà territoriale: esse devono poter costituire il più a lungo possibile il terreno comune e il criterio fondamentale di ogni progetto che riguardi quel luogo.

Intenti non molto diversi sono enunciati nei testi di un altro celebre urbanista, difficilmente tacciabile di essere "nostalgico" o "conservatore", Pier Luigi Cervellati. Il sottotitolo di un suo libro recente recita: "Una ‘modesta proposta’ per non perdere la nostra identità storica e culturale e per rendere più vivibili le nostre città". In un certo senso, il testo è una presa d’atto dei molti errori di valutazione compiuti dall’architettura e dall’urbanistica moderniste e progressiste e degli scempi ambientali e urbani che ne sono derivati. La tesi forte di Cervellati è che non si devono costruire nuove città e grandi opere infrastrutturali, bensì "ripristinare" le forme del territorio precedenti alla barbarizzazione modernista e industrialista, non esitando a percorrere con determinazione la strada della demolizione ogni volta che si renda necessaria. Occorre rinaturalizzare, restaurare l’antica interdipendenza delle città con i loro territori, tornare a pretendere e a realizzare bellezza. Non si tratta soltanto di un restauro/ripristino dei soli "monumenti", o una fossilizzazione di quanto del passato è sopravvissuto all’ondata devastatrice del cosiddetto "sviluppo". Al contrario, è partendo dalla tradizione che diventa possibile progettare per il futuro, ri-fondare la città a partire da un correlativo recupero delle campagne e da un privilegiamento del riuso e della manutenzione delle strutture esistenti: "Il paesaggio non appartiene tanto alla sfera della "creatività", quanto a quella della manutenzione. E del restauro inteso […] quale restituzione". È un’affermazione molto forte, e forse scomoda, della necessità, in molti casi, di un’emendazione del paesaggio dagli interventi e dagli effetti di progettazioni miopi e devastanti – esteticamente, civilmente, ecologicamente. Dunque, in certi casi, non solo si può, ma si deve concepire il futuro come un ritorno allo statuto intrinseco dei luoghi, "ristabilendo le condizioni originarie dei luoghi deturpati […] Il bosco deve ritornare ad essere un bosco, il prato un prato".

2. Il territorio è conservatore

Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la tecnica moderna ha ridotto la terra a un paesaggio fabbrile e a un immensa, disarmonica officina, facendo del dissesto perenne la legge strutturale della sua avanzata, in questo cantiere che ha estensione tendenzialmente planetaria, ma che esercita una devastante incidenza in luoghi sempre specifici, è giunto il momento di pensare non più in termini di ulteriore espansione e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso, manutenzione, restauro, abbellimento, di periodico riassetto e di correzione di abusi ed eccessi. Non si tratta di opzioni di basso profilo, rinunciatarie, se si pensa che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti intrinseci di ogni costruzione umana (e del contesto che la rende possibile), che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi: ci troviamo su quella linea (o forse l’abbiamo già oltrepassata) in cui la Terra richiede uno sguardo unitario, che non sia solo quello unilaterale e disponente della tecnica o quello, ancor più miope, dell’economia; ma questa consapevolezza globale di aver raggiunto il limite dell’equilibrio deve essere declinata ogni volta nella specificità delle configurazioni territoriali e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione, dal momento che ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non una semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione. È una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, ma piuttosto si armonizzano in una vitale integrazione e collaborazione resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa matrice di interpretazione e configurazione spaziale e simbolica.

Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni fa invocava Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del territorio locale, nelle sue interconnessioni globali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, differenziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria dimora. Se ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il nomos dei luoghi per poter fiorire e mantenersi, la contemporaneità mercantile e speculativa, con una caratteristica miopia, anche in fatto di gusto, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento dell’idea stessa di "conservazione".

Eppure, "conservare" significa tenere presso di sé (cum-serbare), preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concernere solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che presuppone un automatico disinteresse e una subitanea dimenticanza per quanto, una volta catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure "riserve" etnografiche di vario tipo, con tanto di "mediatori culturali". Un illusorio trattenere dalla scomparsa definitiva quei mondi che lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé - ha incessantemente sfigurato e cancellato.

Eppure, solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui il quale è dotato di più lunga memoria; chi, si potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate nel terreno delle sue tradizioni; non quindi nella "grande discarica" dell’omologazione, nel mercato dove si trovano i detriti e le caricature di tutte le culture del mondo, e nemmeno in quella "santificazione delle scorie" in-differente che, con gesto uguale e contrario alla generalizzazione della distruzione e dell’indefinita riproducibilità, eleva a "bene culturale" (dunque meritevole della conservazione istituzionale) ogni oggetto che appaia "originale": "Il bene culturale mette sullo stesso piano la roncola contadina, l’affresco rinascimentale, la basilica paleocristiana, il tetto a falda di una baita alpina e il sanitario avanguardistico, facendo diventare tutti i prodotti degli originali storico-artistici e tutti noi protagonisti a pari merito nell’immaginario Olimpo democratico". Questa moda (in realtà declinazione del consumismo e della ricerca di genealogie surrogatorie) o retorica dell’originale non ha niente a che vedere con una reale attenzione al significato della tradizione che si incarnava nel modo d’essere dei territori, e che oggi ci è diventato per lo più inintelligibile. Anzi, questa musealizzazione entrata a far parte dei comportamenti di massa, e che trova ampie ricadute a livello di iniziative e istituzioni, rischia di essere la più subdola antitesi di un’idea di "conservazione" dell’identità culturale dei luoghi.

L’affermazione della necessità di riconoscere ed elaborare uno "statuto dei luoghi", da parte degli urbanisti, significa il riconoscimento della necessità di mantenere "l’identità culturale del territorio", a partire dall’individuazione di matrici formali che si rivelano nella configurazione temporale. Leggere il tessuto storico, la conformazione territoriale sottostante all’aspetto estetico, è il passo preliminare a qualsiasi operazione di pianificazione o intervento: "Le strutture storiche sono il riferimento per guidare i progetti di assetto urbano e territoriale, per ripristinare l’antico rapporto della città con il suo territorio. Si pensi alla possibilità di valorizzare, con il ripristino delle alberature, il formarsi di percorsi che consentano di riscoprire la magnificenza del paesaggio. Lo storico sistema dei canali, dei boschi e dei prati - ma anche dei campi - quali strumenti organizzativi del territorio, può configurarsi quale monumento del paesaggio per riqualificare gli stessi progetti di eventuali e sempre più inadeguati completamenti edilizi".

È passato il tempo in cui era un delitto rivendicare la bellezza o parlar d’alberi: un bel paesaggio possiede un "senso di rappresentanza e di comunicazione socioculturale […]. Una bellezza non tanto intesa come espressione di valori estetici (paesaggistici o architettonici), quanto etici (con i quali si misura la qualità e l’identità di un insediamento". È un compito preliminare ma fondamentale, prioritario e decisivo rispetto a qualsiasi azione che, in mancanza di esso, rimarrebbe cieca o controproducente: occorrono nuovi strumenti interpretativi e nuovi pensieri, molto più che immagini rassicuranti mutuate da un passato nobile, ma irrimediabilmente tramontato in quella forma.

3. Paesaggi e comunità

L’esigenza della conservazione viene dunque affermata dagli urbanisti, consapevoli delle proprie responsabilità passate, con un vigore forse spiazzante per gli studiosi di estetica: "Mantenere ciò che resta ancora integro, restaurare e ripristinare ciò che è stato alterato, ristabilendo le condizioni originarie dei luoghi deturpati, dovrebbe essere la nostra legge". Se non c’è dubbio che la tutela del paesaggio non può limitarsi a pensare in termini di protezione e conservazione, ma si deve dotare di una componente progettuale, le condizioni attuali del pianeta a livello ecologico e dei singoli territori a livello culturale nondimeno richiedono essenzialmente e prioritariamente progetti in cui l’aspetto del ripristino e della conservazione intelligente e dinamica sia strutturante rispetto ad altri (soprattutto rispetto alla sola valutazione economica immediata). Questa priorità non va però intesa sulla base della valorizzazione esclusivamente estetica dei territori, perché come una certa tendenza che si sta affermando insegna, la fissazione dell’"immagine estetica" può non essere affatto in contrasto con lo stravolgimento dell’identità culturale e sociale, ma al contrario perfettamente compatibile con un modello globalizzante e omologante di sviluppo: basti pensare ai paesaggi congelati nella propria immagine-cliché e tutelati dal copyright, oppure al caso di antichi insediamenti abbandonati dai loro abitanti, restaurati lussuosamente per diventare residenze turistiche usate per pochissimi giorni da cittadini che certo non si preoccupano di mantenere il territorio. In altri termini, è proprio nell’arrestarsi alla "superficie" estetica che la conservazione diventa conservazionismo museale o turistico, che non solo si limita, nei casi migliori, a fossilizzare una maschera da cui la vita è fuggita, ma avalla e rischia di incrementare la logica fatalistica secondo cui al destino di distruzione delle culture e dei paesaggi non ci si può realmente opporre, pena l’accusa di essere "nostalgici", "conservatori" o "romantici".

In realtà, sia pur tardivamente, la questione della salvaguardia delle differenzialità culturali e territoriali si sta imponendo, non solo nel dibattito degli esperti, ma anche in sempre più ampi strati dell’opinione pubblica. A livello della riflessione teorica, il problema della tutela e valorizzazione delle specificità culturali, ambientali e paesaggistiche locali non ha niente a che vedere con il "localismo" o il "provincialismo", ma si colloca nell’orizzonte di un ripensamento critico della logica mondializzante della globalizzazione economica e del conseguente livellamento che omologa in un indistinto babelismo di forme, lingue e culture. In altri termini, per pensare il tema della singolarità dei luoghi (cioè di culture sempre situate), occorre tener fermo l’imprescindibile orizzonte di un mondo che la logica tecnoeconomica vorrebbe ridurre ad uno, a un uni-verso in cui le differenze siano annullate o rese inoperanti (appunto, al massimo mantenute allo stato larvale come immagini estetico-turistiche). Sarebbe vano pensare un aspetto senza l’altro. Non è possibile illudersi di potersi rifugiare in qualche riserva o oasi di incontaminata autenticità, oppure in una dimensione estetica nella quale si potrebbe continuare ad avere percezioni paesaggistiche e godimenti estetici nei termini di categorie, esperienze e poetiche elaborate due o tre secoli fa.

Occorre allora domandarsi come un territorio possa "evolvere" e al contempo mantenere la propria peculiare fisionomia paesaggistica. La questione sta essenzialmente nel modo di concepirne l’identità. Se si tratta semplicemente dell’aspetto che un luogo può assumere, indifferentemente rispetto alla sua storia, tradizione, configurazione morfologica, in modo intercambiabile, a seconda delle mode e degli interessi economici, è possibile che sia dia una caratterizzazione estetica, magari forte, di un luogo, anche in assenza di un’identità culturale riconoscibile: basti pensare a molti centri delle Alpi italiane o delle campagne, venute di moda con la valorizzazione dei prodotti agricoli e gastronomici. In questi casi la conservazione o la mimesi di moduli estetici e architettonici del passato può anche produrre un’impronta estetica di buon effetto, gradevole, tale da identificare in modo preferenziale un luogo, senza che a tutto ciò corrisponda alcuna profondità storica e culturale o sia espressione dell’interazione creativa e solidale di una comunità con il territorio. Si potrebbe dire che si è di fronte alla mera messa in scena di un’identità estetica che, in assenza delle condizioni culturali che l’avevano realizzata in altri tempi, è completamente fittizia, una semplice immagine di consumo, questa sì vera mitologia del "locale" che, in quanto tale, non può che essere l’illusione di un ritorno al buon tempo andato, sempre a portata di mano, mentre il mondo prosegue nel suo forsennato degrado (o nella sua auspicabile modernizzazione).

Se invece l’identità del paesaggio è pensata come quella realizzata dalla continuità coerente di atti territorializzanti, espressione armonica del peculiare stile di insediamento (e dunque di interazione con la natura) di una cultura (non necessariamente autoctona!), anche la qualità estetica non potrà essere scissa, come un’efflorescenza senza radici, dall’identità culturale. Il che non significa in alcun modo fissità difensiva, chiusura automonumentalizzante, municipalismo etnicistico; piuttosto si tratta di riconoscibilità nell’incessante trasformazione, che a buon diritto si può servire dell’idea fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre singolare del genius loci, al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in accordo con il carattere del luogo. In questa prospettiva, "tradizione" e "innovazione" non sono in insanabile contrasto: la continuità dello stile di una cultura (e dunque del suo modo di produrre-conservare paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto; è quella "normale" dinamica nella quale una cultura si perpetua; come efficacemente dice Cervellati, "la tradizione è un’innovazione riuscita".

È giunto il tempo di riflettere sul paesaggio come spazio simbolico delle comunità che lo abitano. È una questione che inevitabilmente si sono posti anche gli urbanisti, proprio in relazione alla progettazione di forme di territorializzazione che non si limitino a una mera imbalsamazione dell’esistente o, per converso, alla nichilistica rassegnazione, all’omologazione azzerante. Se il paesaggio è la creazione di un’intera cultura, di un intero popolo, la sua perpetuazione e incremento sono correlativi a ciò che, per esempio, Magnaghi chiama "la ricostruzione della comunità". "La comunità che sostiene se stessa fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione"; il che significa che il primo requisito per mantenere la peculiarità di un paesaggio è il non imporre sul luogo logiche economiche esogene ed estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengono conto delle peculiarità locali. Correlativamente, poiché "sviluppo locale" e "localismo" non sono necessariamente sinonimi, occorre evitare di precipitarsi in un’indebita e generalizzata stigmatizzazione ideologica.

In realtà, il paesaggio è sempre l’indice del grado di realizzazione di una alleanza della cultura con il luogo naturale e le sue possibilità. Da questo punto di vista, occorrerebbe estendere l’idea di comunità per allargarla a quel complesso vivente che è la "natura" di un luogo, ma anche a tutte quelle forme di presenza materiale (architetture, opere di coltivazione, ecc.) e spirituale (tradizioni, saperi locali, ritualità, simboli) delle generazioni precedenti sedimentate in un luogo, non meno che ai venturi, nei confronti dei quali terra e culture dovrebbero essere normalmente pensate come un patrimonio da trasmettere nella sua integrità. In simile prospettiva, che ricomprende nella propria considerazione termini concepiti di solito come eterogenei (con uno squilibrio tutto a favore dell’iniziativa presente e puntuale e una trascuratezza - spesso vera e propria ignoranza - delle ragioni del passato, sia pure inscritte in ogni pietra o campo del paesaggio, nonché delle ripercussioni sul futuro), l’identità si trova ad essere pensabile come quella di una comunità di paesaggio; dunque ogni considerazione volta a salvaguardare le "invarianti strutturali" o la matrice formale di un luogo, attivando direttive, progetti, misure di tutela e di valorizzazione, dovrà riconoscerne "i caratteri identitari" costituenti il carattere singolare e insostituibile di un luogo, non arrestandosi a semplici criteri di sostenibilità ambientale.

Nel paesaggio è in gioco la sostenibilità ecologica e culturale della comunità allargata che in esso si realizza, nel specifico "stile" che lo caratterizza in quanto singolarità. In questo senso, se di paesaggi si dovrebbe parlare solo al plurale, per sottolinearne la molteplice singolarità, questo comporta che la considerazione di un paesaggio sia ogni volta necessariamente incentrata sul suo carattere locale, ossia specificamente individuato in un territorio, in precise coordinate storiche e temporali: il che significa che ogni paesaggio ha luogo in ben definite coordinate e caratterizzazioni (naturali e stilistiche) spazio-temporali. Quando questo non accade più, al paesaggio è subentrata la delocalizzazione e detemporalizzazione indotta dall’adozione di "matrici formali" uniformanti (quindi sradicanti), che inesorabilmente scardinano l’ordinamento simbolico, spirituale e spaziale del territorio in quanto creazione storica dotata di una sua riconoscibile identità formale, di una sua inconfondibile fisionomia, sostituendolo con i non–luoghi e la deterritorializzazione in cui non è possibile abitare.

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