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Che cosa ti impedisce, qui, ora, di rientrare in te stesso, cioè nella dimora dell'Essere?

di Francesco Lamendola - 01/09/2009


 

Caro amico,
da tanto tempo ti osservo e sono stato il silenzioso testimone del tuo cercare senza posa, del tuo affannoso andare alla ricerca di qualcosa che non riuscivi mai ad afferrare interamente, che sempre ti sfuggiva e ti precedeva di qualche passo.
Ora, convinto sino in fondo della trasparenza del tuo animo e della sincerità della tua incessante ricerca, non posso fare a meno di rivolgerti una domanda: «Che cosa ti impedisce, qui, ora, di rientrare in te stesso, cioè nella dimora dell'Essere?».
Vedi, tu sei convinto di non essere ancora pronto, e cerchi e ti affanni per trovare gli strumenti che possano renderti tale; ma non è così: colui che sta cercando la verità, è già pronto, in fondo al proprio animo: quello che realmente gli manca, è solo il fatto di convincersene.
Conosco bene la tua natura scrupolosa, e ti rassicuro: non è un atto di superbia quello che ti invito a compiere, ma, al contrario, un atto di profonda umiltà. Perché in quanto alle nostre forze umane, non saremmo mai pronti per il gran passo; ma, una volta compreso che si tratta solo di abbandonarsi nel grembo dell'Essere, sarà da quest'ultimo che verranno la forza e il coraggio.
Non si tratta di farsi simili all'Essere, ma di capire che noi siamo già nell'Essere, siamo parte dell'Essere, una sua emanazione, un suo riflesso, una sua scintilla; e che non si tratta di altro che trarne la logica conseguenza: dobbiamo smettere di cercare al di fuori di noi stessi, e rientrare nelle profondità delle nostra anima.
Lì, e solamente lì, troveremo la meta di tutti i nostri sforzi, il porto sicuro verso il quale avevamo diretto il timone della nostra piccola imbarcazione.
Esistono varie strade per giungere a questa rivelazione, o illuminazione che dir si voglia; i maestri Zen, per esempio, raccontano tutta una serie di esempi in cui essa è giunta, fulminea come un lampo, a squarciare le tenebre dell'inconsapevolezza, e ciò nelle circostanze apparentemente più casuali e perfino bizzarre (cfr., in proposito, il nostro precedente articolo: «Accettare la vita significa fidarsi che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
C'è, nel libro degli Atti degli Apostoli, un episodio interessante e generalmente non molto conosciuto, che descrive molto bene il moto improvviso di un'anima la quale decide di non porre più tempo in mezzo e di riappropriarsi di se stessa: quello dell'incontro tra l'apostolo Filippo e un funzionario della regina d'Etiopia (8, 26-40).

«Un angelo del Signore parlò così a Filippo: "Alzati e va' verso sud, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza: è una strada deserta." Filippo si alzò e si mise in cammino. Tutto a un tratto incontrò un etiope: era un eunuco, un funzionario di Candace, regina dell'Etiopia, amministratore di tutti i suoi tesori. Era venuto a Gerusalemme per adorare Dio e ora ritornava nella sua patria. Seduto sul suo carro, egli stava leggendo una delle profezie di Isaia. Allora lo Spirito di Dio disse a Filippo: "Va' avanti, e raggiungi quel carro". Filippo gli corse vicino e sentì che quell'uomo stava leggendo un brano del profeta Isaia. Gli disse: "Capisci quello che leggi?". Ma quello rispose: "Come posso capire se nessuno me lo spiega?". Poi invitò Filippo a salire sul carro e a sedersi accanto a lui. Il brano della Bibbia che stava leggendo era questo:
"Come una pecora fu condotto al macello,
e come un agnello che tace dinanzi a chi lo tosa,
così egli non aprì bocca.
È stato umiliato ma ottenne giustizia.
Non potrà avere discendenti,
perché con violenza gli è stata tolta la vita."
Rivoltosi a Filippo l'eunuco disse: "Dimmi, per piacere. Queste cose il profeta di chi le dice? Di se stesso o di un altro?"
Allora Filippo, prese la parola e cominciando da questo brano della Bibbia, gli parlò di Gesù.
Lungo la via, arrivarono a un luogo dove c'era acqua e l'etiope disse:  "Ecco, qui c'è dell'acqua! Che cosa mi impedisce di essere battezzato?".
Filippo disse: "Se credi fermamente, puoi ricevere il battesimo."
E quello rispose: "Sì, io credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio."
Allora l'eunuco fece fermare il carro: Filippo e l'eunuco discesero insieme nell'acqua e Filippo lo battezzò.
Quando risalirono dall'acqua, lo Spirito del Signore portò via Filippo, e l'eunuco non lo vide più. Tuttavia egli continuò il suo viaggio, pieno di gioia. Filippo poi si trovò presso la città di Azoto; da quella città fino a Cesarea egli predicava a tutti.»

Anche S. Agostino riferisce una esperienza simile, nel momento della propria conversione: si trovava in un giardino, con l'animo tormentato, allorché gli giunse una voce di bimbo, o di bimba, che ripeteva come una cantilena: «Tolle et lege; tolle et lege». Allora egli prese il Vangelo, lo aprì e tutto gli fu chiaro: versando lacrime di commozione, decise che quello era il preciso momento in cui voleva che in sé nascesse l'uomo nuovo.
L'uomo nuovo giace in fondo alla nostra anima e lotta per venire alla luce, ma noi non vogliamo dargli ascolto; e, se pure udiamo la sua voce, per sfiducia in noi stessi o per pigrizia, continuiamo a rimandare il momento di prendere sul serio le sue invocazioni.
Ma, in realtà, che cosa ci impedisce di prendere in mano la nostra vita e di dire, qui, in questo preciso istante: «Ecco, voglio abbandonarmi con fiducia all'Essere; voglio lasciare che l'uomo nuovo nasca dal mio grembo, e trasfiguri d'ora in avanti tutta la mia vita?».
In verità, lo possiamo fare; e anche tu lo puoi fare, caro amico, se la smetti di rinviare e di tormentarti con inutili dubbi e tentennamenti.
È più semplice di quanto non si creda; beninteso: più semplice, per colui che già si è messo in cammino, si è posto il problema, ha incominciato ad interrogarsi. Per lui, sì, è più semplice: non per chi mai si è interrogato circa il senso da dare alla propria vita. Infatti, non si tratta di una semplicità che possiamo immaginare come un punto di partenza, ma, al contrario, come punto d'arrivo di un lungo processo.
Si è trattato, magari, di un processo sotterraneo, come nel caso di quei fiumi carsici che corrono per chilometri e chilometro sotto terra, fra grotte e precipizi, sinché non riappaiono a grande distanza dal punto in cui la roccia li aveva inghiottiti, magari già in vista del mare.
Così è stato nel tuo caso, caro amico: la tua ricerca non è stata clamorosa, non l'hai sbandierata ai quattro venti, come fanno certo pretesi intellettuali, i quali, se rivolgono la mente a Dio e al mistero della vita per qualche ora in tutto, subito corrono a scriverci sopra almeno un paio di libri, che le case editrici strombazzeranno come l'ultimo grido nel campo della meditazione religiosa e, magari, riusciranno a pompare in cima alla classifica mensile dei più venduti.
No, la tua ricerca è sempre stata discreta e silenziosa; così discreta e silenziosa che ben pochi, dall'esterno, se ne sono accorti: a me, tuttavia, non è sfuggita, perché ti conosco quanto basta per riconoscere i movimenti della tua anima, anche quando ti sforzi di tenerli nascosti; anzi, specialmente allora.
Appartieni alla eletta schiera dei ricercatori spirituali che nemmeno osano adoperare questa espressione, parlando di sé stessi, per modestia e per senso del pudore; persone che non si ritengono particolarmente in alto, in senso spirituale, tutt'altro; ma che hanno, tuttavia, una acuta percezione di cosa voglia dire stare in basso, come quella massa d'individui che si compiace di razzolare nel fango della propria ignavia: e che, per tale motivo, sono generalmente considerate superbe, anche se, in realtà, non lo sono affatto.
Dunque, tu hai cercato abbastanza: ora è tempo di lasciarsi andare, di abbandonarsi fiduciosamente in grembo all'Essere. Libri ne hai letti fin troppi, non è vero che la verità si trovi sui libri: tutto quello che essi possono fornire, è un insieme di suggerimenti e indicazioni, che bisognerà poi utilizzare in modo assolutamente personale; a patto che non si sia fatta indigestione di letture. Anche il troppo studio fa male, se non si possiede un intestino abbastanza forte per digerirlo: ma questa è una verità che s'impara, generalmente, solo dopo aver studiato troppo, vale a dire dopo aver fatto una solenne indigestione.
La verità ultima non si trova mai nei libri, per quanto eccelsi, perché i libri sono scritti per tutti, mentre la verità ultima non può essere affidata che alla parola orale, da maestro a discepolo, in un rapporto personale costruito lungamente nel tempo, con l'ausilio di solide basi. La cultura esclusivamente libresca, dispiace dirlo, è stata pensata e realizzata appositamente per dare agli imbecilli la gradevole sensazione di essere divenuti delle persone intelligenti; ma imbecilli erano e imbecilli resteranno, con l'aggravante della presunzione.
Dunque, caro amico, ascolta queste mie parole: basta anche coi libri. Ne hai letti sin troppi; e neppure una biblioteca come quella d'Alessandria, potrebbe rimpiazzare l'esperienza diretta della vita, vera grande maestra dell'anima. Fidati del consiglio: impara a leggere un po' meno, e ad ascoltare un po' di più il rumore multiforme della vita. Dopo un poco che ti sarai messo in ascolto, ti accorgerai che quel rumore è una vera e propria sinfonia: una sinfonia ricchissima, meravigliosa, quale mai avevi udita nelle migliori sale da concerto.
Quando sarai arrivato in questa fase, allora sarai maturo per l'ultimo salto: il salto nell'Essere. Dovrai lasciarti cadere come la foglia in autunno, vincendo ogni paura, ogni orgoglio e ogni senso di attaccamento e di possesso. Dovrai convincerti che non possiedi nulla, e che solo non possedendo più nulla, si può giungere alle soglie della dimora dell'Essere.
La foglia che cade dal ramo, in autunno, non cade a caso, non compie un'azione arbitraria: porta a compimento il suo ciclo naturale, ritornando alle proprie origini: alla terra, da cui l'albero sul quale è cresciuta, è nato e si è sviluppato. Tu devi fare come la foglia che si stacca dolcemente dal ramo, al soffio del primo vento autunnale; e che lentamente, lietamente, scende fino a terra, eseguendo nell'aria una danza leggera di lode e di ringraziamento.
Noi siamo come le foglie degli alberi: lo diceva Glauco a Diomede, nel celebre dialogo dell'«Iliade», ma in un senso ben più cupo e malinconico. Non c'è nulla di cupo e malinconico, invece, nell'idea che le cose ritornino all'Essere, dal quale si sono generate; che si stacchino al vento d'autunno come le foglie.
La foglia non cade al suolo per morire, ma per rinascere. Rinascerà, in primavera, sotto forma di nuovo germoglio, nuovo fiore e nuovo frutto: ciò non potrebbe accadere, se prima la foglia non si lasciasse andare, affrontando il distacco dal ramo che la sosteneva.
Noi dobbiamo imparare a distaccarci dai rami che ci sostengono: perché arriva il momento in cui ogni sostegno finisce per diventare un capestro e una prigione, se non si capisce a tempo debito quando è giunto il momento di partire.
Perciò, caro amico, ti rinnovo la domanda: «Che cosa ti impedisce, qui, ora, di rientrare in te stesso, cioè nella dimora dell'Essere?».
Mi guardi sconcertato, quasi smarrito: te lo impediscono mille cose, pensi; ma poi taci, confuso: perché ti sei reso conto che non te lo impedisce proprio nulla, se tu lo vuoi.
Quando vogliamo veramente qualcosa, prima o poi finiamo per raggiungerla: e se davvero vogliamo ritrovare la nostra essenza più profonda, nessuna forza al mondo ce lo potrà impedire, una volta che abbiamo vinto la paura di essere noi stessi.
Essere noi stessi, vuol dire riconoscerci come una parte dell'Essere, come un aspetto, una emanazione, una scintilla dell'Essere.
In fondo, non è un compito superiore alle nostre forze: e noi non riusciremmo a realizzarlo in alcun modo, se, per il fatto stesso di desiderarlo, non l'avessimo già fatto nostro.
A dire il vero, non siamo noi che lo facciamo, ma l'Essere, perché noi, da soli, non possiamo fare niente; ma, riconoscendoci nell'Essere, possiamo fare tutto.
Possiamo anche morire come brutte crisalidi, e trasformarci in farfalle di una rara bellezza: pronte a volare nell'azzurro infinito.