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Confini di montagna

di Luigi Ranzani - 29/03/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 


Gabriele Munter, Murnauer Moos

 

Le Alpi, confine del paesaggio di pianura, e al loro interno, incastro di molteplici e spesso angusti orizzonti, appaiono, quasi per antonomasia, come l’imponente materializzazione, l’espressione fisica, la concrezione figurata dell’idea stessa di confine, e dunque anche di raccordo di spazi differenziati e prossemici, articolazione plurima di luoghi per lo più remoti e solitari, dove la staticità e l’inamovibile rigidità della pietra e l’effetto percettivo richiudente e protettivo si ripete, per corrispondenza, in tutte quelle pratiche simboliche con le quali le culture tradizionali conferi(-vano)scono uno statuto ontologico particolare, differenziato e sacralizzante, ai luoghi, mettendoli in comunicazione con una dimensione sovraempirica e transrazionale.

Che siano cippi confinari di proprietà agricole, mura di città o stele funerarie, questi segni erano scelti in forza della loro evidente affinità analogica con l’inevitabilità, la fissità, l’affondamento, la perduranza e l’effetto protettivo del simbolo minerale, manifestazione ontologica di una presenza incondizionata
(1).

Se l’analogia tra la indubitabilità rocciosa della montagna e l’efficacia limitante dei segni confinari è sufficientemente comprensibile e perspicua, e se accettiamo anche l’ipotesi che l’analogia non sia semplicemente una sortita fantastica ed arbitraria ma anche e soprattutto il modo con il quale l’uomo riflette e medita sul senso del suo abitare terrestre, allora mi sembra non superficiale voler trattare la montagna interrogandone la peculiare parentela che l’avvicina alla sfera di significati compresi nell’idea di confine.

Ciò che sto tentando di fare, cogliendo e sottolineando la salienza analogica che tiene unita la montagna al confine (e viceversa), non deve però essere inteso come il tentativo di naturalizzare un concetto che, come quello di confine, appartiene all’immaginazione e alla costituzione del soggetto e della cultura, e non già all’ambito degli enti positivamente determinati. Per pensare radicalmente il confine bisogna, anzi, svincolarlo dall’ambito dogmatico che ne vorrebbe ridurre l’essenza all’identità con enti fisici. La montagna, e in generale i luoghi naturali a spiccata liminarità (fiumi, passi, mari, deserti, isole), richiama l’idea di confine proprio perché il suo esserci non è mai un dato empirico dal senso predeterminato e direttamente acquisibile dalla conoscenza. Come ogni immagine sensibile anche la montagna, la roccia, il sasso sono sempre in attesa di quell’interpretazione e di quella traduzione che ne approfondisca la verità rivelandone i molti significati possibili. Ciò vuol dire che la natura si dà al pensiero sorpassando per intensità la collocazione spazio-temporale dell’intuizione, deprimendone l'aspirazione ad una comprensione infinita della totalità dei significati comunicati dall’immagine.

Quindi, se tra segno e significato - tra natura e uomo - non vige un rapporto di adeguazione e di rispecchiamento assoluto, indagare non ingenuamente la relazione che apparenta le montagne al confine, ci obbligherà a considerare come tutti i possibili posizionamenti assunti via via dallo sguardo moderno verso la rocciosità alpina non siano la trascrizione pedissequa e causale di un fenomeno che, per il suo peculiare apparire morfologico, sembrerebbe predestinato ad incarnare, senza resto e senza differenza, l’idea di limite ma, ben più avvertitamente, ci obbligherà a guardare ciascun posizionamento come l’espressione culturale di una topologia, e cioè l'espressione ogni volta determinata di un certo qual modo, per lo più irriflesso, di rappresentarsi, esteticamente prima ancora che concettualmente, il confine e le norme che ne regolano l’uso e ne investono la spazialità, sia quella dell’esperienza vitale (Lebensraum) che quella speculativa. Tengo a sottolineare il ruolo primario che l'investimento estetico gioca nella comprensione culturale del confine e della montagna poiché impossibile, e volgarmente idealistico, sarebbe infatti dividere astrattamente la rappresentazione concettuale dello spazio dalla sua prioritaria elaborazione immaginale, simbolica, affettiva ed emozionale.

In questa direzione di ricerca, Florenskij - autore di una interessantissima riflessione limologica - fa notare come ogni cultura non sia altro che un organismo simbolico presieduto da un principio poligenetico essenzialmente spaziale, dove lo spazio appare isomorfo alle proprietà stilistiche di un testo possibile, avanzando l'ipotesi che l'immaginazione umana sia uno strumento di conoscenza autonomo, ragionevole e non irrazionale, come pensavano i romantici, perché in grado di tradurre i dati dell'esperienza in una cartografia invisibile che ha meno a che fare con l'esattezza geometrica euclidea quanto piuttosto con una topologia simbolica: “Tutta la cultura può essere interpretata come l’attività dell’organizzazione dello spazio. In certi casi si tratta dello spazio delle nostre relazioni vitali, e allora l’attività corrispondente si chiama tecnica. In altri casi si tratta dello spazio di un modello mentale della realtà e la realtà della sua organizzazione si chiama allora scienza e filosofia […]. Nondimeno, i tipi di attività indicati possono pur sempre essere delimitati in base al loro significato predominante, ma al di qua di questa delimitazione, fanno tutti fondamentalmente la stessa cosa: cambiano la realtà per ricostruire lo spazio”
(2).

È legittimo affermare che ogni cultura andrebbe allora interpretata, nell’insieme dei singoli atti rappresentativi, come genealogicamente legata ad un’originaria organizzazione dello spazio. La rappresentazione dello spazio, la distinzione delle posizioni, l’evidenziazione delle differenti spazialità con l’effetto plurisignificante di regioni semiotiche intensamente ‘qualificate’, la distribuzione di segni secondo dinamiche inclusive ed esclusive, si pongono tutti come un complesso di atti performativi. I gesti spaziali della cultura sono costituenti di quelle realtà espressive (testi, immagini, concetti) che funzioneranno come modelli (quadri del mondo)
(3) per l’oggettivazione e la strutturazione, e la comprensione del mondo.

Ancora Florenskij ci fa notare come nella pluralità di testi e concezioni (Weltanschauungen) prodotti da un qualsiasi sistema culturale (artistico, filosofico, scientifico, economico…) il momento dedicato alla riflessione sul simbolo spaziale è tanto decisivo da connotare la configurazione spaziale come l’originario e fondamentale gesto in grado d’influenzare e prefigurare le direzioni di sviluppo e le peculiarità tematiche di un pensiero e di un'intera cultura: “Quanto più un certo sistema di pensiero è stato elaborato in modo consistente, tanto più definita sarà la usa particolare interpretazione dello spazio in quanto proprio nocciolo essenziale. La concezione del mondo […] è concezione dello spazio"
(4).

Con queste premesse è anche ovvio che l’immagine oleografica e stereotipata di una montagna intatta ed eternamente identica a sé, che comunichi dei significati originari, primitivi, evidenti, immediatamente riconoscibili e condivisibili anche dall’urbanità di chi, per finalità eterogenee, ne venga in contatto, non esiste se non come prodotto simulacrale di un’operazione culturale sospetta, edonisticamente interessata alla diffusione indistinta ed alla fruizione agevole di cliché per lo più appartenenti a codificazioni culturali storicamente circoscritte
(5) (p. es. la lunga perduranza del codice salutistico, risanatore e moralmente positivo della montagna pittoresca). In altre parole, non bisogna cedere troppo affrettatamente ad una disposizione culturale irriflessa e diffusa che tende inconsapevolmente a semplificare, quando non ad azzerare la plurisignificatività di stratificazioni simboliche appartenenti ad orizzonti culturali ormai drammaticamente lacerati e irriconoscibili per uno sguardo – come il nostro – modernamente educato alla consunzione accelerata imposta dal lògos tecnico. È infatti proprio nella fagocitazione consumistica dell’immenso e fragilissimo patrimonio simbolico di luoghi legati a temporalità e modalità di interessamento differenti dalla velocizzazione coatta, che va individuata l’irreprensibile peroratrice di quell’ideologia spontanea con cui la modernità giustifica la propria ubiquitaria, onnivora ed uniformizzante libertà con la reiterata e spedita conciliazione di ogni alterità alla logica di dominio del soggetto assoluto. Un soggetto cioè, che nell'universale messa al lavoro della Terra, disconoscendone ogni resistenza che ne evidenzi una legge intrinseca incompatibile alla volontà massimizzante della tecnica, appare come colui che, radicalmente impius, per propria autonoma iniziativa si è sciolto e assolto dall’impegno verso la custodia ed il riconoscimento di qualsivoglia singolarità straniera – quale può essere un accadere umano, sensibile o divino – indifferentemente annullata sia come non identica a sé (la sovranità trascendente del soggetto, della nazione e della razza), sia come identica nell’uguaglianza con gli altri (la sovranità immanente dell’individualismo di massa, dell’internazionalismo egalitario) (6).

 

Una prima mossa utile per depotenziare la pretesa faustiana all'asservimento incrostato ed intollerante della Terra è quella di porlo di fronte ai limiti che ragione avverte nel comprendere la natura, non ultima quella così enigmatica delle montagne. Ammettere però la limitatezza costitutiva dell’uomo, cioè la sua impossibilità di cogliere direttamente, senza la mediazione di una forma simbolica - quindi senza una costruzione culturale ed un investimento estetico -, il significato della natura, non vuol dire che natura intera sia inespressiva ed insignificante come fosse avvolta da un mutismo disperato. Se l'uomo, nietzschianamente, è quell'animale incompleto, insoddisfatto e insaturo che per frequentare la Terra ha bisogno di farsene un'immagine, ciò non condanna affatto la natura alla cecità di una cosa materiale, irragionevole, infrarazionale, opaca e ottusa, fatalmente in attesa di un eroico spirito rischiaratore che, immettendo nella inerzia idiota della materia significati razionali e positivi, la redima dalla sua ostinata ed inintelligibile casualità.

Piuttosto la montagna, esprimendo prepotentemente il sopraggiungere di un evento primordiale (ciò che i fenomenologi chiamano Selbstgegebenheit), incommensurabile ed intrattabile dalla dimensione antropocentrica dell’addomesticamento dialettico, pone simultaneamente la doppia e inaggirabile questione dell’insufficienza del linguaggio umano colpito dall’eccedenza dell’accadere cosmico. Di fronte allo scoglio di un evento donativo, radicalmente inintenzionale sarebbe vano, se non pericoloso, tentare di ridurre ciò che nella natura resta di irriducibile al senso umano del comprendere discorsivo, ascrivendo qualsiasi residualità ‘arcaica’ e selvatica della natura alla proiezione ideologica di istanze ingenuamente sentimentali, quando non programmaticamente reattive. Un atteggiamento meno sospettoso e più umile nell’affrontare l’enigmaticità che la natura delle montagne offre in modo così perspicuo, dovrebbe invece invitare all’approfondimento della sua emergenza nell’orizzonte epocale dell’umanità tecnica. Questo vuol dire, essenzialmente, pensare il limite montagnoso della Terra come il limite dell’umanità tecnica per eccellenza, insistendo sulla necessità di assumere la ‘montagna’ (e la natura) con un giusto disincanto, eliminando la pretesa ad una tardiva reintegrazione dei suoi valori più attraenti ed facilmente spendibili. Un pensiero all’altezza dell’epoca sarà un pensiero che consapevolmente pensa la montagna come la vicenda differenziata degli incontri, del contatto, dell’amicizia ma anche del fraintendimento, dell’incomprensibilità e dell’ostilità tra l’uomo e la natura, e cioè tra il manifestarsi inconcepibile e ingiustificato della natura ed il tentativo, da parte umana, di significarne, abitarne e salvaguardarne o anche annullarne, tradirne, esaltarne e sovraesporne, la mutezza indischiudibile del suo mistero, così come il lampeggiare insperato ed imprevedibile della sua verità.

 L’idea del confine

Prima ancora di interessarci al nesso tra montagna e confine, è opportuno chiarire cosa si dovrebbe intendere per confine, inteso nella sua accezione teorica generica. Mi preme soprattutto allontanare dalla riflessione un pregiudizio abbastanza diffuso e ancora ben radicato nell’opinione comune. Questo pregiudizio dichiara cosa pacifica e non degna di approfondimento l’opinione che ogni idea di confine sia riconducibile ad un ventaglio di significati negativi e illiberali, riconducibili all’assunto che ogni partizione e limitazione di un ‘qui’ rispetto ad un ‘altrove’ sia già in sé un arbitrario e deliberato gesto di violenza, generativo e anticipatore di ogni altro futuro conflitto.

Siamo qui di fronte, in verità, ad un’intuizione che coglie ed evidenzia in modo esclusivo un solo aspetto del volto gianico, bipolare e contraddittorio del confine, che inevitabilmente ne evidenzia gli effetti deprimenti e spiacevoli provocati dall’indubbia interdizione che accompagna la presenza e l’erezione di un qualsiasi limite. Ma è un’intuizione che origina anche dal voler risolvere in un giudizio negativamente connotato quell’ambiguità e quell’indecidibilità, costitutiva e razionalisticamente irrisolvibile, inerente all’essenza stessa del confine, trasformando così la nostra esperienza del limite nell’esperienza non pacificata di una lacerazione: “Osservando un confine, siamo necessariamente costretti a considerare i due versanti che esso disegna. E molte volte ognuno dei versanti contraddice l’altro. Per ciascuno di noi il confine può essere in tempi diversi il simbolo di una chiusura, ma anche quello di un’apertura; può significare l’inclusione o l’esclusione da un ambito particolare. […] in questo senso, non riuscire ad intendersi lungo un confine non è mai una cosa troppo difficile. Piuttosto potremmo dire che un confine si delinea in modo chiaro nel momento preciso in cui si rivela un’incomprensione […]. Eppure, questa linea fatale su cui tutto si regge, tracciare apposta per segmentare una continuità in modo da potersi scontrare nei suoi interstizi a sempre funzionato nei suoi interstizi allo stesso tempo anche come un fondamentale strumento di interazione e di scambio tra mondi diversi”
(7).

Nonostante l’ambiguità e il rischio che l’idea del confine fa patire alla ragione, imponendole forse di percorre se stessa fino alle estreme possibilità di rappresentazione, è proprio la questione del limite che apre lo spazio decisivo per il destino terrestre dell’uomo, come Cacciari più volte ha ricordato: “La difficoltà di definire il confine non può però farne cessare il bisogno. Il confine non è e-liminabile. Necessaria appare la nostra ricerca di un luogo dove poter soggiornare, che un limes possa custodire. Noi costruiamo-edifichiamo per corrispondere a questa necessità. Nessun nomadismo può metterla a tacere […]. Questo bisogno è insopprimibile, eppure soddisfarlo appare ardua impresa. Non possiamo abitare (e dunque edificare), non abbiamo ethos, che in quanto tracciamo confini, eppure sembra impossibili definirli rigorosamente”
(8).

Se è vero che l’uomo non può rinunciare a definire e tracciare differenze e volendo, di conseguenza, decostruire una risposta genericamente ‘libertaria’ al problema del confine, fautrice di uno spazio astrattamente desemantizzato da qualsivoglia partizione simbolica e qualificante
(9), occorrerà affermare, di contro, l’importanza imprescindibile che la dinamica simbolica del confine riveste per la vita spirituale e relazionale dell’uomo, sia essa direzionata antropologicamente verso la comunità, sia essa pensata in un orizzonte di partecipazione ‘ecologica’ ad un destino terrestre e cosmico, sia essa, infine, compresa nella dimensione oltreumana dell’esperienza religiosa riservandoci, nondimeno, leciti dubbi sull’opportunità teorica di tenere separati questi tre ambiti. Comunque sia, per ognuna di queste dimensioni l’azione limitante/aprente del confine consente di organizzare e ritualizzare l’esistenza all’interno di una situazione spazio/temporale definita e circoscritta, eleggendosi a condizione imprescindibile e necessaria ad un abitare che non è mai un mero prendere possesso della terra per usufruirne delle risorse, ma si estende a dimensioni non più immediatamente sensibili ed empiriche.

Per esempio, nelle culture tradizionali l’istituzione e la codificazione dei confini, coincidente con una complessa ed imprescindibile gestualità ritualizzata, non sono mai riducibili ad una neutra esigenza di mera misurazione ed amministrazione dell’estensione, ma riguardano direttamente l’essenza stessa del destino umano sulla terra inteso come la possibilità di comprendere e significare la propria esistenza simbolicamente corrispondendo, quindi, ad un ordinamento superiore dell’essere
(10). E infatti, proprio perché la dinamica rappresentativa del confine mostra una superiore capacità di conferire senso alle scelte esistenziali – l’abitare, il coltivare, il riunirsi, il festeggiare, il pregare – il suo uso veniva investito di un valore religioso eccedente la sfera della funzione giuridica così che, ad esempio, il possesso di una proprietà era accettabile e garantito solo grazie all’idea di una custodia religiosa che il confine, in quanto personizzazione di istanze trascendenti, veicolava ed estendeva sul luogo da esso delimitato. Secondo quanto afferma Florenskij, autore di un interessantissima e complessa riflessione ‘limologica’, il significato filosofico del confine affonda in una radice etimologica in cui senso fisico-materiale e significato spirituale sono, nel reciproco rimandarsi e coappartenersi, indisgiungibili e compresenti nella radice ‘Term’: “Il primitivo diritto di proprietà era un concetto e un’istituzione di natura puramente religiosa e nient’affatto intrinsecamente giuridica. Il diritto primitivo sulla proprietà fondiaria era dunque garantito non da leggi, ma dalla religione. Ogni possedimento era sotto sorveglianza delle divinità domestiche, che lo custodivano di persona […]. Il Termine nasce innanzitutto come custode della soglia, custode del terreno sacro, custode di tutto ciò che è compreso entro i limiti del confine custodito” (11).

Senza limiti svanisce dunque la possibilità di individuare uno spazio e quindi di poterlo, successivamente, significare, abitare, coltivare, rendere ospitale e, ovviamente, pensarlo anche in maniera diversa, riconfigurandolo in risposta agli ingressi di problematicità provenienti dagli spazi ad esso contigui o da esso disgiunti. Il fare umano, prima ancora che produrre forme simboliche ed espressioni spirituali, provvede a procurarsi la condizione di possibilità per incidere la terra, in modo tale da abitarla come colui che si sa e si percepisce non come isolato in una proprietà assoluta, ma da sempre, compromesso ed esposto ad un’alterità.

Come l’inscriversi dell’abitante nel paesaggio non inizia dalla edificazione ma ha la sua apertura originaria nella delimitazione dell’orizzonte, così il riconoscersi come organismo culturale ingiunge una concessione di precedenza ai gesti legati alla distinzione ed alla misurazione, al distanziamento ed all’ordinamento del distinto in unità riconoscibili: “Il lavoro fondamentale della cultura […] sta nell’organizzare strutturalmente il mondo che circonda l’uomo. La cultura è un generatore di stutturalità; è così che essa crea intorno all’uomo una sociosfera, che allo stesso modo della biosfera, rende possibile la vita, non organica, ovviamente, ma di relazione”
(12).

Quindi il limite non è il gesto arbitrario di chi, escludendo l’altro, rinuncia al confronto e all’esposizione, a vantaggio di un’identità assicurata e circoscritta dall’isolamento del confine. Se il confine servisse solamente a rinchiudere qualcosa che gli preesiste, la sua ragione spaziale giocherebbe un ruolo puramente passivo costituendosi come il perimetro, il contenitore e la chiusura di una soggettività presupposta, che trova continua conferma e acquista stabilità nell’appropriazione di sé all’interno dello spazio tracciato dal proprio dominio. Al contrario, come Nancy suggerisce, un pensiero che voglia tematizzare in modo forte la questione del limite non può pensare ad una soggettività possibile né ad una territorialità abitabile senza la consapevolezza prioritaria che il qui e il là, il vicino e il lontano, l’identico e il differente non sono dati di fatto che sussistono prima del loro incontro sul confine ma, appunto, proprio perché confiniscono in un limite comune possono costituirsi come singolarità. La mia identità e la tua alterità accedono alla reciproca esistenza soltanto quando si riconoscono come prodotti del confine e non attori separati ed impartecipi, quando il confine non è la “chiusura e delimitazione di dominio, né figura piena, identificata, ma la frontiera in quanto tracciato frattale di una figura sempre mobile, spostabile, e il cui ‘bordo’ esterno tocca incessantemente il bordo ‘interno’ di un’altra figura, di una pluralità di altre figure”
(13). Il riconoscimento reciproco e asimmetrico, quindi sempre incerto e da ritracciare, di una non sopprimibile molteplicità di differenze ha la propria condizione di possibilità nella buona determinazione del confine. Ciò vuol dire pensare un confine che, come innesco di relazioni non sia la circonferenza proiettata dall’identità del mio centro, né l’ingiunzione di un dominio a me esterno ed estraneo, ma il luogo dove si rivolgono e si toccano e si offrono le finitezze compiute dei singoli.

………

Abbiamo già accennato al fatto che, se la montagna si impone come il luogo per eccellenza limitato e limitante, ciò è il risultato di un processo proiettivo con cui una disposizione estetica si fa gusto predominate ed onnipervasivo, colorando di sé, per estensione, anche la sfera della riflessione morale e dei giudizi storici. Modernamente la montagna è, in quanto limite, verticalità assoluta, immobile intemporalità, chiusura inospite, la cifra dell’inaccessibilità, dell’intransitabilità, dell’esclusività. Da questo paradigma, culturalmente e geograficamente determinato, segue un orientamento spazio-temporale della percezione delle sue forme verso l’idea di un’arcaicità primitiva in cui la vita, la sola vita possibile, sia necessariamente determinata da un’autosufficienza materiale e culturale, il cui correlato ideologico sarà inevitabilmente un conservatorismo immobilista degli usi e delle regole.
Insieme alla montagna la modernità scopre, assimilandola ad essa senza soluzioni di continuità, l’idea di un limite e di un confine assoluto, monotematicamente assunto quale ultimatività intrattabile di un alterità senza mediazione e differenziazione rispetto alla propria rocciosa identità. Dimenticando che ogni confine è anche e necessariamente un luogo di confronto e di avvenimenti molteplici, nella modernità avanza e trova facile consenso l’idea di una montagna identificabile senz’altro con una frontiera negativa la cui presenza elementare si annuncia immediatamente nell’aspetto minaccioso di un ostacolo verso il quale non c’è relazione possibile che non sia l’affrontamento pugnace ed asseverante.

Questa persistente e significativa convinzione culturale, non incrinata dalla evidenza – morfologica, paesaggistica sia antropologica – di una plurisecolare attività di transito, commercio, civilizzazione (I Walser, ad esempio), si accompagna emblematicamente ad una coeva inclinazione del gusto che epocalmente ha interessato la montagna e la sua confinarietà simbolica.

Si tratta dell’ansia dai toni persecutori con la quale, quello stesso occhio che vedeva nella montagna la sola frontiera e la chiusura per eccellenza, ora ne persegue in un inedito connubio tra urbano disincanto e desiderio di selvaticità: o meglio sparizione della montagna quale enigma dello spirito provocata sia dal misticheggiante annullamento dell'io nell'infinità divina della natura grazie all'eroismo spirituale e fisico, sia dalla conquista e dall'asseverazione scientifica. È bene ricordare come ognuna delle modalità accennate in cui si è data cancellazione del limite, nasce da un'inclinazione del gusto estranea ed inedita rispetto alla significazione tradizionale della montagna, propria di coloro che ne assumevano la portata simbolica immettendola in un circuito di gesti legati al culto, all'abitare, alla cura: in breve alla venerazione e al rispetto (Gunst, in tedesco, che Heidegger glossa come “favore”, “ritegno” per un dono ricevuto).

Va ricordato, per antifrasi, come lo sguardo di una cultura radicata nel lavoro, nella cura e nella celebrazione di tempi e luoghi scanditi ritmicamente dagli eventi rappresentativi delle leggi cosmiche, si nutra e si orizzonti in una spazialità circoscritta che non conosce l'anelito irresistibile per la lontananza e l'ignoto, in cui ciò che si differenzia dalla modernità non è tanto l’assenza della dimensione esplorativa e dialogica con l’estraneo, quanto invece un interesse peculiare e quasi esclusivo per la ‘prossimità’ e il vicino, per il consolidato, per il tramandabile ed il riconoscibile, per il nominabile. Manca insomma allo sguardo dell’abitante “colto”, in tutte le sue accezioni, quella delicata sfumatura del sentimento generata dal senso di mancanza e di lontananza dall’essere, che ne alimenta la nostalgia, il desiderio e la volontà di risarcirne l’assenza cercandola in un oltre e in un Altro da contemplare, raggiungere, assimilare, conquistare. Atteggiamento che assumere via via la forma della chiarezza positiva e riduzionistica, dell'adesione mimetica alla materia vissuta nelle forme diverse e complementari del possesso muscolare e dell’identificazione apatica, del rispecchiamento sentimentale, dell'annullamento misticheggiante. Si tratta di un atteggiamento - salvo rare eccezioni - onnipresente nella letteratura alpina, di lunga durata, e ancora persistente in autori contemporanei che, pure eticamente avvertiti, interrompono e disincantano la contemplazione quando non riescono a non pronunciare il fatidico interrogativo faustiano: “In certe giornate limpidissime di autunno, perfino dai tetti più alti di Venezia si possono distinguere, anche senza bisogno di binocolo, le Dolomiti […] il loro confuso profilo di montagne, misteriosa barriera che chiude il nord (e al di là che cosa esiste? quali mondi si stenderanno di là dalla muraglia?)”
(14).

Forse l’assenza di una tale domanda non ha mai potuto fondare l’ipotesi stessa dell’alpinismo, laddove l’alterità proiettata in un oltre assolutamente mondano, prodotto e raggiunto dalla volontà di potenza, non colmava la solitudine insostenibile del soggetto moderno ma donava l’indubitabile presenza del divino. In un luogo riconosciuto come sacra sede di forze superiori dove, per l’appunto, l’accedere profano comprometteva l’integrità della potenza simbolica e trascendente. Potremmo ancora aggiungere, mutuando l’analisi dedicata da Zumthor alla spazialità medievale, che la cultura alpina, ereditando elementi di significazione tradizionale, conserva il sentimento, eterogeneo eppure sempre individuato, che la induce e a significarsi in una provenienza ed a riconoscersi in un centralità che la caratterizzi come “una cultura eterogenea nelle sue fonti e nelle sue manifestazioni, unificata da un potente desiderio collettivo, da una volontà di essere insieme in uno stesso luogo”
(15).

Non deve sorprendere allora, come la loro percezione spaziale, dominata da una calorosa complicità con la Terra, avesse estreme difficoltà a cimentarsi nella percezione e nella misurazione della distanza e degli oggetti posti nella distanza e provenienti da lontano, proprio in quanto possibili negatori dell’ecceità del qui e minaccia del vicino:
“L’estrema parsimonia con la quale il Medioevo usa lo spazio naturale […] condiziona in qualche modo il desiderio che anima la sua cultura: un desiderio di pienezza e di contiguità, che genera l’orrore e il disprezzo del vuoto, della distanza, del fossato che separa”
(16).

Non è però un caso che la logica urbana della civiltà occidentale, al culmine della sua forza espansiva, riconosca un solo lato della liminarità della montagna: quella maggiormente difficoltosa da tradurre nel linguaggio universalizzante della concettualità identitaria della ratio e del discorsivo, dove lo spazio e la dimensione alteritaria della montagna può trovare accoglienza o come residuo negativo o come proiezione di rimozioni investite dalla volontà di potenza liberata dalle forme assicurative e socialmente garantite dal progresso (Castorp, la bestializzazione e vulgata nietzschiana).

Da un lato, se il confine è posto come ostacolo, quindi generando implicitamente una logica dell’espugnazione, diventa oggetto della volontà riduzionista; mentre, se dall’altro, è annullato nella dinamica dell’elevazione all’assoluto e vischiosamente riassorbito nella disposizione affettiva dell’anima, la semantica del suo simbolismo si irrigidisce in verticalità univoca, impermeabile e unilaterale dove, alla fine, l’alterità montuosa non sarà nient’altro che l’effetto contrappositivo immediato ed elementare.

Sotto questa prospettiva può apparire convincente come proprio lo sguardo della cultura civilizzata, emancipata dal radicamento affettivo ed etico ad un luogo, educato alla velocizzazione degli scambi e all’impermanenza delle merci, non abbia potuto o saputo scorgere nella alterità montuosa altro che la cifra selvatica di una dimensione al tempo stesso irraggiungibile, incomprensibile e sostanzialmente estranea, ma ugualmente desiderabile come pretesto al dispiegamento di volontà, sia come estremo e tardivo luogo di redenzione, raggiungibile attraverso la trasmutazione dell'ascesa in ascesi. Un salire, quest’ultimo, che è insieme moto di conciliazione con dimensioni non soltanto umane – e qui allora il limite tende alla sottilizzazione e allo svanimento in quanto ostacolo fisico e materiale trapassando in apertura, in donazione, in visione simbolica ed evento liberatorio: che sia forse questa l'ultima, estrema e destinale possibilità che ancora e da sempre ci è data per ripensare l'uomo e la montagna ancora uniti dalla reciproca donazione finita dei loro confini?

Note:
 

 


1. “Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania. Non vi è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non vi è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Il sasso, anzitutto, è. Rimane sempre se stesso e perdura; cosa più importante di tutte, colpisce. Ancor prima di afferrarla per colpire, l’uomo urta contro la pietra, non necessariamente con il corpo, ma almeno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto. La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma e nel suo colore, l’uomo incontra una realtà e una forza appartenenti a un mondo diverso da quel mondo profano di cui fa parte” (M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, trad. it. Di V. Vacca, Bollati Boringhieri, Torino 1975, p. ).
2. P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, ed. it. a cura di N. Misler, Adelphi, Milano 1995, p. 51.
3. “Il testo della cultura rappresenta il modello più astratto della realtà dal punto di vista di una data cultura. Lo si può pertanto definire come il quadro del mondo di una cultura” (J. M. Lotman, “Il metalinguaggio delle descrizioni della cultura”, in J. M. Lotman – B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, cit., p. 150).
4. P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo, cit., p. 219.
5. “Anche in ambito mitteleuropeo la ricerca, tipicamente settecentesca, della virtù primitiva finisce per edificare l’utopia felice della Svizzera alpina, che non è a tutt’oggi ancora del tutto tramontata” (E. Pesci, Montagne del cosmo. Per un’estetica del paesaggio alpino, pref. di M. Venturi Ferriolo, Centro Documentazione Alpina, Torino 2000, p. 76.
6. Su questo tema, in una discussione sulla prospettiva geofilosofica europea, il riferimento è a J.-L. Nancy, “Alla frontiera, figure e colori”, trad. it. di L. Bonesio, in Geofilosofia, a cura di M. Baldino, L. Bonesio e C. Resta, Lyasis, Sondrio 1996, p. 182.
7. P. Zannini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 92-93.
8. M. Cacciari, Nomi di luogo: confine, “aut-aut”, 299-300, 2000, p. 74.
9. Cfr. la critica mossa a questo modello, e ad uno dei suoi teorici, M. Serres, in L. Bonesio, “Terra, singolarità, paesaggi”, in Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, a cura di L. Bonesio, Arianna, Casalecchio 2000.
10. “Il vero fondamento del simbolismo è la corrispondenza che esiste fra tutti gli ordini di realtà, corrispondenza che li ricollega l’uno all’altro e si estende, di conseguenza, dall’ordine naturale preso nel suo insieme, allo stesso ordine sovrannaturale; in virtù di questa corrispondenza, l’intera natura non è altro che un simbolo, vale a dire che essa riceve il suo significato vero soltanto se la si considera un supporto per elevarsi alla conoscenza delle verità sovrannaturali, o metafisiche […]” (R. Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, trad. it. di P. Nutrizio, Luni, Milano 1996, p. 157).
11. P. A. Florenskij, “Il termine”, in Attualità della parola, ed. it. a cura di E. Treu e intr. di V. Vs. Ivanov, Guerini e Associati, Milano 1989, pp. 140-141 e p. 143.
12. J. M. Lotman – B. A. Uspenskij, “Sul meccanismo semiotico della cultura”, in J. M. Lotman – B. A. Uspenskij, Tipologia della cultura, ed. it. A cura di R. Faccani e M. Marzaduiri, Bompiani, Milano 2001, p. 42.
13. J.-L. Nancy, “Alla frontiera, figure e colori”, in Geofilosofia, a cura di M. Baldino, Luisa Bonesio e Caterina Resta, Lyasis, Sondrio 1996, p. 186.
14. D. Buzzati, “Ma le Dolomiti cosa sono?”, in Le Montagne di Vetro, a cura di E. Camanni, Vivalda, Torino 1989, p. 65.
15. P. Zumthor, La misura del mondo, trad. it. di S. Varvaro, il Mulino, Bologna 1995, p. 32.
16. Ivi, p. 252.