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Europa mediterranea. Una prospettiva geofilosofica

di Caterina Resta - 24/03/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 


Vallotton, Europa

Questo Occidente [Abendland] diverrà – al di sopra dell’“Occidente” [Occident] e dell’“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia futura più originariamente conforme al destino?

M. Heidegger, Il detto di Anassimandro.

La storia del mondo va da Oriente a Occidente: l’Europa è infatti assolutamente la fine della storia del mondo, così come l’Asia ne è il principio.

G.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia.

 

1. Uno sguardo geofilosofico sull’Europa

Da quando, nel VII e VI secolo a.C. nell’antica Grecia, in quell’esiguo lembo di terra che si incunea nel Mediterraneo, alcuni uomini cominciarono ad interrogare il mondo a loro circostante con un nuovo atteggiamento, quello teoretico, cui diedero il nome di “filosofia”, prediligendo un sapere disinteressato che avesse la pretesa di pensare l’universale (1), da quel decisivo momento nel corso della storia dell’umanità, cominciò la millenaria vicenda di un modello di razionalità il cui esito finale, non senza rimarchevoli eccezioni e deviazioni, da ultimo ha preso forma in quel “pensiero calcolante” che, affermatosi dapprima all’inizio dell’età moderna, costituisce quel pensiero unico e onnipervasivo che ormai domina incontrastato sull’intero globo terrestre.

Il processo di occidentalizzazione del mondo non è altro che l’affermarsi dilagante, in primo luogo, del razionalismo moderno, degli imperativi di una ragione tecnico-economica, che ovunque impone i propri imperativi di razionalizzazione, omologazione e drastica riduzione di ogni differenza qualitativa a mera differenza quantitativa, suscettibile d’essere perfettamente misurata e calcolata. Di fronte agli esiti devastanti di questa violenta riduzione della razionalità a dominio e calcolo del reale, si impone allora la ricerca di un altro pensiero – cui i maggiori filosofi del Novecento, da Heidegger a Jünger, da Lévinas a Derrida non si sono sottratti – in grado di saper opporre al crescente deserto del nichilismo tecnico-economico nuove prospettive e diversi approcci per tentare di “pensare altrimenti”. La geofilosofia
(2), lungi dal volersi presentare come una nuova disciplina settoriale, aspira proprio a questo: ad assumersi il compito, certo non facile, di ricondurre il pensiero a interrogare il senso complessivo dell’abitare dell’uomo sulla terra. Se, proprio a causa dell’imporsi planetario della razionalità europea-occidentale, il mondo appare oggi, nell’era globale, unito e omologato nel segno di un pensiero unico che cancella differenze e singolarità, producendo ovunque irreversibili processi di sradicamento e perdita di identità culturali, la geofilosofia, riflettendo su questi fenomeni, intende avviare un contromovimento, proteso a salvaguardare le irriducibili fisionomie spirituali, culturali, paesaggistiche di popoli e luoghi, considerandole un’inestimabile ricchezza. È l’idea stessa di cultura che ci impone di coltivare il tratto specifico di un’umanità che non esiste mai come idea astratta, ma sempre nella pluralità di aggregazioni umane che, ogni volta in maniera unica, abitano tempi, spazi, luoghi, dando loro un’impronta assolutamente singolare. Se la cultura è sempre coltivazione di ciò che appartiene più propriamente alle nostre tradizioni e alla nostra storia, tuttavia, proprio per questo, essa può mantenersi in vita solo nella misura in cui si apre al confronto con le altre culture. Un’identità culturale non va pensata dunque come chiusa in sé stessa, ma come continuo scambio, osmosi e dialogo con chi è diverso da noi. Una cultura che si chiudesse intransitivamente entro la propria rassicurante presunta identità, sarebbe infatti destinata ben presto all’irrigidimento che prelude alla morte, giacché solo dall’incessante confronto con l’altro, con ciò che viene da fuori, essauna può mantenersi davvero viva e vitale.

Quale dunque potrà essere una riconsiderazione dell’Europa e della sua identità, alla luce di una visione geofilosofica?

Essere perennemente in crisi con se stessa, da sempre sospesa tra vita e morte: senz’altro questa è una delle caratteristiche dell’Europa e di coloro che la abitano. Non è qui il caso di rinnovare discorsi già fin troppo noti e condivisi, sulla difficoltà dell’Europa ad assumere un proprio volto, o sulla preziosa e irrinunciabile esperienza che sul suo suolo si è compiuta della convivenza, non senza contrasti, di una pluralità di popoli e tradizioni differenti che, alla fine, hanno saputo trovare forme e modi di dialogo, nella salvaguardia della propria irrinunciabile specificità. Pur mancando di una identità, nella pluralità e spesso anche incompatibilità delle sue molte radici (greca, latina, germanica, ebraica, cristiana, araba, ecc.), l’Europa, alla fine, sarà capace di presentare un quadro di armoniosa convivenza tra i popoli, nel rispetto dell’identità di ciascuno, in nome di un modello di civiltà e umanità la cui pretesa all’universale ha saputo imporre con la forza o la persuasione nel resto del mondo? In effetti questa Europa che aspira a incarnare i valori universali dell’umanismo e del progresso ha un effetto di suggestione potente, cui è difficile sottrarsi. Questa idea di Europa “culla della civiltà” e di una tradizione, quella occidentale, che è stata l’unica in grado di proporsi e affermarsi come ‘valore universale’, in nome dei diritti universali dell’umanità, non è tuttavia priva di contraddizioni.
Incerta più che mai sul proprio ruolo e sui propri confini, sempre in movimento, stretta entro l’angusto disegno di una unificazione meramente monetaria e dei mercati, l’Europa appare oggi anche dubbiosa circa il modello politico da scegliere. Quale Europa siamo chiamati a costruire, quella delle nazioni, dei popoli, delle regioni, delle città? Delle periferie o dei centri, affacciata sul Mediterraneo o sul Baltico, rivolta a Est o a Ovest?

 

2. L’Europa tra la vita e la morte

L’Europa è all’inizio. Già da molto tempo l’inizio dell’Europa è in gestazione: nascite, rinascite, aborti, brusche interruzioni non fanno che confermare quella profonda aspirazione che Hegel ha potuto riconoscere come il fine e la fine della storia universale. Una potente immagine geofilosofica ne ha veicolato l’imporsi su scala planetaria, quella di un piccolo promontorio del continente asiatico che, nel suo protendersi, si mostra come caput mundi. Da Nietzsche a Valéry, da Heidegger, a Schmitt fino a Derrida (3), l’inizio come la fine dell’Europa, nel senso del suo compimento, non possono prescindere dalla figura di questo promontorio che avanza nel mare, stagliandosi rispetto a quel vasto continente che si lascia alle spalle. Da questa figura di capo che colloca l’Europa in capo al resto del mondo, essa ha irradiato la sua forza spirituale ovunque, allargando a dismisura i propri confini. È divenuta prima America, Nuovo Mondo rispetto al vecchio continente che era la madrepatria dei primi intraprendenti coloni, e poi ‘Occidente’, in un’accezione che, lungi dal designare solo l’emisfero occidentale, riveste ormai un significato globale e planetario.

Ma allora, non sarà ormai troppo tardi per questo nuovo inizio dell’Europa, rispetto a un processo di unificazione planetaria già da tempo avviato dal processo tecnico-economico e dalle sue imperiose esigenze? Si può forse chiamarlo un inizio, o non comporta piuttosto, questo processo di occidentalizzazione del mondo, la cancellazione dell’Europa e di ciò che, per certi versi, potrebbe essere il suo avvenire? Quale Europa deve venire alla luce e quale è destinata a tramontare?

Per altri versi, infatti, molti sono gli indizi in base ai quali potremmo piuttosto pensare che l’Europa è alla fine. Già da molto tempo, da più parti, è stato annunciato il suo inevitabile tramonto
(4). Lunga, estenuante agonia di un corpo da gran tempo malato, affetto da un misterioso morbo che pian piano l’ha distrutto, devastandolo dal suo interno. Ma l’Europa è dura a morire: ogni giorno sembra l’ultimo giorno, ogni ulteriore ferita, quella mortale. Nello stesso istante in cui ci vien detto che è nata, ci è stata anche comunicata la sua morte. Irrevocabile? Certamente no se da secoli l’Europa non ha altra vita che questo tra la vita e la morte: non mera sopravvivenza, tuttavia, ma l’alterna vicenda di un inizio e una fine, di un ritrovarsi e perdersi incessante. Questo movimento, forse, costituisce la nostra storia. Non solo nel senso di quegli eventi che si svolsero – e continuano a svolgersi – in quella parte di mondo che chiamiamo ‘Europa’, con una definizione geopolitica i cui mobili confini ne hanno costituito il terreno di scontro. Nel tempo che l’Europa ha scandito si è fatto il Tempo, il ‘nostro’ tempo, il tempo dell’Occidente: la Storia stessa del mondo. Almeno così abbiamo la presunzione di credere.

Bisogna ammettere che la ‘costruzione’ dell’Europa, il suo constructum, corrisponde intrinsecamente ad una incessante decostruzione. Anche per questo, forse, l’Europa è costitutivamente in crisi con se stessa e, quando questa crisi si fa maggiormente sentire, quando la fine di un vecchio ordine si annuncia, senza che si sappia ancora intravederne un altro, ecco che l’Europa si interroga, da sé su di sé, in quel caratteristico autorispecchiamento, dal quale neppure il nostro discorso può pretendere di allontanarsi del tutto.

 

3. Un’altra Europa

Le risposte sinora date non possono non apparire deludenti, se non addirittura derisorie rispetto alla sfida della nostra epoca. Dell’Europa discutono oggi politici ed economisti, burocrati, finanzieri e banchieri. Prevalendo le esigenze legate all’unificazione della moneta e dei mercati, del libero scambio delle merci, si persegue piuttosto l’idea di una unificazione meramente economica e formale, senza accorgersi che ovunque cresce una forte richiesta di appartenenza, identità, memoria. Si vogliono mettere insieme delle parti attraverso il collante della convenienza economica, senza rendersi conto della riduttività e della modestia di questo progetto, che non riesce in nessun modo a cor-rispondere alle richieste del presente. L’Europa, questa nuova Europa che ancora deve venire, se mai verrà, non giungerà tuttavia dalla libertà e unità dei mercati, ma solo da un evento, incalcolabile, imprevedibile, che tuttavia ci attende come compito. Se mai vi sarà avvenire per l’Europa, esso non potrà non accadere come l’evento dell’altro, come la promessa di una svolta decisiva per la storia. L’Europa non è solo da rianimare; tra custodia della memoria e preparazione dell’avvenire, essa, in primo luogo, deve divenire spazio di apertura e di accoglienza al suo altro, «a ciò che non è, non è mai stato e non sarà mai l’Europa» (5), un’apertura che, tuttavia, non solo non assimila, ma che, pure, le impedisce ogni raccoglimento su di sé, ogni possibile riappropriazione di sé e identità con sé.

Come ha ricordato J. Derrida nel suo importante intervento sull’Europa, «il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa»
(6): solo a partire da questo assunto si può davvero preparare l’evento di un’altra Europa, di un’Europa a-venire. Evento, tuttavia, al suo fondo, incalcolabile e inanticipabile, imprevedibile, da nessun programma e da nessuna pianificazione realizzabile, se è vero che esso deve riguardare una decisione e una responsabilità che eccedono ogni possibile previsione e calcolo. Il paradosso è ciò che ci impegna in questo compito, richiamandoci al rispetto di una doppia legge: da un lato quella di essere i custodi di una tradizione che ha reso unica l’Europa rispetto a tutti gli altri paesi, senza tuttavia, per questo, considerarla come un’eredità archiviabile e capitalizzabile; dall’altro aprire il proprio passato a quel che ancora non è mai stata, ma che potrebbe diventare, senza cadere nell’enfasi del nuovo, dell’assolutamente differente, senza soccombere al rischio della totale amnesia. Preparare un a-venire per l’Europa vuol dire infatti in primo luogo riconoscersene eredi non nel senso ovvio di questa parola per cui si riceve semplicemente un lascito, ma in quello certo più impegnativo di una libera e responsabile assunzione di quanto ci è stato destinato, avendo da testimoniarne e da risponderne per l’a-venire. Essere eredi comporta allora un compito paradossale, ma l’unico che davvero ci impegni: salvaguardare, difendere, custodire quel che ci viene in dono dalla nostra memoria e, insieme, aprirsi al dono dell’altro, allo straniero, al non-familiare, all’estraneo, riconosciuto nella sua radicale eterogeneità e alterità irriducibili. Rifiutando dunque tanto la logica conciliante e fagocitante dell’integrazione, come quella della tolleranza, altrettanto intrinsecamente negatrice dell’altro in quanto altro. Né l’una né l’altra lasciano infatti aperto quello spazio, quella necessaria distanza, quella differenza, indispensabili affinché, nell’incontro e nell’accoglienza, si possa salvaguardare e custodire l’irriducibile singolarità di ciascuno. Forse è addirittura impossibile obbedire sino in fondo a queste due leggi, quella di una fedeltà mai supina offerta alla propria memoria e quella di un’accoglienza riservata all’altro a tal punto esigente, che nessuna ‘legge’ sull’ospitalità potrà mai soddisfare: eppure solo da questo impossibile può giungere a noi la promessa di un a-venire per l’Europa. Non c’è calcolo o regola per preparare l’Europa a-venire, ma proprio per ciò si tratta di responsabilità nel senso di aver da rispondere di un’identità che, provenendo dall’altro, è sempre in debito nei suoi confronti, pur mantenendosi ogni volta esemplarmente unica, iscrizione dell’universale nel singolare. A partire da questa responsabilità si tratta di pensare altrimenti lo Straniero e l’Estraneo, e, ancor prima, il Familiare, oltre che il senso del limite, del confine e della frontiera, nella loro accezione geografica, politica e culturale (7). Se finora li si è determinati a partire dal Medesimo, come definirli adesso a partire dall’altro? Come mantenere chiusa, custodita, salvaguardata una tradizione (terra, lingua, religione, etnia, ecc.) senza che degeneri in particolarismo, razzismo, fanatismo? Come aprirla, nello stesso tempo, all’Estraneo, senza per questo snaturarla, facendole perdere il suo carattere specifico, quel che la rende unica, in nome di un malinteso principio di traducibilità e universalità omologante? Quale idea di tra-duzione, di transito, di passaggio non solo di una lingua in un’altra, deve essere accolta, affinché la singolarità e unicità di un idioma – e non solo di questo – pur salvaguardando la propria intraducibilità, tuttavia non si rifiuti a un certo grado di traduzione?

Nulla è più sfuggente e, al contempo, più cogente, dell’identità europea. Come tante volte è stato notato, l’Europa non ha mai avuto frontiere geografiche facilmente riconoscibili, né un’unica lingua o cultura. Le varie forme politiche succedutesi sul suo territorio hanno impresso unificazioni intorno a centri diversi, spostandone continuamente il baricentro e producendo tensioni grandissime tra Ovest ed Est, nell’antagonismo tra Roma e Bisanzio, ad esempio, o tra Atene e Gerusalemme; o tra Nord e Sud, nel segno di una vocazione germanica o latina dell’Impero; tra differenti credi religiosi: cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei e musulmani. L’Europa è stata dunque da sempre una e molte: mai identica a sé, se non a partire dalle innumerevoli differenze che da sempre ne compongono il volto. Il travaglio e il lungo cammino alla ricerca di sé parte dunque da un’identità fin dall’inizio plurale, differente in sé. Certo, sin dal suo sorgere c’è un’Europa che si identifica con l’Occidente contro l’Oriente, con il Nord contro il Sud, con la ragione contro ogni irrazionalismo. Ma il fatto è che queste contraddizioni non la minacciano dall’esterno, ma l’hanno da sempre travagliata al suo interno, dal di dentro infinitamente lacerata e divisa, impedendole di suturare queste ferite una volta per tutte in una identità finalmente conciliata. Quando ciò è sembrato accadere, sono stati forse i suoi momenti più bui. Non poter accedere ad una definitiva identificazione, non significa però non avere una fisionomia riconoscibile; l’Europa ci sfida a coglierla proprio nelle divisioni, nei conflitti, nelle differenze che da sempre l’hanno caratterizzata. Essa testimonia, come meglio non si potrebbe, che ogni identità si costituisce come differenza. Non, tuttavia, nel senso che questa alterità appartenga a un fuori rassicurante rispetto al quale e contro il quale misurarsi: questa identità, scaturita attraverso la contrapposizione, stabilisce con l’altro un rapporto di esclusione, espelle tutto ciò che sente come estraneo o lo fagocita, assimilandolo a sé, pur di non riconoscerne, comprenderne e rispettarne la differenza. In nome di questa identità forte nasce il mito di ogni autoctonia: l’essere sempre a casa e presso di sé, poiché si proviene da sé.

L’identità giunge invece sempre dall’altro, a partire dall’altro, senza che mai si possa risolverlo e dissolverlo in sé, se non al prezzo di una violenza inaudita: l’Europa è stata il banco di prova di questo assunto, e tuttavia sembra ancora non averlo compreso. Una grave de-cisione l’attende tra alternative che sembrano inconciliabili: a partire dalla risposta che saprà dare, dipenderà forse anche il destino dell’Occidente, da cui in certo modo ormai dipendono le sorti del mondo intero. Questa de-cisione, che coinvolge perciò le sorti di tutto il pianeta, richiede la responsabilità di saper cor-rispondere alla provocazione e all’appello che proviene dal presente. Esso ovunque ci interpella nell’inquietante imporsi della tecnica moderna, intesa non tanto come insieme di strumenti, ma quale forma di pensiero che, attraverso il calcolo, afferma e persegue una volontà di dominio su tutto il reale
(8). Qui, in Europa, questo progetto è sorto ed è diventato ormai destino planetario. Da qui, dall’Europa, infatti ha preso avvio quel processo di occidentalizzazione del mondo che oggi si è pressoché compiuto, determinando un “nuovo ordine mondiale” non più eurocentrico, ma ruotante, ancor più a Occidente, intorno a un nuovo Axis Mundi, il Nord America.

È dunque forse tornando al Vecchio Continente che, di là da Oriente e Occidente e dalla loro storica contraddizione, potrebbe nascere un’altra Europa?

La razionalità tecnico-scientifica, in quanto forma estrema di dominio sul mondo, persegue la sua conquista su scala planetaria in modo certo più inappariscente, ma ben più pervasivo e violento di quello coloniale. Di fronte a questo evento – che siamo ancora molto lontani dal comprendere sino in fondo – non rischia l’unificazione europea di apparire già superata, risolta e dissolta in quella gigantesca, planetaria unificazione perseguita dal pensiero calcolante, di cui telematica e cibernetica mostrano ormai realizzata la reticolare onnipervasività? Di fronte alla già compiuta unità del mondo
(9) crollano le antiche alternative, non reggono più, come il muro tra Russia e America, cortina di ferro che è bastato appena un soffio a demolire.

Ma allora, nella sempre crescente uniformizzazione del globo terrestre, c’è ancora spazio, c’è ancora tempo per quell’evento che chiamiamo ‘Europa’? Può ancora aver luogo, nella tabula rasa del deserto planetario, qualcosa come l’Europa?

L’egemonia del pensiero euro-occidentale si è imposta sul mondo con la pretesa di aiutare, forzare, costringere, sedurre gli altri a diventare come noi, incarnazione dell’umanità e dell’universale. In una terrificante eterogenesi dei fini, proprio la culla della civiltà e della tolleranza dei popoli ha provocato i più spaventosi genocidi culturali e la più desolante devastazione del pianeta, investendo con la sua potenza distruttiva non solo l’umanità nella variopinta geografia dei suoi popoli, ma anche la natura, in tutte le sue forme, viventi e non viventi. Animali, piante, rocce millenarie, interi paesaggi sono stati annientati, sfregiati, ridotti a spoglio deserto per opera dell’uomo – di un determinato tipo d’uomo – e in nome dei suoi inalienabili diritti. Una sparizione silente e inosservata di specie viventi si consuma ogni giorno, senza che neppure ce ne accorgiamo, sulla terra, nei mari e nel cielo, come una lenta e invisibile malattia che pian piano corrode e inaridisce il mondo, mentre noi cresciamo e ci moltiplichiamo a ritmi vertiginosi, prendendo sempre più spazio nell’arretramento della natura, divenendo sempre più uguali e uniformi, sempre più simili ad una maschera privata dei lineamenti di un volto, nella progressiva cancellazione di ogni tratto riconoscibile. Ciò, tuttavia, non accade senza contraccolpi. Solo all’interno del non pacifico affermarsi dell’epocale perdita di radici è possibile comprendere il risveglio e il risorgere di un bisogno di identità e radicamento. È su questo piano che si giocherà una battaglia decisiva per le sorti dell’intera umanità, perché solo a partire dalle risposte che sapremo dare a questa esigenza, sarà possibile superare – o forse prolungare indefinitivamente – l’epoca dell’“ultimo uomo”, come Nietzsche amava chiamarlo.

L’altra Europa, quella cui vorremmo aspirare, se mai vedrà la luce, dovrà essere un’Europa unica nella sfaccettatura dei diversi volti che la compongono, ma a nessuno di essi, singolarmente preso, riconducibile. Da tutti questi volti, da tutti questi idiomi, potrebbe prendere forma, come in un mosaico, una nuova immagine, quella di un’Europa unita nell’insieme dei suoi frammenti, identica a sé solo in quanto in se stessa molteplice e differente, da nient’altro tenuta insieme se non dall’inesausto desiderio di ciascuno di confrontarsi con l’altro, in un dialogo alimentato non da ciò che è familiare e comune, ma da quanto è e deve rimanere assolutamente estraneo e singolare.

 

 

4. L’Europa oltre l’Occidente

Eppure, affinché l’Europa possa ritrovare se stessa, quello spirito europeo che fin dal suo sorgere sul suolo greco l’ha resa unica, essa deve prima affrontare un cruciale dilemma, tornando, innanzitutto, a ripensare la propria origine, sciogliendo quell’ambigua identificazione in virtù della quale ama assimilarsi senza resto all’Occidente, la terra del sol calante, sulla quale scende la notte di un ottenebramento che tutto rende indistinto e uniforme.

L’Europa deve tornare a interrogare la sua storia, cominciata sulle sponde del Mediterraneo, in Fenicia, in quell’estremo lembo di terra che a Oriente ne delimita il confine. Al Mediterraneo e alle sue isole è infatti legata la vicenda del suo rapimento da parte di Zeus. Il mito racconta che, quando egli vide la bella fanciulla dall’ “ampio volto” – secondo una possibile etimologia della parola Europa – raccogliere fiori sulla riva del mare presso Tiro, se ne invaghì a tal punto che, assunte le sembianze di un docile toro bianco, decise di sedurla e di trascinarla con sé in una prodigiosa traversata del mare fino a Creta, dove infine, trasformatosi in aquila, si congiunse con lei. È dunque delle rive del Mediterraneo, delle sue terre frastagliate, piene di porti e di golfi, di promontori e di isole che la storia di Europa ci parla e qui, in questo mare che ha attraversato in sella a quel singolare destriero, riposa forse il senso ultimo non solo della sua origine e delle vicende della sua storia, ma anche del suo avvenire. Come la costa orientale e la traversata del mare ci raccontano della giovanile bellezza di un’Europa la cui storia è tutta compresa entro le sponde del Mediterraneo, così l’attrazione fatale per l’Occidente e il richiamo dell’Oceano ci rammentano del suo inesorabile declino, nella folle traversata oltre i confini mediterranei, all’inseguimento del sole che muore.

Forse nessuno meglio di Ulisse incarna, allora, il dilemma di fronte al quale l’Europa, oggi più che mai, si trova; il dilemma tra quelle due anime che molto presto hanno cominciato a lacerarla, quella che la lega alla sua culla e alla sua origine: il Mediterraneo, e quella che incessantemente l’attrae oltre quei confini avvertiti come troppo angusti, e la sospinge verso mari ignoti, più aperti, verso l’infinito spazio libero e vuoto dell’Oceano.

Odisseo è un eroe mediterraneo; il suo viaggio, benché costellato di infinite diversioni, è sempre un costeggiare, un navigare da sponda a sponda, da isola a isola, senza mai perdere la nostalgia della casa, l’ansia del ritorno. Tra terra e mare, il nostos di Odisseo celebra l’epopea del Mediterraneo ed è tutto racchiuso entro la sua misura. Smisurata, invece, è la curiositas che attanaglia l’Ulisse di Dante
(10). Ormai invecchiato e stanco di navigare in un mare i cui confini gli appaiono troppo ristretti, intraprende il suo viaggio più rischioso volgendo «la poppa nel mattino», girando le spalle a quell’Oriente da cui nasce Europa. Ulisse e i suoi compagni si dirigono dunque verso Occidente, verso il sole calante, verso il tramonto, superando le colonne d’Ercole e procedendo al di là di quel Termine, di quell’invalicabile confine oltre il quale si apre, ignoto, lo sterminato spazio dell’Oceano, mare senza terra, infinita distesa dell’Illimite. Nessuna nostalgia della terra è più consentita a questi oceanici «argonauti dell’ideale», a questi «aerei naviganti dello spirito», come, alcuni secoli più tardi, li chiamerà un altro grande cantore dell’Oceano, Friedrich Nietzsche. Precursore di pirati e balenieri, antesignano di Colombo, l’Ulisse di Dante vuole spingersi «per l’alto mare aperto» divorato da una brama di conoscenza, da una volontà di sapere, che spingerà l’Europa al “folle volo” (11), dimentica della propria misura mediterranea. Irresistibile più del canto delle sirene, il richiamo dell’Oceano inviterà Europa a un viaggio (12) che la condurrà a perdersi nell’Occidente, a tramontare come il sole che in quel punto si spegne, a smarrire il proprio baricentro, identificandosi ormai solo come la terra del sol calante, come Abend-land, la terra della sera. Non da Tiro a Creta, ma da una sponda all’altra dell’Atlantico si svolge adesso la prodigiosa traversata di un’Europa che, avendo smarrito il ricordo della sua origine, si consegna ormai al destino del Nuovo Mondo sul quale approda.

Di qui procede l’Occidentalizzazione del mondo, da questa hybris di varcare limiti e confini; dalla seduzione dell’Oceano, dall’esperienza del suo spazio omogeneo e vuoto nasce la ratio occidentale, il suo preventivo fare tabula rasa, al fine di poter meglio calcolare, progettare, trasformare, operare. Di qui, anche, da questa de cisione oceanica che recide ogni rapporto con la terra, prende le mosse il pensiero tecnico-economico che, nel nome dell’Occidente, si è imposto sull’intero orbe terracqueo, unificandolo all’insegna di quell’uniformità che caratterizza l’era globale. Potente reductio ad unum, questo processo solca culture, lingue, paesaggi, come un’indistinta superficie oceanica, ovunque imprimendo il medesimo sigillo, la medesima impronta, cancellando differenze, singolarità, specificità e tutto rendendo perfettamente omogeneo, monocromatico, come tra cielo e mare.

Tra queste due diverse superfici acquatiche, tra la piatta distesa oceanica dell’Illimite ed il raccolto spazio del Mediterraneo, di un mare sempre tenuto a freno da terre, si colloca allora la nostra decisione circa il destino dell’Europa. Sapremo tornare a interrogare il senso della nostra storia? Sapremo ricordare ciò che storicamente e geofilosoficamente significa per noi il Mediterraneo? Esso rappresenta l’esperienza, unica al mondo, dell’incontro tra mare e terra, di uno spazio di condivisione che separa e divide, ma anche collega e unisce, favorendo gli scambi tra identità che, nell’incessante dialogo, vogliono restare differenti. Nella sua pluralità di confini e frontiere, è stato luogo di scontro, ma anche di straordinario incontro, di inesauribile confronto con l’altro, impedendo, moderando ogni drastica reductio ad unum. Da questo mare di differenze è nata l’Europa, pluriverso irriducibile di popoli e lingue, costretti a dialogare tra loro, costretti alla fatica incessante della traduzione e della distanza. Saprà questo antico mare circondato di terre essere ancora modello per una configurazione non universa, ma pluriversa del mondo? Sapremo diventare tutti, non solo noi europei, ancora una volta mediterranei e ritrovare, infine, un nuovo nomos, una nuova misura, tra cielo, terra e mare?

Nonostante la sua attrazione per l’Oceano, Nietzsche è stato anche un pensatore mediterraneo e certamente aveva compreso la vocazione mediterranea dell’Europa se in un frammento del 1885 scritto a Sils-Maria, tra i monti della tanto amata Engadina, così poteva affermare:

«riscoprire in sé il Sud e tendere sopra di sé un chiaro, splendido, misterioso cielo del Sud; riconquistare la salute meridionale e la riposta potenza dell'anima; diventare gradualmente più vasti, più sovranazionali, più europei, più sovraeuropei, più orientali, infine più greci - giacché la grecità fu la prima grande unificazione e sintesi di tutto il mondo orientale e appunto perciò l'inizio dell'anima europea, la scoperta del nostro “mondo nuovo”: - per chi vive sotto tali imperativi, chissà cosa potrà mai capitargli un giorno? Forse appunto un nuovo giorno» (13).

A questo “nuovo giorno” e al “nuovo mondo” che ci aspettiamo per l’avvenire dell’Europa e del mondo intero pensava anche Heidegger, quando, all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, così si interrogava con apprensione sul destino dell’Europa:

«Siamo forse gli ultimogeniti di una storia che va ora rapidamente verso la sua fine, mortificando ogni cosa in un ordine sempre più desolato ed uniforme? […] Siamo forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della Terra intera, e del tempo dello spazio storico a cui essa è legata? Siamo alla vigilia di una notte che prelude a un nuovo mattino? Siamo in cammino verso il luogo storico di questo crepuscolo della Terra? Sta nascendo solo ora questo luogo della sera [Land des Abends]? Questo Occidente [Abend-Land] diverrà – al di sopra dell’“Occidente” [Occident] e dell’“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia futura più originariamente conforme al destino [geschickt]? Possiamo dirci occidentali nel senso rivelato dal nostro passaggio attraverso la notte del mondo?» (14).

Solo compiendo sino in fondo quel ‘destino’ che è l’Occidente, solo, dunque, quando l’Europa sarà in grado di riconoscersi come quella terra della sera che era destinata a diventare, le sarà forse possibile, secondo Heidegger «andare incontro alle decisioni future, diventando forse, in un modo del tutto diverso, la terra di un mattino»
(15).

Note:
 

1. Cfr. E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 1961.
2. Da alcuni anni questa parola si è imposta, con varie e diverse declinazioni, per cercare di pensare insieme i molteplici aspetti che investono il senso del rapporto tra l’uomo e la terra sulla quale abita, nella convinzione che il pensiero debba sempre radicarsi in una terra e che, d’altra parte, gli elementi geografici siano essi stessi carichi di una valenza che oltrepassa il dato meramente naturale, per rivestire valenze spirituali, simboliche e filosofiche di straordinaria pregnanza. Nell’impossibilità di dar qui conto della quantità ormai rilevante di studi di carattere geofilosofico, posso ricordare solo quelli che sento più affini alla mia prospettiva. Oltre ai miei lavori, tra cui soprattutto C. Resta, 10 tesi di Geofilosofia, in AA. VV., Appartenenza e località: l’uomo e il territorio, a cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996, pp. 7-24 e i volumi Id., Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in M. Heidegger, Angeli, Milano 1996; Id., La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 1998; Id., Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999; Id., Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, Mimesis, Milano 2000 (con Luisa Bonesio), vorrei ricordare quelli di Luisa Bonesio, insieme alla quale è stato possibile formulare una prospettiva geofilosofica comune: L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993; Id., Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; Id. Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio (BO) 2002 e i testi collettanei AA. VV., Geofilosofia, a cura di M. Baldino, L. Bonesio, C. Resta, Lyasis, Sondrio 1996; AA. VV., Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, Arianna, Casalecchio (BO) 2000. Accanto a questi, vorrei menzionare almeno, in ambito italiano, i lavori di M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994 e Id., Arcipelago, Adelphi, Milano 1997 oltre a quelli di F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996 e Id., Paeninsula. L’Italia da ritrovare, Laterza, Roma-Bari 1998.

3. Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1993, p. 59, af. 52: «si andrà meditando tristemente sull’antica Asia e sull’Europa, la sua penisoletta avanzata, che vorrebbe rappresentare a tutti i costi, rispetto all’Asia, il “progresso degli uomini”». La stessa immagine ritorna in uno scritto di P. Valéry, Crise de l’esprit del 1919: «L’Europa diventerà forse quello che è in realtà, e cioè un piccolo capo del continente asiatico? Oppure l’Europa rimarrà quello che appare, e cioè la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo?», e ancora: «Ma che cos’è dunque quest’Europa? È una specie di capo del vecchio continente, un’appendice occidentale dell’Asia. Essa guarda naturalmente verso Ovest» (P. Valéry, La crisi del pensiero e altri “saggi quasi politici”, a cura di S. Agosti, il Mulino, Bologna 1994, pp. 35 e 44). La prima di queste due citazioni di Valéry viene ripresa e commentata da Heidegger in una conferenza del 1959, Terra e cielo di Hölderlin, in La poesia di Hölderlin, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 211. Su di essa, infine, si esercita il paziente lavoro di decostruzione di J. Derrida, Oggi l’Europa, tr. it. di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991. Sul destino dell’Europa, tra terra e mare, fondamentali risultano le riflessioni di C. Schmitt di cui ricorderemo soltanto Terra e mare, tr. it. di A. Bolaffi, Giuffré, Milano 1986 e l’opus magnum, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum Europaeum”, tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991.
4. È quanto, tra gli altri, sosteneva Spengler nel suo celebre O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1981.

5. J. Derrida, Oggi l’Europa, cit., p. 51.
6. Ivi, p. 14.
7. Cfr. J.-L. Nancy, Alla frontiera, figure e colori, tr. it. di L. Bonesio in AA. VV., Geofilosofia, cit.
8. Per questa interpretazione della tecnica quale moderna espressione di una volontà di potenza che persegue il dominio del reale attraverso l’imposizione di un pensiero calcolante cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976 e E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991.
9. Sugli aspetti inquietanti di un governo mondiale della tecnica hanno insistito, pur con differenti accenti, C. Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma 1994 e E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1998. Per un analisi più approfondita di questi temi mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, cit. e Id., Verso assetti planetari, in Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era dei Titani, cit.

10. Si tratta, com’è noto, di un episodio rievocato da Dante nel canto XXVI dell’Inferno.
11. Al viaggio dell’Ulisse dantesco e al suo concludersi nel «folle volo» ha dedicato splendide pagine M. Cacciari, L’Arcipelago, cit., pp. 63-71. Importanti osservazioni, anche riguardo alla ‘misura’ del Mediterraneo rispetto alla dismisura dell’Oceano, si trovano in F. Cassano, «Mediterraneo», in Il pensiero meridiano, cit.
12. Baudelaire
13. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, vol. VII, tomo III, Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di S. Giametta, Adelphi Milano 1975 41 [7], p. 329-330.
14. M. Heidegger, Il detto di Anassimandro (1946), in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 303.
15. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, SugarCo, Milano 1988, p. 129.

Atti della XXVIII edizione delle Giornate internazionali di studio promosse dal Centro Pio Manzù (Rimini, 19-21 ottobre 2002): Il corno di Heimdall, “Strutture ambientali”, 124, 2002, pp. 83-95.

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