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I fraintendimenti dell’ecologia profonda

di Paolo Vicentini - 31/03/2006

Fonte: filosofiatv.org

 

1. Origini e natura dell’etica ambientale

      

       Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, a seguito della sempre maggiore presa di coscienza pubblica degli enormi squilibri ambientali causati da una produzione industriale e da un consumo incontrollati, ebbe inizio la riflessione filosofica contemporanea sui rapporti fra etica e ambiente o “natura” — intesa, quest’ultima, innanzitutto come l’insieme del mondo non umano e non prodotto dall’uomo. Tale riflessione confluì poi nell’alveo dell’etica normativa e, all’interno di questa, della cosiddetta etica applicata, che proprio in quegli anni faceva la sua oramai nota “irruzione”.[1] A questo nuovo campo di ricerca, a cui si deve una notevole espansione dell’orizzonte morale sia in profondità (ampliamento del confine di ciò che è oggetto di indagine morale) che in estensione (ampliamento del confine di ciò che è soggetto di considerazione morale), si è convenuto di dare il nome di “etica ambientale” (environmental ethics), in ambito anglosassone, e di “etica ecologica” (ökologische ethik), in ambito tedesco. In ambito italiano, invece, si è cercato di distinguere fra un’“etica ambientale” come applicazione dell’etica tradizionale all’ambiente, da un lato, ed un’“etica ecologica”  o “ecologista” come “nuova etica”, nuovo paradigma di filosofia morale che si renderebbe necessario per contrastare radicalmente l’idea del dominio umano sulla natura, dall’altro.[2]

       Secondo vari autori, tuttavia, sarebbe forse stato più corretto farne un ambito a sé di riflessione filosofica sotto il nome di “filosofia ambientale” o “ecofilosofia”, visto che, a differenza delle altre aree dell’etica applicata, l’etica del rapporto fra uomo e natura non è incentrata solamente o principalmente sull’etica, ma abbraccia molte delle branche più tradizionali della filosofia: estetica, metafisica, epistemologia, antropologia filosofica, filosofia della natura, filosofia dell’economia, filosofia della politica, filosofia della storia, ecc.[3]

       Dal 1973, anno in cui uscirono i primi articolati contributi sull’argomento, fino ad oggi la produzione filosofica nel campo dell’etica ambientale ha goduto di una prolificità straordinaria, sviluppando uno spettro di posizioni così ampio e variegato da poter essere a stento inquadrato in una tipologia analitico-comparata.[4] E’ tuttavia abbastanza comune fra i filosofi ambientali, classificare i vari orientamenti ecofilosofici a seconda del loro situarsi sull’immaginario asse che va dall’antropocentrismo al non-antropocentrismo, se è vero, come afferma Julian Nida-Rümelin, che “non si semplifica eccessivamente se si identifica la controversia filosofica sull’etica ecologica con la discussione sulla questione se sia possibile fondare un’etica non-antropocentrica”.[5] L’antropocentrismo, infatti, è considerato dalla maggior parte degli ecofilosofi come il pregiudizio culturale dell’occidente che più ha contribuito allo svilupparsi di uno squilibrato rapporto con la natura e quindi al manifestarsi della cosiddetta crisi ecologica; un pregiudizio di cui essi hanno di volta in volta ricercato le radici nel mondo greco, nel cristianesimo o presso i fondamenti teorici della scienza e della tecnica moderne, e che comunque ritengono ancora permeare pesantemente il mondo contemporaneo.[6]

       Intendendo per antropocentrismo la concezione standard secondo la quale la natura esiste separatamente dall’uomo ed ha valore non di per sé (valore intrinseco), ma solo in quanto è in grado di soddisfare qualche suo interesse o bisogno (valore strumentale), e per non-antropocentrismo la concezione secondo cui l’uomo è solo una parte della natura e quest’ultima ha valore intrinseco, ossia ha valore indipendentemente dall’utilità che l’uomo è in grado di ricavarne, è possibile allora tracciare il seguente breve schema orientativo, ma non esaustivo, delle principali posizioni in etica ambientale:[7]

 

 

 

 

2. L’antropocentrismo forte

 

       Nell’ambito delle etiche ambientali di tipo antropocentrico un primo approccio è caratterizzabile come “sciovinismo umano” (human chauvinism).[8] E’ una versione forte dell’antropocentrismo secondo cui la specie umana gode del primato assoluto su una natura moralmente indifferente, il cui unico valore è costituito da quello, economico, di soddisfare bisogni materiali umani. Questa posizione è anche detta “etica del cow-boy” (cowboy ethic) o “della frontiera” (frontier ethic),[9] poiché propugna uno sfruttamento illimitato delle risorse naturali poggiante sul “mito della sovrabbondanza”, cioè sulla fede nel carattere illimitato delle risorse, nella totale capacità della tecnica di porre rimedio agli squilibri ecologici, nella crescita economica come unico criterio di misura del benessere e del progresso. Non occorre sottolineare che la maggior parte dei filosofi ambientali rigetta questo tipo di atteggiamento etico, cui è attribuita la principale responsabilità della crisi ecologica.

 

 

3. L’antropocentrismo debole

 

       Accanto a questa versione estremistica esistono però altre due forme di antropocentrismo più moderate o deboli. La prima posizione, definibile come “conservazionismo” (conservazione in quanto protezione per), consiste nell’abbandonare il mito della sovrabbondanza, nel riconoscere che vi sono dei limiti alla spogliazione delle risorse naturali ed alla crescita materiale e, quindi, nel sostenere una razionalizzarne dello sfruttamento, l’ottenimento di un “massimo rendimento sostenibile”, al fine di non danneggiare gli interessi nostri e delle generazioni future. La seconda posizione, definibile come “preservazionismo” (preservazione in quanto difesa da), è invece “il tentativo di mantenere nel loro stato attuale quelle aree della superficie terrestre che ancora non portano i segni evidenti del lavoro umano e di proteggere dall’estinzione le specie viventi che l’uomo non ha ancora distrutto”[10] poiché esse ci consentono di soddisfare una serie di interessi di benessere; ad esempio:

 

1.    sono essenziali al nostro benessere fisico,

2.    ci avvertono del deterioramento del nostro ecosistema,

3.    sono rilevanti per gli studi scientifici,

4.    sono una riserva di informazioni genetiche utili,

5.    sono importanti per la ricreazione fisica,

6.    sono fonti di piacere e di ispirazione estetici,

7.    sono fonte di ispirazione spirituale,

8.    hanno un valore simbolico o educativo,

9.    producono benessere psicologico.

 

       Su versante delle etiche ambientali di tipo non-antropocentrico possiamo invece distinguere tre principali loro versioni, a seconda del grado di estensione della sfera naturale cui si attribuisce valore intrinseco.

 

 

4. Il sensiocentrismo

 

       Una prima e più nota versione è quella definibile come “sensiocentrismo”, conosciuta anche come etica della “liberazione animale” (animal liberation) o dei “diritti animali” (animal rights), i cui massimi esponenti sono Peter Singer e Tom Regan.[11] I sostenitori di questa posizione rifiutano la validità dei criteri che solitamente sono portati a sostegno da coloro che attribuiscono valore intrinseco esclusivamente all’essere umano: ad esempio il suo privilegiato rapporto con la divinità, il possesso di un’anima, della razionalità, dell’autocoscienza, del libero arbitrio, la capacità di comunicare simbolicamente, di stabilire rapporti implicanti obblighi e doveri reciproci, di anticipare e rappresentare simbolicamente il futuro e quindi di avere consapevolezza della propria mortalità, ecc. Rifacendosi a Jeremy Bentham (1748-1832), padre del moderno utilitarismo, essi affermano che se questi criteri fossero accettati molti appartenenti alla specie umana sarebbero esclusi dal dominio della considerazione morale: ad esempio i neonati, le persone temporaneamente o irreversibilmente in coma, i pazzi, gli imbecilli, alcuni anziani, ecc. Scrive Bentham: “un cavallo o un cane adulti sono senza confronto animali più razionali e socievoli di un bambino di un giorno, di una settimana o di un mese. Supponiamo che così non fosse; che cosa conterebbe? La domanda da porsi non è se sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire”.[12] Se un essere è senziente, affermano i sostenitori di questa posizione, vuol dire che ha degli interessi, ossia che ricerca stati di benessere e fugge stati di malessere. Ne consegue che il criterio di demarcazione fra ciò che ha valore intrinseco e ciò che non lo ha dovrà essere la sensibilità, cioè la capacità di percepire piacere e dolore.

       L’approccio sensiocentrico presta però il fianco a tutta una serie di obbiezioni relative alle sue conseguenze pratiche. Ad esempio, esso non è in grado di attribuire valore intriseco a ciò che ha vita ma non è senziente (come le piante), per cui un pianeta abitato da una lussureggiante vegetazione, ma privo di vita senziente, sarebbe considerato alla stregua di un asteroide. Non è in grado di attribuire valore intrinseco agli ecosistemi, riservandolo solo ai suoi membri senzienti. Non è in grado di attribuire valore intrinseco alla diversità biologica degli esseri senzienti, per cui un mondo popolato da un miliardo di creature senzienti della medesima specie sarebbe considerato alla stessa stregua di un mondo popolato da un miliardo di differenti specie di creature senzienti. Come corollario, esso attribuirebbe agli ultimi rappresentanti di una specie senziente in via di estinzione un valore intrinseco pari a quello di un eguale numero di esemplari di una specie senziente diffusissima. Inoltre, non è in grado di distinguere fra il valore intrinseco delle specie animali autoctone e quelle introdotte, o fra quello degli animali selvatici e quelli addomesticati. Infine, i sostenitori di questo particolare approccio all’etica ambientale dovrebbero cercare di porre fine a qualsiasi tipo di comportamento predatorio fra esseri senzienti: non solamente quello degli uomini nei riguardi degli animali, ma anche quello degli animali fra loro![13]

 

 

 

 

 

5. Il biocentrismo

 

       Il secondo principale tipo di criterio non-antropocentrico di valore intrinseco è rappresentato dal “biocentrismo”. Se il sensiocentrismo ha come autorevole padre fondatore Bentham, il biocentrismo trova un eminente precursore in Albert Schweitzer (1875-1965) e nella sua etica della “riverenza per la vita”,[14] anche se importanti varianti di questa posizione sono state espresse nella letteratura ecofilosofica contemporanea da Kenneth Goodpaster e Paul W. Taylor.[15]

       Secondo il biocentrismo il possesso di interessi di benessere non è limitato ai soli esseri senzienti, ma si estende a tutti gli esseri viventi. In particolare, questi hanno come comune interesse preminente quello di mantenere la propria integrità vitale. “Di fronte alla loro evidente tendenza a conservarsi e rimarginarsi — afferma Goodpaster —, è molto difficile respingere l’idea di interesse da parte di alberi (e piante in generale) a rimanere vivi”.[16] Se dunque gli interessi meritano di per sé considerazione morale, il sostenere che un’entità debba anche essere cosciente dei propri interessi diventa una clausola supplementare ingiustificata.

       Anche il biocentrismo, però, non è privo di punti deboli. Innanzitutto, dire che degli esseri viventi hanno un interesse di qualche tipo a conservare la propria esistenza equivale a sostenere che essi “desiderino”, “aspirino” o “mirino” a conservare la propria esistenza, ossia che abbiano una intenzione. Non è perciò del tutto chiaro come un tale linguaggio psicologico, che sottintende fini e ragioni, possa riferirsi anche ad entità non senzienti la cui attività è spiegabile, piuttosto, sulla base puramente fisica di forze e cause.[17]

       Inoltre, il biocentrismo soffre sul piano delle sue conseguenze pratiche di pressoché tutti i tipi di problemi che abbiamo visto appartenere al sensiocentrismo, con l’importante aggiunta che il sostenitore coerente di questa posizione etica dovrebbe astenersi dal sopprimere qualsiasi tipo di vita, anche qualora tale soppressione fosse indispensabile al proprio sostentamento. Ciò deriva dal fatto che sia il sensiocentrismo che il biocentrismo, seppure non-antropocentrici, sono purtuttavia degli approcci individualistici, poiché sostengono la visione convenzionale secondo cui gli esseri viventi sono costituiti da piante e animali individuali. Paul W. Taylor, il cui libro Respect for Life rappresenta fino ad oggi lo sviluppo più articolato del biocentrismo, insiste sul fatto che sono solo gli “organismi individuali (non i sopraorganismi o i quasi-organismi [come le specie, gli ecosistemi o l’ecosfera]) che [...] sono considerati organismi aventi un bene di per sé”,[18] ossia un valore intrinseco. Da questo punto di vista il biocentrismo è considerato un’ennesima manifestazione di “estensionismo morale” (moral extensionism), cioè di una mentalità che, pur ampliando la sfera della considerabilità morale, la limita pur sempre ad entità individuali.[19] I critici di questo atteggiamento gli rimproverano che lo sciovinismo umano non può essere superato semplicemente aumentando i generi di individui a cui si accorda considerazione morale, poiché ciò rientra ancora in una visione distorta della natura che ci induce a vederla come una aggregazione di atomi individuali contrapposti a una qualsivoglia totalità dinamica e integrata come un ecosistema e la stessa biosfera. A ben vedere, però, l’etica di tipo olistico, che esamineremo qui di seguito, non nega l’individualismo etico, ma semplicemente amplia e rende più complessa la nozione di individualità, di identità, su cui esso si fonda.

 

 

6. L’olismo

 

       La terza e più radicale forma di etica non-antropocentrica può essere definita come “olismo”, il cui padre fondatore è unanimemente riconosciuto in Aldo Leopold (1887-1948), con la sua “etica della terra” (land ethic),[20] ma i cui principali sviluppi nella filosofia ambientale contemporanea sono espressi da Holmes Rolston III, John Baird Calliocott, Lawrence E. Johnson, Klaus Michael Meyer-Abich e Laura Westra.[21] In un certo senso essa può essere considerata come una derivazione, un’espansione in senso non-individualistico, dell’etica biocentrica, poiché le sue formulazioni privilegiano ancora nell’attribuzione di considerabilità morale le entità dotate di vita, ma allargano il confine di ciò che abitualmente si intende per essere vivente anche a totalità organiche e superorganiche come le specie, gli ecosistemi, i processi biotici, la biosfera, i cui interessi di benessere non sono quindi più riconducibili solo a quelli degli organismi individuali che ne sono parte. A differenza però delle posizioni fin qui esaminate, la prospettiva olistica ritiene l’etica, la norma morale, già iscritta nelle cose stesse, un dato ontologico appartenente al vivente in quanto tale.[22] Da questo punto di vista non ha più senso parlare di “etica ambientale” come di un ramo specifico dell’etica, poiché etica e ambiente hanno un comune fondamento: la vita in quanto insieme di interessi di benessere. Piuttosto che ricercare una nuova etica, all’uomo non resterebbe dunque che comprendere meglio la natura della vita ed adeguarsi ai suoi equilibri omeostatici, ai suoi flussi energetici, ai suoi sistemi auto-organizzativi o autopoietici.

       L’etica olistica o ecosistemica di Leopold è sintetizzata dalla sua celebre frase: “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica, è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”.[23] In questa sua particolare formulazione, l’olismo privilegia decisamente il tutto sulle singole parti, la totalità dell’ecosistema sulle individualità, viventi o non viventi, che la compongono e per questo si è attirato l’accusa di “fascismo ambientalistico”[24] (accusa per la verità mossa fin troppo spesso, e con una leggerezza sconcertante, all’interno del dibattito ecofilosofico contemporaneo e di cui è stato oggetto persino il movimento ambientalistico nel suo insieme). Vi sono però anche formulazioni, come quella di Johnson, che superano questa contrapposizione, facendo propri gli ultimi risultati della biologia e attribuendo interessi di benessere a tutte le entità caratterizzate da “unità organica” (organic unity) ed “autoidentità” (self-identity), cioè da processi autoreferenziali e autocentrati regolati da schemi omeostatici di azione e reazione.[25] Anche questa posizione privilegia le totalità organiche maggiori su quelle minori, gli ecosistemi sui singoli organismi che ne fanno parte, ma solo nel caso in cui i rispettivi interessi di benessere vengano a collidere, stabilendo così una scala di grandezza fra valori intrinseci cui appellarsi nel corso dell’agire pratico. Inoltre Johnson rifiuta l’idea che si possa parlare di fini nei riguardi dei sistemi viventi ritenendola una manifestazione di antropocentrismo, o almeno di antropomorfismo, ed un errore anche quando riferito agli esseri umani. In realtà, se se i sistemi viventi si auto-regolano e auto-organizzano riuscendo così a sopravvivere non è perché questo sia un loro fine, ma è un risultato della selezione evolutiva.

 

 

7. L’etica ambientale cristiana

 

       Un cenno a parte meritano infine le etiche ambientali di ispirazione cristiana. A seconda infatti dell’interpretazione data alle scritture sacre, ed in particolare al passo di Genesi 1, 26-30, possono darsi varie posizioni in campo ecofilosofico.        Un’interpretazione letterale e rigida porta ad una forma estrema di etica ambientale antropocentrica in cui l’uomo ha l’assoluto dominio sulla natura, la totale libertà di disporne a proprio piacimento e vantaggio. E’ proprio questa versione dell’etica ambientale cristiana, prevalsa per svariati secoli, che lo storico Lynn White Jr., in un articolo del 1966 dal titolo The Historical Roots of Our Ecologic Crisis, accusò di essere la principale responsabile degli orientamenti e dei valori religiosi e filosofici antropocentrici dell’occidente e quindi della crisi ambientale che ne è conseguita. Secondo White il cristianesimo desacralizzò la natura, incoraggiò il suo sfruttamento e promosse una visione del mondo nella quale gli esseri umani erano superiori al resto della natura e suoi despoti.

 

Specialmente nella sua forma occidentale — scrive White —, il cristianesimo è la religione più antropocentrica che il mondo abbia mai visto. [...] Il cristianesimo, in assoluto contrasto con l’antico paganesimo e con le religioni dell’Asia (escluso forse lo Zoroastrismo) non solo stabilì un dualismo tra uomo e natura, ma insistette anche nel dire che è volere di Dio che l’uomo sfrutti la natura per i propri fini.[26]

 

       La scienza e la tecnologia moderne sono, secondo White, permeate dell’arroganza cristiana nei confronti della natura, ed anche il marxismo ed altre ideologie occidentali “post-cristiane” si rivelano come eresie del giudeo-cristianesimo ree di aver promosso il medesimo atteggiamento di sfruttamento nei confronti della natura.

       Il mondo teologico cristiano reagì vigorosamente a queste accuse, che ebbero molta influenza sul movimento ambientalista,[27] e assai presto fu messa in luce una interpretazione della dottrina biblica della creazione ben diversa da quella incriminata dallo storico americano. In questa differente versione dell’etica ecologica cristiana, Dio ha affidato all’uomo non tanto la proprietà, quanto la custodia della creazione, che questi ha perciò il compito, il preciso dovere, di proteggere, curare e perfezionare, in una parola di amministrare saggiamente, cosa di cui dovrà poi rendere conto al legittimo Proprietario. Da una parte, dunque, la natura ha un valore intrinseco, poiché opera e dono di Dio, cosa che ne rende impossibile un uso puramente strumentale, ma dall’altra esiste pur sempre una gerarchia fra gli esseri creati al cui vertice sta l’uomo. Ogni ente naturale è un fine in sé, ma esiste una gerarchia dei fini, e ciò giustifica un trattamento differenziato della natura rispetto all’uomo, fine supremo. Questo tipo di etica si pone perciò, almeno teoricamente, in una posizione intermedia rispetto alla distinzione fra antropocentrismo e non-antropocentrismo così come delineata finora.[28]

8. Ecologia profonda ed etica ambientale

 

            In questa breve panoramica dell’etica ambientale contemporanea si è volontariamente omesso di citare quella particolare prospettiva che va sotto il nome di “ecologia profonda” (deep ecology) e che pure secondo alcuni occupa al suo interno una posizione di primo piano. Il motivo è piuttosto semplice: l’ecologia profonda è un movimento filosofico-sociale più che una precisa posizione filosofica in ambito di etica ambientale, come credono in molti. Ciò significa che al suo interno raccoglie una serie di posizioni filosofiche (ecosofie), ispirate dalla scienza dell’ecologia e fermamente convinte della necessità di un profondo rinnovamento della nostra società, le quali possono essere anche molto diverse fra loro, avendo esse in comune solo la base teorico-programmatica fornita dagli otto punti costitutivi della piattaforma dell’ecologia profonda. In base a quest’ultima, tali posizioni devono comunque tutte accettare una teoria del valore intrinseco inteso come attribuzione alla natura di un valore non strumentale, cioè di un valore che prescinde dall’utilità che da essa possa ricavarne l’essere umano. In genere, dunque, tutte le prospettive filosofiche che rientrano nell’ambito dell’etica ambientale di tipo non-antropocentrico — siano esse sensiocentriche, biocentriche oppure olistiche — sono suscettibili di far parte del movimento dell’ecologia profonda, comprese quelle, ad esempio di matrice cristiana, che teorizzano in natura una gerarchia del valore intrinseco al cui vertice si pone l’uomo e che quindi, secondo alcuni, rientrerebbero nell’ambito di un pur moderato antropocentrismo etico.[29] Con ragione, dunque, Harold Glasser ha affermato che l’approccio dell’ecologia profonda all’ecofilosofia

 

è compatibile con una molteplicità di, talvolta dissonanti, norme ultime, incluse quelle ispirate dalla custodia cristiana, dall’ecofemminismo, dai miti della creazione, dagli interessi personali illuminati, dal buddhismo, dall’induismo, dall’ecologia scientifica, dall’integrità ecologica, dall’ecologia sociale, dal “rispetto per la natura”[30] di Taylor, dall’egualitarismo biosferico in via di principio, dall’“ipotesi della biofilia”[31] di Watson e dalla “realizzazione del Sé!” di Naess, solo per citarne alcune.[32]

 

Se invece vogliamo prendere in considerazione l’Ecosofia T di Naess, ed in genere tutte quelle ecosofie che a questa si ispirano e che sarebbe giusto definire “ecosofie dell’identificazione”,[33] allora la questione si fa un po’ più complessa.

            Da un lato è estremamente chiaro come Naess non sia interessato all’attuale dibattito sull’etica ambientale. Egli considera questo dibattito ancora troppo astratto, troppo sbilanciato verso la pura teoria e poco interessato alla pratica, a ciò che realmente si può fare subito e concretamente per combattere la crisi ambientale.

 

Oggi molti paesi, la Norvegia per esempio, stanziano milioni di dollari per l’etica ambientale, e io ho il sospetto che ciò costi molto meno che non fare qualche cosa di concreto. Sono contento che all’etica ambientale stia accadendo questo, ma vediamo che essa è dominata in prevalenza da accademici i quali in verità non si occupano di etica, ma di metaetica. Discutono di cosa sia un’etica e di che cosa si possa fare quando si aderisce a questo o quel tipo di etica. […] Per me questo è, in definitiva, un segno di passività, perché essi affermano, per esempio, che noi non possiamo far nulla ora prima di aver ottenuto un consenso. […] Sono rammaricato nel vedere che molti che si occupano di etica ambientale non siano quelli che definirei attivisti sul fronte; non sono attivisti, stanno solo discutendo di alcune cose. […] Io non partecipo a queste dispute.[34]

 

            Dall’altro, Naess afferma più volte di essere interessato non tanto all’etica, ma all’ontologia ambientale. Egli utilizza il termine “ontologia”, in modo alquanto improprio, come sinonimo di “dottrina riguardante il modo in cui le cose sono” (doctrine about the way things are)[35] e ribadisce che il suo intento è di condurre le persone non tanto a valutare, ma a vedere le cose in maniera differente. Tuttavia, egli anche si difende dalle accuse di chi, come l’ecofilosofo John Baird Callicott, pensa che l’ecologia profonda rifiuti completamente l’etica. Ora, lasciando per il momento da parte il fatto che Callicott, come molti altri del resto, confonde l’ecologia profonda con le ecosofie dell’identificazione, il suo giudizio sarebbe comunque infondato anche se rivolto solamente all’Ecosofia T. Naess non rifiuta l’etica tout court, ma afferma che l’etica come istituzione, come apparato di norme, come assiologia e precettistica, può avere sì un grande valore ed una grandissima utilità, ma sempre infinitamente inferiori a quelli di un’azione morale che sorga spontaneamente dalla comprensione della struttura intima della realtà, del “modo in cui le cose sono”, ossia, nel suo gergo, dell’ontologia. Giunti alla fine del percorso conoscitivo indicato da Naess, l’etica non è rigettata, ma portata alla sua massima perfezione, una perfezione tale per cui essa non ha più bisogno di norme e di imperativi per essere rispettata. L’etica normativa perciò non è respinta, ma diviene semplicemente superflua. Da questo punto di vista, come bene hanno intravisto Eric Reitan[36] e Sergio Bartolommei,[37] è del tutto corretto accostare la posizione etica dell’Ecosofia T di Naess, ed in genere delle ecosofie dell’identificazione ad essa ispirate, all’etica della virtù di stampo aristotelico, per la quale l’uomo virtuoso non sente il suo conformarsi alla virtù come un dovere, ma semmai come un piacere poiché

 

[…] non è buono chi non gioisca delle azioni virtuose; né alcuno chiamerebbe giusto un uomo che non goda di agire secondo giustizia […]. Se è così, le azioni secondo virtù debbon essere piacevoli di per se stesse.[38]

 

 

 

 

 

9. Le ambiguità di Naess

 

Non sarebbe corretto attribuire la responsabilità dei molti travisamenti cui è andato incontro nel corso degli anni il movimento dell’ecologia profonda solo alla limitata capacità di comprensione dei suoi vari interpreti. Se così fosse, non si spiegherebbe perché fra i travisatori si debbano menzionare anche molti dei suoi teorici principali. E’ giusto invece attribuire una parte importante della responsabilità innanzitutto allo stesso Arne Naess.

Fin dall’inizio, fin cioè da quando pubblicò nel 1973 l’articolo The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movements: A Summary, obiettivo di Naess era non tanto di esporre una propria prospettiva filosofica sulla crisi ecologica, quanto di elaborare una base teorica su cui potessero incontrarsi e concordare tutte quelle forze che credevano in un ambientalismo radicale, che non mirasse solo ad un blando riformismo, ad eliminare solo quegli epifenomeni del sistema economico capitalistico — come l’inquinamento nelle grandi città — che più turbavano le coscienze degli abitanti dei paesi sviluppati, ma ad un radicale riorientamento della nostra civiltà.

L’articolo del 1973 ebbe però esiti piuttosto deludenti, perché, a detta dello stesso Naess, era ancora troppo impregnato della sua personale visione del mondo e non poteva quindi costituire quella piattaforma programmatica, quel trat d’union fra i vari ambientalisti radicali che egli stava cercando. Insieme a George Sessions cercò quindi di stilare una serie di enunciati che, come egli afferma, fossero “sufficientemente generali e astratti” da poter essere accettati “da quasi tutti i sostenitori del movimento dell’ecologia profonda”. Per far ciò utilizzò le sue competenze nel campo della semantica applicata e ed in particolare la teoria sull’ambiguità e mancanza di precisione di cui dovrebbero godere le norme e le ipotesi principali di un sistema normativo.

 

Sussistono fondati motivi che consigliano di conservare una certa imprecisione o ambiguità nel delineare un sistema di norme. […] All’espressione inizialmente vaga e ambigua di una ipotesi o norma si può tentare di dare significati più precisi che sfociano in nuove formulazioni chiamate precisazioni. Il concetto di precisazione è fondamentale all’interno di una teoria empirica dei sistemi di comunicazione. […] La scelta di formulare le argomentazioni più elementari in modo ambiguo ed indefinito le rende più concise e facilmente interpretabili e lascia spazio ad una gamma di possibilità diverse di derivazione e interpretazione. Invece di insistere, in modo più o meno arbitrario, sul fatto che esiste un’unica interpretazione possibile per un certo enunciato, è opportuno, come avviene nelle scienze naturali, lasciare spazio a diverse opzioni, finché ciò presenta un vantaggio euristico. […] In conclusione, la comunicazione non va vista come un processo che intercorre fra due o più individui che condividono totalmente lo stesso linguaggio, ma fra individui ognuno dei quali elabora una propria personale interpretazione per arrivare alla propria precisazione. Quindi ogni sistema concepito per creare una sorta di piattaforma comune deve essere articolato a bassi livelli di precisione.[39]

 

            Ambiguità e mancanza di precisione dei principi che formano la piattaforma dell’ecologia profonda non erano dunque frutto di una carente elaborazione teorica, ma assolutamente volute al fine di rendere possibile una pluralità quanto più possibile vasta di interpretazioni e dunque di aderenti.

Accanto a questa ragione di tipo tecnico-metodologico, vi furono però anche altre motivazioni, in parte di carattere psicologico, in parte legate alla natura stessa degli argomenti trattati, che costrinsero Naess ad usare un linguaggio impreciso ed a volte oscuro.