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Islanda: se il debito non può essere pagato, non lo sarà

di Olivier Bonfond - 05/10/2009

 
L' Islanda piccolo Stato senza esercito di 320.000 abitanti, ha appena annunciato che condizionera' il rimborso del suo debito alle proprie “capacita' di pagamento”. Se la recessione perdura, l'Islanda non rimborsera' nulla. Pur dovendo stemperare la portata di questa decisione, dovendo altrettanto verificare la sua effettiva applicazione, essa rappresenta tuttavia una reale opportunita' che i movimenti sociali, del Nord e del Sud del mondo, dovrebbero cogliere per obbligare i governi a mettere in discussione il pagamento incondizionato del debito pubblico.

Dopo 15 anni di crescita economica, dopo essere stato considerato uno dei paesi più ricchi del pianeta, l' Islanda ha conosciuto alla fine del 2008, secondo il FMI (Fondo monetario internazionale), la piu' pesante crisi bancaria nella storia di un paese industrializzato[1]. Questo non ha nulla di casuale. In questi ultimi anni l' Islanda ha applicato quello che potremmo definire un “neoliberismo puro”. Il settore bancario, integralmente privatizzato nel 2003, ha fatto di tutto per attirare i capitali stranieri. In particolare ha sviluppato i famosi conti on line, i quali, con la riduzione dei costi di gestione, permettono di offrire dei tassi di interesse relativamente interessanti.

In appena 4 anni, il debito estero delle tre principali banche islandesi ha più che quadruplicato, per passare da 200% del prodotto interno lordo nel 2003 al 900% nel 2007! Quando i mercati finanziari sono crollati nel settembre del 2008 e queste tre banche sono cadute in fallimento esse erano evidentemente impossibilitate nell'assolvere ai propri impegni, tanto piu' che il crollo dell' 85% del valore della corona sull' euro non ha fatto che decuplicare il debito. Vista la portata del fallimento bancario, nessuno ha voluto prestare soldi o finanziare un qualunque tipo di salvataggio. I rubinetti si sono chiusi.

L'Unione Europea e l' FMI “consigliano” allora al governo islandese di socializzare le perdite del settore finanziario facendosi carico dei debiti delle banche. Per trovare i finanziamenti necessari per il risanamento di questo nuovo debito nazionalizzato, i “consigli” del FMI sono chiari: tagli alla spesa pubblica, in particolare su sanita' ed educazione, aumento delle imposte sul lavoro e imposte indirette e applicazione di una politica monetaria restrittiva (sostanziale aumento del tasso di interesse). Questo tipo di politiche assomigliano come due gocce d'acqua alle misure di un “aggiustamento strutturale” che i paesi del Sud applicano da piu' di 25 anni, con i risultati che ben conosciamo.

Inoltre e' questione di non indugiare. Si presume che l'Islanda trovi, di qui all'autunno 2009, i fondi per rimborsare il suo debito, in particolare riguardo agli investitori britannici e olandesi e il mancato pagamento minaccerebbe l'adesione dell' Islanda all' Unione Europea. Se accettano questa condizione o piuttosto questa minaccia, cio' implicherebbe una forte austerita' e provocherebbe un aumento del debito pubblico estero dell' Islanda che si attesterebbe al 240% del prodotto interno lordo.

Il neoliberismo non ha mantenuto le sue promesse e questo e' il meno che si possa dire: esplosione della disoccupazione e del debito pubblico, indebitamento eccessivo per le case, tanto che taluni vengono sfrattati dalle proprie abitazioni, tassi d'interesse proibitivi, ecc. Quando le mobilitazioni avevano gia' costretto il governo alle dimissioni nel gennaio 2008, questa linea di condotta del FMI evidentemente non ha fatto che accrescere il malcontento generale e le manifestazioni, evento rarissimo per questo paese, si sono amplificate, in particolare davanti all' Althing, il parlamento islandese. In questo contesto, lo stesso parlamento ha adottato a fine agosto una risoluzione che stabilisce che il governo destinera' al massimo il 6% della crescita del suo prodotto interno lordo per il rimborso del debito. E se non vi sara' crescita, l'Islanda non paghera' nulla.

Siamo realistici, questa misura non costituisce un atto che potremmo qualificare rivoluzionario. Innanzitutto bisogna sottolineare che l'Islanda si trova in questa situazione perche' ha deciso di nazionalizzare un debito privato. Inoltre un tasso di crescita economica non dovrebbe automaticamente significare una crescita delle capacita' di pagamento. La ripartizione delle ricchezze create e le priorita' del budget devono essere decise in funzione dei bisogni dei cittadini e non seguendo gli interessi dei creditori. E la cosa più importante: il debito non e' per nulla annullato. Al massimo, il rimborso sara' rinviato nel tempo; non c'è auditing in vista e dunque nemmeno la possibilita' di rimettere in discussione la legittimita' e la legalita' di questo debito.

Tuttavia, questo atto mostra una cosa essenziale: quando c'è una volonta' politica, spesso, anzi sempre nata da mobilitazioni sociali importanti, e' possibile desacralizzare il carattere non negoziabile del rimborso del debito pubblico e di adottare misure concrete che vanno contro gli interessi dei creditori.

I movimenti sociali, del Nord e del Sud del mondo, dovrebbero dunque servirsi di questo esempio e spingere i propri governi a fermare il rimborso invocando gli argomenti giuridici di “stato di necessità” e “forza maggiore”: i popoli non sono responsabili della crisi capitalista attuale e, vista la congiuntura, rimborsare significa concretamente la degradazione generale delle condizioni di vita per le popolazioni del Nord e la morte, nel senso letterale del termine, di milioni di persone nel Sud. Quando Geir Haarde, il primo ministro, dichiara che “vi sono molti argomenti di natura legale che giustificano il mancato pagamento”[2] ha perfettamente ragione. Non dimentichiamo quanto stipula l'articolo 2 della Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del 1986: Gli stati hanno “il diritto e il dovere di formulare politiche adeguate di sviluppo nazionale aventi per obbiettivo il costante miglioramento del benessere della popolazione”. Porre una moratoria immediata sul rimborso e lanciare un reale processo di auditing, trasparente e democratico, al fine di avanzare verso il ripudio di questo odioso debito, illegittimo e che sottomette i popoli , è piu' che mai attuale, dal Nord al Sud, dall' Est all'Ovest “una soluzione, il ripudio!”

Olivier Bonfond (CADTM, Comité pour l'annulation de la dette du Tiers Monde) olivier@cadtm.org, www.cadtm.org
Fonte: www.mondialisation.ca
Link: http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=15431
28.20.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICOL BARBA

Per maggiori informazioni riguardanti le mobilitazioni in Islanda, vedere il film di Patrick Talierco “Comment l’Islande a changé de gouvernement” edizione 68 Septante, collezione vid #02 (per maggiori informazioni: www.6870.be - edition@6870.be )

NOTE

[1] “ Secondo il FMI, il fallimento delle banche potrebbe costare ai contribuenti piu' dell' 80 % del prodotto interno lordo. Relativamente alla grandezza dell'economia, questa rappresenta circa 20 volte quello che il governo svedese pago' per salvare le sue banche all' inizio degli anni '90. Questo equivarrebbe a svariate volte il costo della crisi bancaria in Giappone di una dozzina di anni fa” (“According to the IMF, the failure of the banks may cost taxpayers more than 80% of GDP. Relative to the economy’s size, that would be about 20 times what the Swedish government paid to rescue its banks in the early 1990s. It would be several times the cost of Japan’s banking crisis a decade ago”. « Cracks in the crust », The Economist, 11 dicembre 2008.

[2] “ Cracks in the crust”, The Economist, 11 dicembre 2008.  http://www.economist.com/world/europe/displayStory.cfm?story_id=12762027