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Il mito dell’Arcadia e l’affascinante bellezza della poesia bucolica

di Fabrizio Legger - 29/10/2009

 


So bene, che al giorno d’oggi, parlare ad una platea di poeti e di lettori di poesia intorno al tema della poesia arcadica e bucolica, può essere ritenuta una sorta di provocazione, di anacronistica eresia, di inutile apoteosi di un genere poetico arcaico ormai del tutto dimenticato e che sembra non essere assolutamente più in grado di toccare le corde dei cuori degli uomini di questa ipertecnologizzata epoca postmoderna. Eppure, anche se ho piena coscienza di andare controcorrente, io intendo spezzare una lancia in favore di questo antico genere di poesia, oggi così negletto, così trascurato, direi, addirittura, completamente obliato.
Ditemi infatti voi, dove, oggi, si parla ancora di poesia bucolica: forse in qualche sparuto seminario specialistico all’Università, oppure, in qualche simposio letterario organizzato da certe accademie culturali di gente blasonata e nostalgica che rimpiange l’educazione classica del Ventennio fascista e della riforma scolastica gentiliana.
Certamente, di poesia arcadica si parla assai poco, troppo poco, tanto che, ormai, la maggioranza dei fruitori di poesia non la conosce neanche più.
Provate infatti a chiedere a qualunque lettore di poesia di cultura media (cioè, non specialista della letteratura e dei suoi generi letterari) chi erano Teocrito, Longo Sofista, Jacopo Sannazaro o Gabriello Chiabrera, e vedrete strabuzzare i suoi occhi come se aveste pronunciato i nomi incomprensibili dei demòni di una spaventosa legione infernale.
La poesia bucolica, oggi, è infatti scomparsa del tutto dall’orizzonte della moderna poesia contemporanea. Aprite a caso qualsiasi volume di versi di qualsiasi poeta italiano del nostro tempo, e vedrete che non riuscirete a trovare neanche una sola poesia, neanche una sola strofa, neanche un solo distico dedicati a qualcuno degli argomenti che furono propri della poesia pastorale.
Ci troviamo di fronte ad un genere letterario che è stato completamente (e volutamente!) dimenticato e che sembra essere stato inghiottito senza pietà dalle fauci inesorabili del tempo.
Eppure, per secoli, la poesia bucolica ha avuto il suo pubblico, i suoi autori e i suoi lettori. Con essa si cimentarono il fior fiore dei poeti greci, latini, italiani ed europei, tanto che a partire dall’epoca dell’Umanesimo vi fu un vero e proprio “rifiorire” di questo affascinante genere di poesia.
Ma perché oggi la poesia pastorale non stimola più l’estro dei poeti e non è più richiesta dal popolo dei lettori di poesia?
Non si tratta di una domanda retorica. È una domanda, al contrario, che è necessario porsi se, come avviene per il sottoscritto, si ama veramente questo particolare genere di poesia.
Nella nostra tradizione letteraria, quello della poesia pastorale è stato un genere frequentato da molti sommi poeti: iniziò il Boccaccio, con il suo Ninfale d’Ameto e col Ninfale Fiesolano, proseguì il Poliziano con la Fabula d’Orfeo, poi Jacopo Sannazaro con il suo celebre romanzo intitolato Arcadia, e quindi Torquato Tasso con la favola boschereccia Aminta, Battista Guarini con Il Pastor Fido, Gian Battista Marino con gl’idilli pastorali de La Sampogna, Gabriello Chiabrera con la favola Gelopea e le tragedie d’ambiente pastorale Erminia e Alcippo, Guidubaldo Bonarelli con la Filli di Sciro, Alessandro Guidi con il suo Endimione, Pier Jacopo Martello con il poema bucolico Gli occhi di Amarilli, la favola pastorale La ninfa costante e la favola boschereccia Arianna, solo per citarne alcuni tra i più famosi.
Eppure, di tutta questa tradizione, di tutta questa produzione, di tutti questi illustri nomi, ben poco è rimasto nella memoria – non dico dell’uomo della strada – ma dell’appassionato lettore di poesia.
Tutto questo, sinceramente, mi amareggia non poco, perché la poesia arcadico-boschereccia racchiude in sé pregi e bellezze davvero sublimi, affascinanti, fantasiosi che, mi sembra strano, oggigiorno non riescono più ad affascinare le menti dei sempre più smaliziati e sofistici lettori di poesia.
Ovviamente, dopo la dissacrazione della poesia compiuta da pur grandi poeti di questo secolo, come Apollinaire, Ginsberg, Kerouac, Pound,  Bukowski o, per citare almeno un paio di illustri poeti italiani, Ungaretti e Pasolini, risulta davvero difficile potersi dedicare ancora alla poesia bucolica, ma il mito dell’Arcadia è eterno ed immortale, perché è quello di una terra mitica, di un luogo dell’anima, della fantasia e dello spirito, che vive imperituro nel cuore dell’essere umano e che ha il potere strabiliante di far evocare alla nostra immaginazione (e, in particolare, di coloro che possiedono una cultura di tipo classico) un mondo mitico in cui l’uomo vive in perfetta armonia con la Natura, immerso in una vita silvestre, boschereccia e campestre che è fonte di serenità, diletto e profonda quiete dell’anima…
Il paradosso sta nel fatto che la maggior parte dei poeti odierni è alla ricerca costante di una poesia che consenta loro di fuggire dal grigiore e dalla monotonia della caotica e logorante esistenza quotidiana e che, al contempo, offra un rifugio idilliaco ove potersi riparare nei momenti in cui la vita nevrotica di questa folle epoca postmoderna ci presenta il suo volto peggiore e più devastante.
Ebbene, la poesia arcadica e bucolica è quella che, più di ogni altra, fornisce al poeta e al lettore desiderosi di evasioni fantastiche, questa stupenda opportunità.
Il mondo idilliaco e sognante dei pastori d’Arcadia, il mondo boschereccio, fluviale e montano delle ninfe e dei satiri, dei centauri, degli egipani, delle driadi, delle oreadi e dei sileni, rappresenta, nell’ambito dell’immaginario, un sicuro rifugio per chiunque voglia sottrarsi, almeno mentalmente e spiritualmente, al caotico e logorante mondo postmoderno di quest’epoca globalizzata.
Addentrarsi, con la poesia, nelle idilliache selve d’Arcadia, è come varcare la soglia di un eden perduto, di un paradiso poetico di ineffabile bellezza che conserva intatto nei millenni il suo deliziante splendore.
Questo, perché quello dell’Arcadia è un mito eterno, intramontabile, reso tale dalla suprema maestria dei poeti e dei narratori che, nel corso dei secoli, seppero travasare in esso la linfa inesauribile della loro vivace ispirazione.
Il siracusano Teocrito e il mantovano Virgilio furono i due poeti che, forse meglio di ogni altro, seppero infondere nuovo vigore (l’uno in lingua greca e l’altro in lingua latina) alla poesia bucolica, canonizzandola in un genere letterario che, da allora in poi, per molti secoli, godette di una fortuna che non conobbe tramonti.
La poesia bucolica di Teocrito, che ha il suo apice nei celebri Idilli, è intrisa di sicilianità. La sua Arcadia è in Sicilia, nelle fertili piane ai piedi dell’Etna, lungo le sponde palustri del Simeto, all’ombra dei boschi che ricoprono i Monti Iblei o lungo le spiagge pietrose su cui s’infrange il mare Ionio all’ombra di Capo Murro.
I protagonisti dei suoi Idilli sono pastori come Coridone, Batto e Tirsi, mietitori come Milone e Buceo, pescatori come Diofanto e Asfalione, ciclopi come il celebre Polifemo, sensuali ninfe dai nomi seducenti di Galatea e Amarillide, divinità agresti come Pan, Artemide, Fauno, Priapo e Silvano.
L’atmosfera pastorale, gli scenari agresti e i paesaggi siculi in cui sono ambientate le poesie di Teocrito sono, per l’appunto “idilliaci”: vi si respira un senso di quiete profonda, di intima comunione con la Natura, di sensualità sfrenata, di gioiosa libertà della passione amorosa, di armonia e di bellezza capaci d’infondere, nell’anima del lettore, un senso di edenica serenità, come ben si evince dal primo dei suoi Idilli, intitolato Tirsi o La Canzone:

                           Non si può, pastore, non si può suonare  
                           a mezzogiorno. Io temo Pan: perché questa è l’ora
                           in cui stanco della caccia si riposa. È collerico,
                           e l’aspra bile è sempre pronta per montargli al naso.
                           Ma tu, Tirsi, i dolori di Dafni sai cantare
                           e nella musa bucolica sei grande.
                           Dunque sediamo sotto quest’olmo, davanti
                           a Priapo e alle Ninfe delle fonti: ci sono le querce
                           e la panca dei pastori. E se tu canti
                           come quel giorno che hai fatto a gara
                           con il libico Cromi, io ti darò, da mungere tre volte,
                           una capra, madre di due capretti, che pure avendo i piccoli
                           riempie di latte ben due secchi.   
   
E, d’altronde, è proprio questo uno degli scopi principali della poesia bucolica: infondere serenità e armonia attraverso l’evasione in un mondo di idillio e di bellezze naturali, dove la libera gioia dei sensi può espandersi scevra da vincoli e legami in obbedienza ad un unico allettante imperativo: il famoso “S’ei piace, ei lice” di tassiana memoria.
E la stessa atmosfera di idillio e di armonia si ritrova nelle Bucoliche di Virgilio, opera in versi costituita da dieci egloghe interamente dedicate al mondo pastorale. Anche qui, i personaggi sono pastori (con nomi simili a quelli usati da Teocrito) come Mopso, Aminta, Melibeo, Tirsi, Dafni, Damone, e ninfe dai nomi seducenti: Aretusa, Licori, Cidippe, Fillide.
Spesso, in queste egloghe (d’ambiente per lo più italico, con riferimenti al territorio boschereccio e fluviale mantovano, a quello umbro, a quello laziale e a quello siciliano), il poeta di Mantova lascia che i pastori, nei loro dialoghi, facciano riferimento ad eventi dell’epoca a lui contemporanea, come, per esempio, gli espropri di terreno avvenuti in seguito alle guerre civili che insanguinarono gli ultimi decenni della Roma repubblicana, oppure le delusioni amorose o le rievocazioni di viaggi lontani. Ma l’atmosfera resta sempre quella sognante delle selve, degli ambienti boscherecci e pastorali, abitati da pastori e ninfe che vivono in piena armonia con il creato che li circonda e con le divinità agresti che interagiscono continuamente nelle loro vite. Come appunto canta il pastore Coridone, nella Egloga settima:

                        Fonti muscose, erba più soffice del sonno,
                        e tu, verde arbuto che le copri di macchie d’ombra,
                        proteggete il mio gregge dall’arsura: già la torrida
                        estate si avvicina, già si gonfia il germoglio sul molle tralcio.                         

L’amore spontaneo e spensierato, sensuale e maliziosamente lascivo, non condizionato dalle regole e dalle convenienze della società urbana, l’esaltazione di una Natura rigogliosa e incontaminata, la convivenza con creature fantastiche quali ninfe, satiri e centauri (che altro non sono se non personificazioni mitologiche delle stesse forze naturali), la seduzione dell’incanto pastorale (inteso come vita semplice e genuina, scevra di ogni artificiosità e di ogni incombenza innaturale e superflua propria del vivere inurbato) e il fascino irresistibile dell’idillio erotico e di una sensualità totalmente libera da remore, schemi, pregiudizi e preconcetti che la soffocano e la inibiscono: ecco alcune delle principali tematiche proprie della poesia bucolica e della letteratura pastorale.
Una poesia altamente letteraria ma che, al contempo, tratta di tematiche semplici e sentite fortemente, soprattutto dagli abitanti delle città: una poesia, a tratti, anche convenzionale e di maniera, forse un po’ leziosa, che certo propone il ritratto di un mondo pastorale tutto fittizio, mitico, manieristico, e, soprattutto, inesistente nella realtà odierna, ma che pure, a tanti secoli di distanza, conserva intatto tutto il suo fascino poetico.
I tre esempi più eclatanti (ma se ne potrebbero citare anche altri) della longevità della poesia pastorale e della sua riscoperta in epoca moderna, sono dati, senza ombra di dubbio, dall’Arcadia di Jacopo Sannazaro, dall’Aminta di Torquato Tasso e da Il Pastor Fido di Battista Guarini, stampate per la prima volta rispettivamente nel 1504, nel 1581 e nel 1589. Si tratta di tre opere davvero basilari della poesia pastorale italiana, poesia che fu riportata in auge dal Boccaccio, nel corso del Trecento, e che poi fu sviluppata in maniera esemplare dal Sannazaro e dai successivi scrittori del Cinquecento, del Seicento e del Settecento.
L’Arcadia, del napoletano Jacopo Sannazaro (1457-1530), è un romanzo in cui, ai capitoli, si alternano lunghi componimenti in versi. Racconta la storia di Sincero, un giovane che fugge dalla natìa Napoli in seguito ad una delusione amorosa e che si rifugia nella mitica Arcadia, dove viene accolto dalle ninfe e dai pastori e dove vive con loro una vita idilliaca, immersa nella natura, in un’atmosfera di incanto e di idillio silvestre che riesce a fargli dimenticare le pene della sua rovinosa passione d’amore. La chiave di lettura di questo romanzo pastorale (unico nella storia della Letteratura italiana) si trova nel Prologo, nel quale Sannazaro dichiara di aver voluto scrivere un’allegoria della vita semplice dei pastori e del mondo agreste della natura (contrapposto al caotico mondo delle città) raccontando, per mezzo di “rozze egloghe” udite cantare “sotto le dilettevoli ombre… da’ pastori d’Arcadia”, le sue vicende biografiche e quelle della città di Napoli (sempre presente nei ricordi e nelle divagazioni esistenziali di Sincero).
La narrazione in prosa ha indubbiamente il pregio di essere scorrevole e avvincente, e la fortuna di questo romanzo del Sannazaro fu grande (tanto da influenzare la successiva produzione pastorale in prosa anche fuori dai confini italiani, basta citare i nomi di Lope de Vega, Philip Sidney, Pierre Ronsard, Garcilaso de la Vega e Jorge de Montemayor, tutti autorevoli autori europei di opere di carattere bucolico), ma, personalmente, ritengo che il capolavoro dei capolavori sia l’Aminta del Tasso, degna di stare a fianco di capolavori classici come gli Idilli teocritei e le Bucoliche virgiliane.
Non a torto, infatti, l’Aminta è stata definita il capolavoro di Torquato Tasso (1544-1595): sicuramente è lo scritto creativamente più felice composto dal poeta sorrentino, ma è anche, al tempo stesso, la “favola boschereccia” (come la definì il Tasso medesimo) che più di ogni altra opera della letteratura italiana ricrea con gioiosa armonia scene e motivi esemplari della letteratura pastorale, ragion per cui la si potrebbe definire il “capolavoro dei capolavori” della poesia bucolica italiana.
Il pastore Aminta e la ninfa cacciatrice Silvia sono i protagonisti dell’opera, un’opera di altissima poesia, dove l’elemento drammatico si congiunge con quello lirico-elegiaco, dando vita ad una sorta di vero “portento”, come la definì il Carducci.
All’interno delle selve lungo il Po, in una sorta di ideale Arcadia del cuore, si svolge la vicenda dell’innamorato Aminta, il quale, ardente d’amore per la bella Silvia, non riesce a conquistare il di lei cuore, nonostante la ninfa Dafne, compagna di caccia di Silvia, più grande di lei (e quindi più saggia) la consigli calorosamente di non lasciarsi sfuggire un tenero e appassionato amante quale è appunto Aminta.
Il personaggio del Satiro, irsuto amante non corrisposto della bella Silvia (che tenta di violentare la ninfa e che l’audace Aminta mette poi in fuga) riveste un ruolo fondamentale in quest’opra, a testimonianza del continuo rapporto tra gli esseri degli elementi e le creature umane che, nel contesto della poesia arcadica, vivono, come ho già detto, gli uni accanto agli altri, in una sorta di connubio inscindibile che vede le esistenze degli uni legate indissolubilmente alle esistenze degli altri.
Nell’Aminta, l’ispirazione poetica del Tasso appare fresca e gioiosa più che in qualunque altra sua opera, Gerusalemme Liberata compresa: e, con tutta probabilità, il grande successo che l’opera riscosse è da ricercare anche nel periodo emotivamente lieto e professionalmente felice  in cui fu scritta (nel 1573 il Tasso era lo stimato poeta di corte del duca Alfonso d’Este di Ferrara, godeva della protezione e dell’amicizia del suo signore e delle di lui sorelle, aveva un posto d’onore a tavola del duca e gli era stata affidata la privilegiata mansione di organizzare spettacoli teatrali per la corte estense, tanto che, in quegli stessi anni scrisse anche la tragedia Galealto re di Norvegia e la commedia Intrichi d’amore).
Infatti, gli endecasillabi e i settenari con cui è composta l’Aminta, sono ariosi, leggiadri, musicali e armoniosi oltre ogni dire: un’atmosfera di idillio e di magica armonia avvolge l’intera opera, un senso di fresca ispirazione e di pacata serenità sembra permeare tutti e cinque gli atti che la compongono, come ben rivela il celebre Coro con cui si conclude il primo atto:

                                        “O bella età de l’oro,
                                        non già perché di latte
                                        sen’ corse il fiume e stillò mele il bosco;
                                        non perché i frutti loro
                                        dier da l’aratro intatte
                                        le terre, e gli angui errar senz’ira o tosco;
                                        non perché nuvol fosco
                                        non spiegò allor suo velo,
                                        ma in primavera eterna,
                                        ch’ora s’accende e verna,
                                        rise di luce e di sereno il cielo;
                                        né portò peregrino
                                        o guerra o merce a gli altrui lidi il pino;

                                        ma sol perché quel vano
                                        nome senza soggetto,
                                        quello idolo d’errori, idol d’inganno,
                                        quel che dal volgo insano
                                        onor poscia fu detto,
                                        che di nostra natura ‘l feo tiranno,
                                        non mischiava il suo affanno
                                        fra le liete dolcezze
                                        de l’amoroso gregge;
                                        né fu sua dura legge
                                        nota a quell’alme in libertate avvezze,
                                        ma legge aurea e felice
                                        che natura scolpì: S’ei piace, ei lice.”
  
Insomma, un momento creativo così felice e un’opera così estrosamente ispirata, il povero Tasso (che per essere andato in escandescenze al cospetto del duca Alfonso venne rinchiuso per sette lunghi anni nell’ospedale dei pazzi di Sant’Anna) non li ritrovò mai più; e ancora oggi, a secoli di distanza da quando venne scritta, l’attento e appassionato lettore può ritrovare, in quei versi sostanzialmente perfetti, un’eco di quel felice periodo che fu forse il più bello della turbolenta e raminga esistenza cortigiana del poeta sorrentino.
Infine, eccoci a Il Pastor Fido, del ferrarese Battista Guarini (1538-1612), la terza celebre opera della Letteratura italiana in cui viene celebrata con pompa magna la felice esistenza agreste dei pastori arcadici.
A differenza dell’Aminta, dove il Tasso trasporta il mondo delle selve arcadiche lungo le rive del Po, il Guarini ambienta direttamente in Arcadia la sua favola, scrivendo testualmente che “La scena è in Arcadia”.
Protagonisti della vicenda sono il pastore Mirtillo e la ninfa Amarilli, ma, differenziandosi profondamente dal Tasso, il Guarini insiste sull’intrico dell’intreccio amoroso, in quanto la ninfa Corisca è innamorata non corrisposta di Mirtillo, il quale crede di essere figliolo di Carino ma, in realtà, è figlio del sacerdote Montano, il quale dovrebbe sacrificare agli dei la bella Amarilli, figlia di Titiro, di cui Mirtillo è perdutamente innamorato.
Lavorando abilmente su questo intricato intreccio da Commedia dell’Arte, il Guarini inventa una favola pastorale in cui, in uno scenario agreste di sogno e d’incanto, languido e bucolico come si conviene alla più pedissequa poesia arcadica, sviluppa una vicenda di amori e riconoscimenti paterni e filiali, toccando le tematiche del mancato sacrificio agli dei, degli oracoli che rivelano ciò che poi non accadrà in quanto si scopre che ci sono personaggi che non sono figli di chi si credeva che fossero, delle maldicenza disseminate ad arte dalla innamorata respinta che rischia così di far naufragare la storia d’amore tra gli amanti contrastati nel loro sentimento dai rispettivi genitori e, infine, del lieto matrimonio tra i protagonisti e del ravvedimento di chi aveva tentato in tutti i modi di impedire che una tale felice unione si verificasse.
Da un punto di vista meramente letterario, Il Pastor Fido è un’opera assai più complessa di quanto non lo sia l’Aminta tassiana, ma quest’ultima, come ho detto, possiede una freschezza d’ispirazione e una felicità creativa che la rendono gradevole nella lettura e piacevole nella recitazione, mentre la favola pastorale guariniana, a parer mio, risulta troppo lunga (almeno il doppio di quella tassiana), troppo complicata come intreccio, troppo appesantita dalla presenza di personaggi che, sostanzialmente, non sono indispensabili all’economia dell’opera.
In tutti e tre i casi, però, si tratta di opere che riescono a reinterpretare e a riattualizzare quelli che furono i temi propri dell’antica poesia pastorale, tanto che il celebre intellettuale e studioso di estetica tedesco, A. W. Schlegel, a proposito della favola pastorale guariniana scrisse: “Il Pastor Fido porta nella sua forma la nobile e semplice impronta dell’antichità”, evidenziando in tal modo come il poeta ferrarese fosse riuscito a ridare vita (come già aveva fatto il Tasso) ad un genere poetico che era tipico dell’età classica e alessandrina ma il cui fascino era stato capace di protrarsi attraverso i secoli.
Dunque, la poesia arcadica come poesia del sogno idilliaco e dell’immaginazione agreste e boschereccia, quasi come se, attraverso di essa, l’uomo intendesse celebrare e, al tempo stesso, rimpiangere nostalgicamente, quel beato e irrecuperabile stato di natura in cui, a dispetto di tutte le comodità e di tutti i privilegi della cosiddetta vita civile urbanizzata, egli era davvero felice e cosciente di vivere in piena armonia con le incantevoli bellezze che Madre Natura generosamente gli elargiva.
E questa sorta di nostalgia bucolica è fortemente impressa nel profondo dell’anima di ciascuno di noi. Quante volte, infatti, ci capita di sognare ad occhi aperti, magari di fronte ad uno spettacolo naturale di incredibile bellezza (un tramonto rosso fuoco in riva ad un lago, oppure un’alba vermiglia che si fa largo tra la nitidezza di uno splendido cielo color turchese, o, ancora, il soffuso mormorio di una verde selva che si piega docile sotto la fresca carezza del vento), sognando un mondo idilliaco e fantastico ove poterci rifugiare per sempre, lasciandoci alle spalle tutti i nostri affanni, tutti i nostri tormenti e tutti i fastidi delle nostre quotidiane incombenze pratiche?
Ebbene, quel mondo sublime è l’Arcadia, il mondo della poesia bucolica, quello delle ninfe e dei pastori in cui ogni essere umano può ritrovare, nel contatto diretto e totale con una Natura che si rivela quale madre amorosa, la dimensione che più gli è congeniale. Un mondo che il cosiddetto uomo civilizzato e inurbato sogna e vagheggia da millenni, e che è stato cantato e celebrato dai poeti e dagli scrittori di tutte le epoche.
Ho infatti ricordato Teocrito e Virgilio, Sannazaro, Tasso e Guarini, ma come non ricordare, tra i sommi bucolici dell’età alessandrina, anche Callimaco e Mosco, autori rispettivamente dell’Ecale e di Europa, oppure il celebre Longo Sofista, che scrisse il fortunato romanzo Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, e, tra i poeti italiani affascinati dalla poesia bucolica, il grande Gabriello Chiabrera.
Il savonese Gabriello Chiabrera, classicista e anti-marinista, autore estremamente prolifico che scrisse poemi epici, liriche mitologiche, poesie satiriche e melodrammi, si dedicò con grande passione anche alla poesia bucolica, dedicandosi ad essa sia come poeta lirico che come poeta drammatico.
Scrisse infatti la favola pastorale Gelopea (modellata sull’esempio dell’Aminta tassiana), la tragedia pastorale Alcippo (ispiratagli da Il Pastor Fido del Guarini), il poemetto Erminia (ispirato all’episodio della Gerusalemme Liberata di Erminia tra i pastori di Giudea), la favola melodrammatica Il pianto di Orfeo, la favola boschereccia Meganira, le Egloghe pastorali (modellate sull’esempio delle Bucoliche virgiliane), la favola marittima Galatea, la favola melodrammatica Polifemo geloso, la favola marittima Gli amori di Aci e Galatea, il poemetto Il rapimento di Proserpina.
Una produzione pastorale decisamente copiosa, quella del Chiabrera, favorita dal fatto che egli era poeta cortigiano (e quindi le favole drammatiche ch’egli scriveva poteva essere subito rappresentate a corte) e che, nel Seicento, il pubblico colto e aristocratico era particolarmente attratto dal teatro e dalla poesia di argomento bucolico, ragion per cui il Chiabrera si trovava a dover soddisfare la richiesta di sempre nuove opere.
Nelle sue opere poetiche di tema pastorale e boschereccio, il poeta savonese, con grande abilità nel variare di metro e di rima, mescola con una serie di intrecci di squisita ispirazione lirica l’esaltazione sensuale della bellezza femminile col destino e con la vaghezza di fiori bellissimi come rose, viole e gelsomini, ma destinati a scomparire ben presto dal gran teatro del mondo, dimostrando si saper creare delicatissimi paragoni con il mondo floreale e con i suoi significati simbolici, ma, al contempo, dando impeto e slancio proprio a un mondo di belle favole floreali dal nitido ed effimero orizzonte, e tuttavia estremamente vivaci nella loro gracilità, nel loro erompere scattante e gentile, nel loro offrirsi non come soluzione che possa essere proposta come chiave d’interpretazione del mondo della Natura (in contrapposizione alla artificiosa civiltà umana delle grandi città), ma piuttosto come immagini idilliache e fugaci dalla vita rapida, ridente, fragrante di erotismo e di poesia, nata da una penetrante ebbrezza dei sensi e della fantasia.
Un modo indubbiamente molto personale ed originale, quello del Chiabrera, di dare voce alla creatività della propria poesia pastorale, modo che si distacca alquanto da quello del Sannazaro e del Tasso, ma che, nei confronti di quest’ultimo, non ha nessuna possibilità di confrontarsi con la freschezza creativa e la gioiosa sensualità espressiva della favola tassiana, essendo l’Aminta, come ho già evidenziato, un qualcosa di davvero unico nel panorama della poesia pastorale italiana.
E, al contempo, occorre rilevare che, come spessore letterario e come qualità poetica dei testi, nessuna delle opere pastorali del Chiabrera riesce ad eguagliare non solo l’Aminta del Tasso, ma neppure Il Pastor Fido del Guarini, il che rivela anche la qualità della consistenza poetica che separa tra loro questi tre autori.
Se, dunque, furono così tanti e così importanti gli scrittori che, nel corso dei secoli, si dedicarono alla poesia bucolica e pastorale (tanto che, nel 1690, a Roma, venne addirittura fondata un’accademia letteraria battezzata L’Arcadia, la quale si estese con “colonie” in tutti gli antichi stati italiani e in tutte le principali città della penisola, caratterizzandosi per il fatto che i poeti e le poetesse che ne diventavano membri, oltre che a scrivere versi ispirati alla poesia pastorale, si ribattezzavano con nomi e cognomi di derivazione bucolica (Tirsi, Alfesibeo, Alfenore, Amarilli, Galatea, Euristeo, Doride, Aminta, ecc.), perché questo genere poetico non può rifiorire anche oggi? Perché i poeti odierni non vogliono più saperne di ispirarsi a questo genere di poesia davvero immortale, che ha valicato il confine impervio dei secoli, passando dall’era classica all’era moderna e riuscendo a produrre capolavori letterari che, come l’Aminta tassiana, divennero un modello per i poeti e i letterati dell’intera Europa?
Non posso credere (e mi rifiuto di farlo) che il fascino delle selve arcadiche e la bellezza estasiante delle ninfe e delle dee silvestri non riescano più a commuovere, intenerire e far sognare i cuori smaliziati dei poeti odierni.
Il mondo arcadico, quello meraviglioso e seducente cantato da Virgilio nelle sue Bucoliche, descritto da Longo Sofista nei suoi Amori pastorali di Dafni e Cloe, immortalato da Teocrito nei suoi favolosi Idilli, è ancora vivo, palpitante di poesia, fresco di sogni, profumato di visioni idilliache, e attraverso le opere immortali della tradizione letteraria e poetica ellenica, latina ed europea, continua a stimolare il cuore, la mente e l’immaginazione di chi è disposto a varcarne idealmente la soglia.
Per questi motivi, io esorto tutti i poeti italiani a non trascurare il preziosissimo patrimonio letterario lasciatoci dalla poesia bucolica ed auspico vivamente e appassionatamente che questa possa rinascere, rifiorire orgogliosamente e tornare agli sfarzosi fasti di un tempo ormai lontano, manifestando nuovamente al mondo tutto il suo affascinante ed incantevole splendore.