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Il vento del disgelo. Riflessioni per il passaggio di millennio

di Luisa Bonesio - 01/04/2006

Fonte: geofilosofia.it

 

 


 

“In me parla lo spirito occidentale, che è come dire, comunque, la disgregazione della vita e della natura, la loro disgregazione e ricomposizione secondo la legge umana, quel principio antropologico che separò le acque dal firmamento e i profeti dai folli”.
(G. Benn,
Osteria Wolf)

“Era tornata quell’ora, l’ora in cui qualcosa si ritraeva dalla terra, lo Spirito o gli dèi o ciò che era stato sostanza umana - non si trattava più della decadenza di un singolo uomo, nemmeno della decadenza di una razza, un continente oppure un ordine sociale, un sistema storico, stava accadendo invece qualcosa di assai più radicale: la mancanza di avvenire di un intero parto della creazione era diventata un sentimento collettivo, una mutazione [...], in breve: il Quaternario regrediva”.
(G. Benn,
Il tolemaico).

1. Un orizzonte sfondato

Di quello che Marcello Veneziani ha definito “il secolo nietzschiano”, non si potrebbe certo dire che il tratto fondamentale sia stato l’oltrepassamento del nichilismo: piuttosto il Novecento appare l’immane campo di battaglia del “più inquietante di tutti gli ospiti”, e il panorama delle rovine che hanno costellato l’inesorabile avanzata della forma epocale della volontà di potenza: la tecnica, che, insediatasi nel rango cultuale lasciato vacante dalla morte di Dio, ridefinisce gli orizzonti del mondo. Alla sua estremità finale, il “secolo breve” - o forse piuttosto il secolo interminabile - appare percorso dalle cyber-infatuazioni e da una ricerca assai rivelatrice di nuovi dèi. Nella sua pseudomorfosi con l’immateriale e lo “spirituale” (Jünger), la tecnica sembra celebrare il suo definitivo trionfo, la tendenziale sostituzione dell’imperfetto animale uomo con la perfettibilità esatta della mente-macchina e dei suoi prolungamenti virtuali. Il vecchio mondo, esaurito ed esplorato in ogni suo recesso, troppo ristretto per gli appetiti titanici della modernità, si vede indefinitamente moltiplicato nel cyberspazio, destinato a porre termine all’obsoleta credenza del dentro e del fuori, dell’interiorità e della materialità, di me e del prossimo, del vicino e del lontano. Finiti i tradizionali spazi antropologici della Terra, del Territorio, del Mercato, la tecnoscienza riapre il mondo alla costruzione e all’immaginazione da parte di un’intelligenza collettiva, del funzionamento di un unico organismo in cui l’intelligenza “retificata” appare nei termini di “una infrastruttura tecnica del cervello collettivo o dell’ipercorteccia delle comunità viventi” (1).

Definitivo trionfo della tecnoscienza, celebrazione della oggettivazione senza residui del mondo, dell’educazione illuministica al razionalismo, al controllo delle passioni, in un mondo dove irrazionalità, superstizioni e paure sono state sconfitte? Il secolo è costellato da autorevoli dubbi sulla riuscita emancipatoria della Ratio occidentale: da Spengler a Horkheimer e Adorno, da Valéry a Heidegger, da Guénon a Jünger e molti altri, la diagnosi è univoca. Non solo la tecnica moderna non ha liberato dal dolore, ma lo ha squadernato in sempre nuove e più crudeli possibilità; non ha attenuato la fatica e la presenza del lavoro, bensì lo ha dilatato a dimensione onnipervasiva e totalizzante della nostra vita da schiavi; non ha sconfitto malattie e sofferenze, bensì ne ha prodotte di nuove; non ha reso più sicura la vita sociale, più tranquillo il futuro, perché, anzi, l’insicurezza proviene proprio da ciò che dovrebbe sconfiggerla e “gli incidenti della tecnica” sono l’enorme tributo di vita che l’epoca paga al suo idolo. Insomma, “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”
(2), per dirla con il celebre incipit della Dialettica dell’Illuminismo; ma tutto ciò è reso possibile da un preliminare e radicale dis-orientamento che ha privato la modernità di un orizzonte e di una collocazione cosmica. La Terra sciolta dal suo sole vaga in un infinito nulla, in una notte sempre più notte, nella desolazione della sua “libertà” faustiana da ogni limite. Se Dio appare alla razionalità metodicamente assicurata “un’ipotesi troppo estrema” (3), nondimeno gli dèi o i loro simulacri sono ripullulati per ogni dove, l’“irrazionalità” abita stabilmente il cybermondo, e la “domanda” di sacro e di divinità più o meno improbabili dilaga nel planetario supermercato delle merci e delle immagini. La figura dell’apprendista stregone non è più solo quella dello scienziato che in nome del sapere produce catastrofi (“L’imagine del mago moderno: un quadro di interruttori con leve e segni, permettente all’operaio di produrre con la semplice pressione di un dito effetti possenti di cui pur ignora la natura, ci rappresenta il simbolo della tecnica umana in genere. L’imagine del mondo illuminato che si stende d’intorno quale ce la siamo formata criticamente e analiticamente come teoria, appunto come imagine, non è che un tale quadro di interruttori sul quale certe cose sono segnate in modo che ad un contatto certi effetti noti ne seguendo con certezza. Ma il mistero non è da ciò reso meno angoscioso” (4)), ma anche quella di un’umanità desolata intenta a crearsi pericolosi cocktails di sciamanismo e astrologia, neopaganesimo e stregoneria, millenarismi e fantarcheologia, ecofemminismi e ufologia, in una propiziazione della Nuova Era che oscilla tra il più bieco consumismo e il più disperato bisogno di sacralità e di prospettive non semplicemente umane, nella dissoluzione di un mondo che si è progettato disincantato e laico, illudendosi che la superstizione fosse definitivamente dietro di sé.

2. La paura sintomo del tempo

“La paura è uno dei sintomi del nostro tempo”, scriveva Ernst Jünger in Der Waldgang, attribuendo alla totalizzazione posta in atto dalla tecnica la responsabilità di avere reso abissalmente insicuro il mondo per l’uomo: “le città sempre più artificiali, le comunicazioni automatizzate, le guerre tra Stati e le guerre intestine, gli inferni delle macchine, il grigiore dei dispotismi, le prigioni e la più raffinata caccia alle streghe” (5) sono il panorama della mobilitazione totale, in cui la sicurezza della tecnica si divarica da quella del singolo: “Il processo si snoda tra due poli - di cui uno, quello della totalità, assume forme sempre più imperiose e avanza vincendo ogni resistenza. Troviamo qui il movimento compiuto, lo sfoggio regale, la sicurezza assoluta. Al polo opposto è il singolo, sofferente e inerme, in preda a un’insicurezza altrettanto assoluta. I due estremi si condizionano, giacché l’imponente esibizione del potere si regge sulla paura, e la coercizione ottiene i suoi risultati migliori dove la sensibilità è resa più acuta” (6). Il luogo del potere non è più nelle sedi tradizionali; è nelle mani di chi detiene la potenza della tecnica, unica fonte di autorità e di ricchezza. L’autorappresentazione della tecnica è nel segno di un’assoluta sicurezza, di quell’esattezza nella quale Heidegger individuava il raggiungimento da parte della volontà di potenza della “sicurezza estrema e incondizionata” (7), ma proprio quest’assolutismo della potenza tecnica, che decreta la fine di ogni verità, rinchiude l’uomo in un’oppressione tanto più forte quanto meno avvertita. Quando il singolo la sperimenta su di sé - per esempio nel dispotismo che l’organizzazione della medicina esercita su di lui - è normalmente impotente a contrastarla con efficacia. E’ stato, com’è noto, Heidegger a mostrare come proprio l’autoassicurazione della scienza circa l’esattezza dei propri procedimenti costituisca il massimo pericolo: “L’esattezza comanda sul vero e mette da parte la verità. Proprio la volontà dell’assicurazione incondizionata fa apparire l’insicurezza universale” (8). Non a caso, l’insicurezza della modernità viene battezzata da Jünger con il nome del transatlantico che, tecnologico, veloce ed elegante, si schianta contro il suo destinale iceberg: un particolare imprevisto, come molti che appartengono al mondo naturale, ma dotato di una sua fatale e stringente verità.

Ma - ci si potrebbe chiedere con Leszek Kolakowski - da dove viene l’immagine di un mondo “umiliato dalle proprie macchine? In virtù di quale rovesciamento il bosco coperto di neve e il ruscello montano ci appaiono d’improvviso come immagini ‘più umane’ rispetto all’immagine della fabbrica automatizzata?”
(9). Bisogna essere attenti a non confondere la protesta antitecnologica nata nella scia delle filosofie di Adorno, Horkheimer, Marcuse, in nome di una ‘liberazione’ della natura che sarebbe stata anche liberazione della pulsionalità umana, - e che, come afferma Veneziani, “non partorì nulla di antagonistico rispetto alla civiltà borghese, tecnocapitalista che contestava; anzi, per molti versi, diede nuovo impulso alla secolarizzazione e alla modernizzazione” (10) - con le analisi della tecnica di Jünger o di Heidegger, in cui non solo non rimane nessuna prospettiva soggettivistica e umanistica, ma è anzi proprio l’intreccio di natura e tecnica a rivelarsi la cosa più inquietante. L’insicurezza non deriva soltanto dal fatto che “la cultura tecnologica ci consente di impadronirci del mondo come di una preda, ma non elimina davvero la sua indifferenza” (11), bensì piuttosto dal fatto che il mondo rivela un predominante aspetto di pericolosità e precarietà non più dominabile dall’uomo. La realizzazione radicalmente antiumanistica del progetto moderno si salda così con il soggettivismo orgogliosamente emancipato da natura e divinità. E’ di fronte a questo abisso spalancato, al caos che finisce per incarnare l’ossessione razionalistica della pianificazione che la paura diventa la passione dominante del tempo, manifestazione spesso oscura e informe di un patire che è stato privato persino delle parole, dei simboli, di un orizzonte, ma nel quale probabilmente è custodito ancora un granello di saggezza, la protesta di fronte all’accecamento spacciato per trasparenza, informazione, libertà, partecipazione, o per l’appunto, con espressione che dovrebbe far tremare, realizzazione di un’intelligenza “collettiva”.

La paura che si esprime di fronte al mondo dell’artificializzazione senza residui è quella dell’annientamento, reso possibile proprio dall’automatismo tecnologico, non frenato da nessuna forza di contenimento: “l’automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, di cui anzi è lo stile precipuo [...]. Dove l’automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile”
(12). E’ il dominio dei nuovi titani che si sta delineando, dopo il tramonto del borghese e del suoi ideali di sicurezza, spazzato via dalla mobilitazione totale di ogni cellula del mondo ad opera della tecnica e del lavoro che la attua. Ma, con il tramonto della borghesia e l’avvento del tipo dell’Operaio, diventa obsoleto parlare ancora di individualità; piuttosto, ad essere minacciata è la stessa sostanza umana, in un incerto crepuscolo che avvicina vertiginosamente alla “mezzanotte della storia”, a quel fatidico “muro del tempo” la cui indeterminabile linea segna una trasmutazione metafisica della Terra e dell’uomo. “Il movimento si fa più preciso e, contemporaneamente, sempre ritornante, lo strepito diventa, allo stesso tempo, straziante e minaccioso. Le notti invocano un Hieronyms Bosch. Chi accede a questa dimora, è assalito dalla compassione. Ad essa corrisponde la speranza di poterne essere un giorno redento, di trattenervisi solo come ospite” (13).

Lo sguardo “pervaso dalla paura, da pesanti presentimenti” che cerca di scrutare l’a-venire, intravede la particolare natura dell’insicurezza contemporanea che sta alla base di ogni altra possibile manifestazione particolare: è l’incontro con l’arcaico, con una primordialità che storicismo ed evoluzionismo avevano creduto di potersi lasciare per sempre alle spalle, reso possibile dalla futuribilità tecnica, a sorprendere come un incubo. E’ “l’inaudita, prometeica audacia dei mezzi e dei metodi, il vulcanismo, il fuoco, il muoversi della serpe della Terra, l’apparire di mostri e l’impunità di cui beneficiano”, “il prevalere dell’elemento energia rispetto alla forma compenetrata di spirito”
(14), lo scenario elementare, tellurico, in cui la volontà di potenza incarnata nella tecnoscienza si scatena titanicamente, ossia, come aveva già riconosciuto Nietzsche, nel gigantesco, nello smisurato, nel senza misura dell’informità e della hybris di un mondo responsabile dell’uccisione di Dio. E a suscitare spavento è questo automatismo ctonio, analogo all’orrore che suscita il muoversi di un serpente, immagine di quell’indifferenziazione primordiale e proteica che, secondo Jünger, la tecnica sempre più da vicino persegue, dalle sue creazioni organiche alla manipolazione genetica, come se l’Urgrund cominciasse a muoversi, il velo di Maya a lacerarsi: “Esiste uno spavento suscitato non tanto da un accrescimento del movimento masssiccio quanto dall’affermarsi o dall’insinuarsi di qualcosa di diverso”, appunto come l’effetto di un sottile frusciare nel silenzio (15).

Tutto ciò accade ad opera di una ben precisa umanità storica, alla cui attività sembra non esserci freno o contraltare, nonostante le pie illusioni di un’etica che vorrebbe riformare il faustismo della modernità: infatti, come argomenta Umberto Galimberti, “se si può parlare di ‘responsabilità’ solo in presenza di una consapevolezza della propria azione e delle sue conseguenze, là dove il sapere individuale e collettivo è inadeguato all’ordine di grandezza della competenza tecnica che conferisce potere al nostro agire, difficilmente le parole pronunciate da un’‘etica della responsabilità’ possono [...] assumere un qualche significato nell’ambito del fare tecnico”
(16). E’ la percezione delle conseguenze incalcolabili della violazione continua dei limiti, degli equilibri complessi della natura, la superstizione del potere di una ragione identificata unidimensionalmente nella sola prestazione calcolante a suscitare la paura dell’annientamento. E se ogni mondo ha una sua fine, “ben triste è la concezione di una fine del mondo senza aspetti trascendentali, metafisici, senza la potente luce che da essa procede e che distrugge la paura” (17).

Il fuoco della combustione di questo mondo è stato dunque acceso dalla modernità, ossia da quella forma di ragione che rivendica, sia pure con mille ineffettuali sensi di colpa, orgogliosamente le proprie conquiste, ed “ammettere che la distruzione, nella forma di una fine del mondo, di una catastrofe cosmica, possa dipendere dall’uomo, dalle sue decisioni, è un fatto nuovo, anche se tutto dovesse ridursi a fantasia”
(18). Alla soglia del transito nel nuovo millennio, le paure apocalittiche si ridestano: magia intrinseca dei numeri, della loro portata simbolica? O non piuttosto il fatto che i numeri cifrano una svolta necessaria, ed è vitale comprendere in quale direzione fa segno la paura della fine? Tutti i grandi pensatori moderni, a partire da Nietzsche, hanno pensato la fine di un’epoca del mondo, ne hanno intravisto la chiusura al di là dello stordimento tecnolatrico: non ad altro pensava Nietzsche con la figura dell’oltreuomo, benché poi l’Übermensch si sia realizzato piuttosto come potenziamento titanico dell’ultimo uomo. E nessuno quanto Jünger ha scrutato il senso della paura moderna della catastrofe cosmica: “E’ un segno che noi siamo giunti in uno stadio nel quale ne va del destino della terra in quanto tale, per cui gli sviluppi in corso riguardano non solo ogni uomo che abita il nostro pianeta ma altresì l’intera natura animata e inanimata” (19).

Niente che vacilli come la terra sotto i piedi genera un analogo senso d’insicurezza: ma fosche immaginazioni apocalittiche e patetica volontà di rassicurazione scientifica concorrono a rafforzare la sensazione che davvero solo un Dio potrebbe ancora salvarci. Nemmeno nella vita del singolo, tuttavia, si può trovare riparo dalle mareggiate del dubbio e da una diffusa insicurezza che permea ogni istante dell’esistenza. L‘edonismo controfobicamente esasperato della società stenta a cosmetizzare una presenza dilagante della sofferenza, della sopraffazione, della violenza, della barbarie da cui nessun recinto dell’interiorità può tenere abbastanza lontano. Non solo la nostra vita partecipa o assiste in diretta a terremoti, uragani, guerre più o meno intelligenti o più o meno stupide, persecuzioni etniche che avvengono sempre meno ai confini dell’impero; non solo assistiamo al quotidiano sfarsi delle regole del vivere civile, all’imbarbarimento estetico ed ecologico dei luoghi, ma la singolarità di ciascuno si trova esposta a un radicale pericolo di cancellazione. Chi porta il peso del nostro benessere? Certo la Terra mondializzata, ma noi stessi in primo luogo: già nell’Operaio, Jünger aveva mostrato come sarebbe stata vana ogni difesa borghese nei confronti del dolore e dell’elementare. “Il tentativo di imbrigliare artificialmente le forze elementari potrà impedire bensì i contatti più ruvidi ed eliminare le ombre più crude, ma non certo la luce diffusa con cui il dolore penetra nello spazio e si prende la sua rivalsa”
(20).

I modi, le forme e la quantità in cui il dolore abita il nostro mondo sono stati enormemente ampliati dalla modernità, e in nome di un benessere mediocre vanamente si è cercato di respingerlo ai margini, di confinarlo in una zona d’ombra. Secondo l’inflessibile legge in base alla quale “più s’innalza l’argine artificiale che separa l’uomo dalle forze elementari, tanto più cresce la minaccia”
(21), le fabbriche della morte si espandono sempre più, senza però che alla crescita smisurata della sofferenza corrisponda più nessun senso spirituale o eroico, poiché l’umanità si è autoridotta a materia e materiale, a res extensa sulla quale la scienza esercita impunemente le sue manipolazioni: “Il segreto della moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo. Ne risulta allora che il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa” (22). L’uomo moderno ha dunque raggiunto lo statuto che ha assegnato alla natura: mera corporeità materiale, puro funzionamento fisiologico, soltanto con un po’ di psicologizzazione, altro sintomo dei tempi. Il riduzionismo con cui la Ratio moderna ha destituito la natura e il divino puntualmente e con effetti moltiplicati finisce per colpire l’umanità stessa che se ne è fatta promotrice: ancora una volta, la crescente oggettivazione della nostra vita ad opera della tecnica va di pari passo con l’aggressione del dolore, “tanto più in quanto il carattere di comfort della nostra tecnica tende a confondersi in modo crescente con un carattere strumentale di potenza pura” (23).

3. L’orrore abita tra noi

Come tramutare la paura nel raggiungimento di una nuova sicurezza? Nel mondo del nichilismo è impossibile, e proporre una pacificazione e un rinnovamento a portata di mano, in stile new age, è mistificante. Il Passaggio a una nuova era, che faccia verdeggiare un paesaggio di fucina e ricomponga l’infranto di quel perenne cantiere di distruzioni che è la superficie terrestre, in cui si consuma la discesa verso la fine dell’ultimo uomo, non è certo assimilabile alla cosmesi “spirituale” promossa dall’industria del New Age. È necessario, piuttosto, passare attraverso dubbio e dolore, le due “macine” - come le definisce Jünger - del nichilismo: una prova che non sarà risparmiata a nessuno, un’interrogazione fatidica alla quale non si può che rispondere in solitudine, proprio perché ci si trova nell’epoca delle masse, perché il consenso è ottenuto con le regole del marketing che dissimula il pensiero unico. Ma se la solitudine rappresenta l’inevadibile orizzonte delle scelte ontologiche, se la singolarità è quello spazio dell’anarca che va difeso dalla collettivizzazione della mente e delle emozioni, non è meno forte la ricerca di radici e di comunità in un mondo la cui regola costitutiva è l’omologazione delle differenze.

Il “bisogno di orizzonte”, che spesso è nostalgia di orizzonti precisi, e dunque di limiti, definibilità, identificabilità di spazi e stili, di un ethos che consenta quell’abitare sulla Terra di cui si è fatta “canzone da organetto” e nondimeno rimane questione ineludibile, si manifesta nei modi più diversi, dalla ricerca del sacro e di ritualità deluse dalle religioni istituzionali, al tentativo di riscoperta delle proprie radici nel pagus, nella venerazione dei genii loci, nella cura del proprio territorio, della sua memoria, della sua segnatura divina che è alla base delle rinascite neopagane, alla disperata volontà di tener fede alla propria natio nell’epoca mondializzante della fine degli stati nazionali, fino a tutte le derive di chiusura intollerante, di restaurazione nostalgica e di impossibili ritorni a una barbarica selvatichezza. Il bisogno di orizzonte rappresenta un contromovimento rispetto alla direzione faustiana della volontà di potenza dell’Occidente, una sorta di esaurimento dell’ondata che ha travolto, in nome della sua ansia di travalicamento di ogni limite, culture e nature, religioni e paesaggi, ed è connessa a una sfiducia nell’onnipotenza della tecnica e ad una progressiva perdita di persuasività della ragione della scienza.

Alla desolazione del razionalismo si risponde, almeno in tutto il mondo occidentale, con un’immersione a tempo pieno nell’irrazionalità, nella fantasia, con un vuoto di senso che si fa riempire da immagini, spesso non proprio rassicuranti, che riconferiscano intelligibilità, senso e colore a ciò che altrimenti è destinato ad apparire come l’insensatezza spaesante della vita umana sulla Terra. E’ l’aspettativa millenaristica della distruzione cui concorre tutto il sapere delle varie culture che la modernità ha reso disponibile per chiunque, dalle profezie maya e incas alle leggende sulla fine del mondo precedente, dalla precessione degli equinozi con i suoi effetti catastrofici all’attesa degli extraterrestri, dal pellegrinaggio sincretistico nei più disparati luoghi sacri del mondo alle medicine alternative, dal teosofismo ai fiori di Bach: è la domanda, destinata probabilmente a non trovare soddisfazione, di salute e di salvezza, che in quanto tale non esita a rivolgersi in tutte le direzioni, comprese quelle più inattendibili.

Domanda di salute fisica e spirituale tragicamente disattesa nella razionalizzazione moderna, e ricerca di simbolizzazioni, credenze, comunità di intenti e di convinzioni con le quali arginare il deserto del nichilismo, la protervia dei detentori della tecnica, la satanica fantasmagoricità del mondo virtuale, lo sfondamento della Rete che non sostiene ma assai sottilmente imprigiona nella sua stessa retorica di libertà: tutte manifestazioni di quel ritorno del sacro e del divino in forma rovesciata e parodistica, tutti preoccupanti scricchiolii prodotti dalla Grande Muraglia che si sta sgretolando, segnali della solidificazione totale che si capovolge in svanimento e inconsistenza, effimero divenirismo. Ed è anche la risposta, spesso inconsapevole, all’inaccettabile riduzione materialistica che ha imperato, come un dogma indiscutibile o come il segno di un’appartenenza all’ideologicamente corretto, nei paradigmi interpretativi della cultura e all’idoleggiamento della “logica dell’inconscio” che ne è stato l’inevitabile, ma solidale, corrispettivo.

Se indubbiamente in questi fenomeni si esprime la reazione a un ideale tradito di sicurezza - ma come sarebbe potuto essere sicuro, stabile, il mondo moderno che si è progettato nell’indefinità dell’innovazione, nella distruzione delle tradizioni e dei luoghi, nell’irrisione della casa e della Heimat, dell’essere e del divino, in un trascorrere diveniristico e progressistico? - vi si può leggere forse anche un confuso desiderio di fine, di azzeramento, di palingenesi, fino allo squadernamento dei cieli, alla cancellazione della vecchia Terra, al passaggio attraverso fuoco e acqua dell’umanità. Come se l’opera di incessante abrasione delle certezze promossa dalla modernità, il martellamento distruttore di idoli e metafisiche, di morali e religioni, l’abbattimento in nome della liberazione di tutti gli argini che ci separavano dal nulla, la derisione delle forme in nome del caos, alla fine avessero abituato l’ultimo uomo a gettare uno sguardo al di là della propria sopravvivenza biologica, a considerarsi infine fossile tra fossili, uno dei tanti facitori degli strati geologici, dunque passibile a sua volta di finire, specie tra le specie. Il quale, nel volgere lo sguardo all’indietro, in una sorta di ricapitolazione del passato a metà tra il museo e il supermercato, scorge il reiterato annuncio della propria fine: non come teorizzazione o diagnosi filosofica, da Nietzsche a Anders, ma come visione e reiterata cifratura mitologica di un destino in cui solo un’accorta attenzione ai segni della terra e del cielo può accordare una nuova vita, dopo l’inevitabile periodica distruzione e rigenerazione. Ma per questo occorre la capacità di vedere la Terra e la storia da una distanza telescopica, di collocarsi nel punto di quiete del movimento: quell’invisibile punto in cui immobilità e azione coincidono, o forse la trasmissione di una memoria che rischia di rimanere per sempre sepolta insieme con i detriti dell’ultima civiltà umana.

In questa confusa attesa della palingenesi si verificano trasformazioni della massima importanza ai fini del “passaggio”, sulle quali Jünger si è soffermato in particolare in Avvicinamenti. La percezione dell’ultima modernità è quella di un approssimarsi inevitabile ad un confine, una soglia fatidica di trasmutazione: è nello scorgere l’inevitabile passaggio che il nichilismo da rassegnazione e qualunquismo si trasforma in assecondamento e buona volontà del finirla. Si potrebbe dire che se il pensiero che pensa l’oltrepassamento è rimasto per lo più inascoltato, nella grande chiacchiera dei costruttivismi e nei progressismi di vario genere, alla fine del secolo irrompono, in tutti i loro foschi o palingenetici colori, l’ansia e l’immaginario del passaggio. Inutile dire che ad essi non si può rispondere con la censura, l’emendazione neoilluministica, la buona volontà dell’intendersi, la consolazione di qualche terapia. Se è consentito esprimersi in modo un poco provocatorio, l’unica terapia per l’irrazionalismo consiste nell’uscita dal paradigma della ragione moderna, e dunque anche dalle sue inversioni caricaturali. L’uomo moderno è una figura tragica, secondo Jünger, perché possiede il metodo, la sua assicurazione e l’esattezza, ma fallisce nella sostanza: “Ci avviciniamo infatti a strati in cui anche le premesse della formazione dei giudizi toccano il punto di fusione. Così succede per alto e basso, sopra e sotto, destra e sinistra, vecchio e nuovo. Ed anche le norme si mettono in movimento - buono e cattivo, giusto e ingiusto, bello e brutto nell’ambito ecclesiastico, giuridico, artistico [...]. La crosta del magma si assottiglia. Nietzsche lo già visto molto presto. ‘Là dove io oggi ancora cammino, presto non camminerà più nessuno’”
(24).

Già durante la seconda guerra mondiale Jünger ebbe netta la consapevolezza che l’epoca delle tempeste d’acciaio e della guerra di materiali si stava trasformando con grande rapidità in un’era di irradiazioni, nella quale il martello nietzschiano poteva essere deposto, perché ormai il crollo del vecchio edificio di riferimenti e certezze era avviato e schiere di demolitori erano già all’opera. Si schiudeva invece una fase in cui, prima dell’implosione definitiva, sarebbe stato necessario munirsi di nuovi strumenti per prepararsi al passaggio. “Ciò che qui continua a scricchiolare annuncia qualcosa di diverso, non annuncia soltanto abbattimenti. A noi sono riusciti i primi, incerti passi al di là della soglia dell’era delle radiazioni, un’era che richiede un equipaggiamento nuovo, anche nelle cose spirituali”
(25). E’ come se improvvisamente l’umanità si ridestasse da un lungo sonno e si scoprisse impegnata in un viaggio di cui non conosce in realtà la meta, né ha modi per orientarsi: “Se ora noi ci troviamo su un’orbita nuova o, detto altrimenti, subiamo un mutamento che non ha precedenti nella storia del nostro mondo e delle nostre civiltà, dobbiamo pensare che tale mutamento stia accadendo fuori della nostra coscienza [...]. Un Grande Passaggio si manifesta con l’arricchimento di forze che certo hanno continuato ad agire nell’arte e nella storia, senza tuttavia esservi apparse nella loro purezza. La radiazione cosmica si fa più intensa, la trama tellurica si stende salendo in profondità. Sono eventi che possono o non possono fare scalpore: probabilmente proprio le fasi decisive passano inosservate. Improvvisamente il serpente è nella casa. Forse ha vissuto lì da sempre” (26).

L’immagine del serpente in casa esprime con grande efficacia lo spavento che lacera l’apparente domesticità e sicurezza, rivelandola di colpo unheimlich. Forse, suggerisce Jünger, non ci eravamo mai accorti che Altro fosse qui, in mezzo a noi, pronto a ridestarsi a tempo debito o a muoversi provocato dalla nostra maldestrezza. Qualcosa di elementare, forse qualcosa di sacro, ma comunque qualcosa di minaccioso per noi che non ne sappiamo più niente, che da lungo tempo abbiamo disimparato a riconoscerne i cenni; qualcosa può da un momento all’altro fare irruzione in casa nostra, ma solo perché era già da sempre lì, era in realtà il più prossimo, così vicino a noi da sfuggire a tutti i nostri sistemi di protezione e di assicurazione. Se il “rettile Storia” (Benn) è forse uscito definitivamente di scena, un nuovo rettile si insinua al suo posto. Ma la sua estraneità potrebbe essere soltanto apparente, come è provato dalla paura fobica che suscita: “Solo il terrore diventa più grande quando potenze provenienti dai tempi più antichi o dagli spazi più remoti sopraggiungono presso di noi. Questo terrore è un indizio del riconoscimento, un segno che le abbiamo già conosciute una volta”
(27).

Anche un altro ambito in cui si manifesta la paura e il tentativo di abituarci ad essa, quello dell’immaginazione “giurassica” è altrettanto rivelatore: l’immagine dell’arcaico, un possibile ritorno del primordiale sembra minacciare l’algido cuore della modernità tecnologica. E’ il sembiante assunto nell’immaginario dalla primordialità a costituire il punto cieco dell’infuturamento moderno, la soglia enigmatica in cui tecnica e terra entrano in contatto e reciproca metamorfosi: “In questo senso, il serpente è un segno di confine - non certo l’unico. La sua comparsa risveglia una memoria ancestrale della vicinanza della trama in cui anche la differenza tra la vita e la morte, come tutte le differenze, scompare. Il velo si fa più sottile, incolore”
(28). Si può quindi comprendere come questo sia l’animale araldico del pensiero jüngeriano, anche per la sua duplice valenza di risanatore e donatore di morte, e perché anche Nietzsche lo avesse scelto come uno degli animali-emblemi di Zarathustra. Esso è connesso alla distruzione delle forme e alla riemersione dell’indifferenziato che si manifesta nell’“enorme e spietata” circolazione di energia propria dell’epoca titanica, nell’affiorare di ciò che Jünger chiama “la pura vena dell’accadere” (29). Ma si tratta appunto di dimensioni che la scienza non è costitutivamente in grado di cogliere, e forse spesso nemmeno le religioni ufficiali, motivo per cui Jünger ripetutamente, a partire dalla seconda guerra mondiale, invocherà una Nuova Teologia, all’altezza della qualità escatologica dei tempi.

4. Epilogo

Verso la conclusione del romanzo Eumeswil, lo storico Vigo, ricapitolando la logica delle vicende che hanno portato la Terra alla catastrofe atomica, evidenzia un antagonismo tra le posizioni degli “economisti” e degli “ecologi” di allora: gli uni interpretavano la realtà per mezzo di categorie storico-mondiali, mentre gli altri avevano raggiunto una visione storico-terrestre. Accadde così che “affiorarono conflitti tra mondo umano e mondo naturale, cui si aggiunse l’atmosfera apocalittica che suole ripetersi ad ogni svolta di millennio. [...] Anche la concentrazione del potere è propria delle età ultime. In tal caso, è necessariamente di natura tecnica [...] Si potrebbe affermare che da un lato si armarono i biologi, dall’altro i fisici. Gli uni premevano contro la griglia organica, gli altri contro la griglia materiale: qui sui geni, là sull’atomo. Il che li ha portati non solo al di sotto delle fondamenta storiche, ma anche delle fondamenta umane - qui alla foresta, là agli inferi” (30). Questo brano è una sinteticissima ed efficace istantanea della nostra epoca, diviso tra logica del mondo che vuole assoggettare la terra e il limite irriconosciuto che rischia di levarsi d’improvviso come un muro contro cui schiantarsi. Nel prosieguo della sua esposizione, Vigo aggiunge: “Di tutto si dubitava, ma non della scienza […] Le è riuscito ciò che era riservato ai Grandi Titani, che hanno preceduto gli dèi, che li hanno anzi creati. Per prender coscienza di tali mete, ad essa stessa celate, è stata costretta a giungere ad una frontiera ove la morte e la vita offrono una risposta nuova” (31).

Il pericolo, come ha più volte sottolineato Heidegger, sta nell’integrale assunzione da parte della tecnica dell’assenza di scopi della volontà di potenza, in quell’erramento che proviene nell’assicurarsi di sé da parte delle scienza a partire dall’abbandono dell’essere, nella produzione di un non-mondo in cui l’usura di tutto, uomo compreso, produce solo la derealizzazione del deserto. Morte e vita esigono una risposta nuova, ma essa non sembra profilarsi da nessuna parte: non nella ragione tecnoscientifica, non in una teologia sempre più debole e secolarizzata, non nella potenza mitopoietica dell’immaginazione artistica, che nel nostro secolo ha dato di sé prove sinistre di realizzazione, non nella politica, affare di amministratori e tecnocrati, e nemmeno più nella volontà di resistenza ideale. Non può dunque stupire che in questa situazione si produca una massiccia mobilitazione di miti e simboli, invano repressi dai lumi del disincanto, oppure una patetica rincorsa alla “sicurezza”, in cui lo scheggiarsi di questo termine in mille disparati contesti mostra eloquentemente quanto esso in realtà sia una parola apotropaica, una sorta di debole rassicurazione tecnica al cospetto di una radicale, ontologica insicurezza del nostro mondo.

Così la parola d’ordine della “sicurezza”, ogni istante smentita dagli “incidenti” e dalle vittime sacrificali al Moloch tecnico, funziona in modo analogo a tutte le rappresentazioni che si illudono di arginare il male del mondo, di cosmetizzare la sua devastazione, di trovare una ragione estetica nell’orrore e nella bruttezza, di ritagliarsi un’isola felice nel mezzo di un oceano di turpitudini. Come ci si può armare per ottenere sicurezza e sconfiggere la paura che ormai sta diventando l’unica passione politica del nichilismo? Lo dice Jünger, ultimo eroe dei tempi moderni, di fronte a una minaccia che non coinvolge più singoli stati o singoli individui, ma natura e umanità insieme, in un rabbrividire che è quello della Terra che vuole “mutare pelle”, in una progressione di distruzioni e catastrofi vanamente minimizzate dalla scienza: cercando ognuno dentro di sé le radici di una Ragione più profonda. “Soltanto in apparenza - scrive Jünger - tutto ciò è disperso in tempi lontani e in luoghi remoti. In realtà ogni uomo lo alberga in sé, a ciascuno è trasmesso in forma cifrata per permettergli di comprendere se stesso nella sua forma più profonda, sovraindividuale”
(32). Un’affermazione analoga e altrettanto perspicua la si trova in Eliade, con il quale nel dopoguerra Jünger diresse la rivista “Antaios”: “I simboli mantengono ancora il contatto con le fonti più profonde della vita [...]. Il simbolo religioso traduce una situazione umana in termini cosmologici e reciprocamente; più precisamente, esso rivela la corrispondenza tra le strutture dell’esistenza umana e le strutture cosmiche. L’uomo non si sente ‘isolato’ nel Cosmo; egli è ‘aperto’ a un mondo che, grazie al simbolo, gli diviene ‘familiare’. [...] Ne consegue che colui che comprende un simbolo, non solamente si ‘apre’ al mondo soggettivo, ma allo stesso tempo riesce ad uscire dalla propria situazione particolare e ad accedere a una comprensione dell’universale(33). Ed è appunto una comprensione non chiusa in una prospettiva di antropocentrismo prometeico a mancare all’umanità contemporanea: la radice della sua derelizione sta nel suo essersi scardinata dal tutto, proiettando attorno a sé il deserto che albergava nel fondo sterile della sua volontà di potenza. Ma se il tutto ci è precluso epocalmente, nondimeno ad esso ci si può orientare, ritrovando almeno la direzione verso il centro: “Così anche la più insignificante creatura può entrare in rapporto con il tutto e non appartenere soltanto a una parte del meccanismo. Di qui fluisce enorme vantaggio e anche sovranità [...]. Di conseguenza si può soltanto consigliare ad ognuno di procurarsi questo sostegno, in qualsiasi condizione si trovi” (34).

 

Note:

1. Cfr. P. Lévy, Il virtuale, tr. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Cortina, Milano 1997.
2. T.W. Adorno - M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. di L. Vinci, , Einaudi, Torino 1966, p. 11.
3. L’espressione è di F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1990, fr. 5 [71].
4 . O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, pp. 1386-87.
5. E. Jünger, Il trattato del ribelle, tr. it. di F. Bovoli, Adelphi, Milano 1990, p. 43.

6. Ivi, p. 44.
7. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 57.
8. Ibidem.
9. L. Kolakowski, Presenza del mito, tr. it. di P. Kobau, Il Mulino, Bologna 1992, p. 118.
10. M. Veneziani, L’antinovecento. Il sale di fine millennio, Leonardo, Milano 1996, p. 12.
11. L. Kolakowski, op. cit., p. 118.
12. E. Jünger, op. cit., pp. 46 e 47.
13. E. Jünger, La forbice, tr.it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, pp. 112-113.
14. E. Jünger, Al muro del tempo, tr. it. di C. D’Altavilla, Volpe, Roma 1965, p. 47.
15. Ivi, p. 184.
16. U. Galimberti, Psiche e techne. l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p. 462.
17. E. Jünger, Al muro del tempo, cit., p. 112.
18. Ivi, p. 115.
19. Ivi, p. 117. Si noti che già Spengler, in conclusione al Tramonto dell’Occidente, scriveva: “La natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto forma di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana” (O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. it. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, p. 1395), e anche: “E ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di tale potenza, che l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con un’anima diversa e con diverse passioni, avrà il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio” (ivi, p. 1391).
20. E. Jünger, Il dolore, in Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, pp. 149-150.
21. Ivi, p. 152.
22. Ivi, p. 153.
23. Ivi, p. 168.

24. E. Jünger, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, tr. it. di U. Ugazio e C. Sandrin, Multhipla, Milano 1982, p. 259.
25. Ivi, p. 266.
26. Ivi, pp. 268 e 275.
27. Ivi, p. 281.
28. Ivi, p. 291.
29. Ivi, p. 298
30. E. Jünger, Eumeswil, tr. it. di M.T. Mandalari, Rusconi, Milano 1981, p. 366.
31. Ivi, p. 367.
32. E. Jünger, Il trattato del ribelle, cit., p. 71.
33. M. Eliade, Mefistofele e l’androgine, tr. it. di E. Pinto, Edizioni Mediterranee, Roma 19892, pp. 194-5 (cap. V, “Osservazioni sul simbolismo religioso”).
34. E. Jünger, Irradiazioni. Diario 1941-1945, tr. it. di H. Furst, Guanda, Parma 1993, p. 451.