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La miseria del fisicalismo, ovvero la retrocessione volontaria della filosofia a scienza fisica

di Francesco Lamendola - 10/11/2009


Il fisicalismo è quella corrente di pensiero che, nato nel Circolo di Vienna sotto l'egida di Otto Neurath (Vienna, 1882 - Oxford, 1945), giunge a sposare in pieno le tesi dell'empirismo logico, secondo il quale non esiste un sapere filosofico costituito da tesi sue proprie, distinte e separate da quelle della scienza; e riduce l'attività filosofica ad una ricerca sulle strutture del sapere effettivo. Uno dei suoi massimi rappresentato è stato Willard Van Orman Quine (Akron, Ohio, 1908 - Boston, 2000).
Per Neurath sono scientificamente accettabili, nel senso di conoscitivamente significanti, solamente le asserzioni che si possono formulare in termini fusici, vale a dire in termini di coordinate spaziali e temporali.
Per Quine - che, sulle orme del naturalismo pragmatista di John Dewey, assume il punto di vista della moderna visione scientifica, o per meglio dire, scientista,  del mondo - non resistono entità di natura mentale o intensionale: il discorso scientifico non può fondarsi che su di una base esclusivamente fisicalista ed estensionalista, sfrondando dal campo del reale tutto ciò che non è riducibile a percezioni e verifiche di natura empirica.
Precisiamo qui, per chi non abbia familiarità con la teoria logica del significato delle espressioni linguistiche, che «l'intensione di un costrutto linguistico è il concetto che tale costrutto si propone di suscitare o di fatto suscita nel pensiero di chi legge o ascolta», mentre «l'estensione è il riferimento oggettuale esterno delle espressioni linguistiche […]; è il suo astratto corrispondere o non corrispondere ai fatti (il suo valore di verità)» (cit. da «Enciclopedia Garzanti di Filosofia»,m edizione 2003).
Non intendiamo, qui, svolgere una riflessione sull'intero pensiero di Quine, ma limitarci all'aspetto ora accennato, ossia alla sua duplice pretesa di ridurre la realtà a scienza, e la scienza a indagine sulla dimensione puramente fisica.
Gran parte dell'odierno atteggiamento di scienziati e filosofi parte, magari in maniera più sfumata ed implicita, da tali assunti; per cui prendere di petto il fisicalismo di Quine, e mostrarne tutta la fallacia e l'arroganza intellettuale, equivale a svolgere una critica della visione scientista oggi largamente dominante ed arbitrariamente presentata agli studenti, ai giovani e ai non addeti ai lavori, come la «verità» tout-court.
Nel suo libro «Dal punto di vista logico» (del 1953; seconda edizione riveduta, 1961), Quine pone il problema secolare dell'essere e non-essere, che risale agli antichi filosofi greci,  specialmente Parmenide ed Eraclito, per esaminarlo da un punto di vista strettamente e rigorosamente logico-formale (secondo la lezione di Wittgenstein).
Egli immagina di discutere con due filosofi, denominati McX e Wyman, sostenitori di tradizionali tesi metafisiche circa l'essere e l'esistenza, allo scopo di «fare piazza pulita di tutte le ambiguità del discorso metafisico mediante una rigorosa analisi dei significati linguistici» (Caslo Sini). Per meglio perseguire il suo intento, egli non esita (secondo la prassi inaugurata da Galilei con il «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo» a mettere in caricatura le tesi di questi due filosofi immaginari, fino al punto di indurli a confondere arbitrariamente il concetto di essere con quello di esistere. Non si tratta, quindi, di antitesi sollevate con intenzione seria, ma di denigrazione deliberata del pensiero diverso dal proprio, ossia quello metafisico.
Riportiamo la parte più significativa del dialogo immaginario di Quine con i suoi due interlocutori (da: W. V. O.. Quine, «Il problema del significato», a cura di E. Mistretta., Ubaldini, 1966, pp. 3-6; cit. in C. Sini, «I filosofi e le opere», Milano, Principato, 1979, vol. 3, pp. 505-08):

«Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può essere posto, in italiano, con sole tre parole: "Che cosa esiste?", cui si può rispondere, per di più, con una sola parola: "Tutto", risposta che sarebbe accettabile per chiunque, ma che tuttavia equivale solo e soltanto a dire che esiste tutto ciò che esiste. Rimane pur sempre la possibilità di essere in disaccordo in qualche caso particolare; e così la questione è rimasta in piedi nei secoli.
Immaginiamo ora che Mx ed io, entrambi filosofi, abbiamo diverse opinioni in materia di ontologia.  Supponiamo che McX sostenga che un certo qualcosa esista e che io sostenga il contrario. Del tutto coerentemente col suo punto di vista, McX potrebbe descrivere la nostra differenza di opinioni dicendo che io mi rifiuto di riconoscere certe entità. Naturalmente, io protesterei dicendo che la sua esposizione del nostro disaccordo è errata, dal momento che quelle entità di cui lui parla non ho da riconoscerle perché non esistono affatto; ma il fatto che io ritenga errata la sua esposizione del nostri disaccordo non è poi così importante, dal momento che riterrò ad ogni modo errata la sua ontologia.
Quando poi toccasse a me di esporre la nostra diversità di opinioni, d'altra parte, mi troverei in una seria difficoltà. Non posso infatti ammettere che vi siano cose che per McX esistano e per me no, perché ammettendolo verrei a contraddire proprio il fatto che mi rifiuto di riconoscerle.
Sembrerebbe, se tutto questo ragionamento fosse corretto, che in qualsiasi controversia ontologica colui che sostiene la tesi negativa abbia lo svantaggio di non poter ammettere che il suo avversario è in disaccordo con lui.
E questo è l'enigma del non-essere di platoniana memoria: il non-essere, in qualche senso, deve essere, altrimenti che cosa non sarebbe? Questo groviglio potrebbe essere soprannominato "La barba di Platone"; barba che si è dimostrata nella storia della filosofia ben resistente e che ha spujntato spesso la lama del rasoio di Occam.
Son proprio dei ragionamenti simili che conducono i filosofi come McX a vedere l'essere anche là dove avrebbe potuto riconoscere tranquillamente non esservi nulla. Prendiamo ad esempio Pegaso.Se Pegaso non ESISTESSE,  dice Mc X, noi useremmo codesta parola pur senza parlare di nulla; perciò sarebbe un non senso perfino dire che Pegaso non esiste.  E ritenendo così di aver mostrato che non si può negare a esistenza di Pegaso rimanendo coerenti con se stessi McX conclude che Pegaso esiste.
In effetti, d'altra parte, McX non può farsi persuaso del tutto che in una qualche regione spazio-temporale, vicina o remota, vi sia un cavallo alato in carne ed ossa. Se allora gli si richiedono ulteriori dettagli su Pegaso, egli dirà che Pegaso è  un'idea contenuta nella mente umana. Qui però comincia a chiarirsi l'origine della confusione. Si può anche concedere, per amore della discussione, che esista un'entità mentale, e perfino che essa sia UNA (sebbene ciò non sia troppo plausibile); l'idea-Pegaso; ma codesta entità non è certo ciò cui la gente si riferisce quando dice che Pegaso non esiste.
McX non confonde mai il Partenone con l'idea-Partenone. Il Partenone è qualcosa di fisico; l'idea-Partenone è qualcosa di mentale.(per lo meno secondo l'interpretazione delle idee data da McX; ed io non ho nulla di meglio da offrire). Il Partenone è visibile; l'idea-Partenoine è invisibile: sarebbe difficile immaginare due cose più disparate e meno soggette ad essere confuse. Ma quando passiamo dal Partenone a Pegaso, ecco che si genera confusione, per la sola e semplice ragione che McX si lascerebbe trarre in inganno dall'imbroglio più palese e più flagrante prima di concedere che Pegaso non esiste.
Si è visto come McX sia stato indotto in una confusione elementare dall'aver penato che Pegaso debba esistere, perché altrimenti non avrebbe senso neanche dire che Pegaso non esiste.
Ma intellettuali più sottili, pur partendo dagli stessi presupposti, costruiscono su Pegaso costruiscono delle teorie che non sono così chiaramente fuori strada come McX, e che quindi sono più difficili da confutare. Poniamo che uno di codesti più acuti intelletti si chiami Wyman. Pegaso, secondo Wyman, ha l'essere di un possibile non realizzato. Cioè quando di Pegaso si dice che non è, si dice, più precisamente, che Pegaso non ha il particolare attributi della realtà. E dire che Pegaso non è reale equivale a dire, sul piano logico, che il Partenone non è rosso: in entrambi i casi si dice qualcosa di una entità il cui essere non si mete in discussione.
Wyman, fra parentesi, è uno di quei filosofi che hanno contribuito a corrompere il vecchio e buon vocabolo "esiste". Malgrado egli ammetta entità possibili non realizzate, limita poi il vocabolo "esistenza" a ciò che è realizzato, suggerendo così l'illusione di un accordo sul terreno ontologico fra lui e noi che in realtà ripudiamo il resto del suo straboccante universo. Siamo stati tutti propensi a dire, seguendo la nostra accezione del vocabolario [?] "esiste", che Pegaso non esiste, volendo dire con ciò che una tale entità non c'è affatto.  Se Pegaso esistesse, sarebbe senza dubbio nello spazio e nel tempo, ma solo perché è il vocabolo "Pegaso" a implicare un riferimento spazio-temporale, e non il vocabolo "esiste". Se il riferimento spazio-temporale manca quando affermiamo la radice cubica di 27, ciò è semplicemente dovuto alla natura non spaziale e non temporale di codesta entità e non a un nostro uso ambiguo del vocabolo "esiste". Wyman, tuttavia, in un mal concepito sforzo di apparire conciliante, ci concede cortesemente la non esistenza di Pegaso; ma poi, contrariamente a quanto Noi intendevamo intorno per non esistenza di Pegaso, insiste a dire che Pegaso È. L'esistenza, dice, è una cosa e la sussistenza è un'altra. Il solo mezzo che conosca per far fronte a codesta oscurità di conclusioni è quello di REGALARE a Wyman il vocabolo "esiste"; cercherò d'ora in poi di non usarlo più e di servirmi soltanto di "è". Questo per quanto riguarda il lessico; ora ritorniamo all'ontologia di Wyman.
L'universo sovrapopolato di Wyman è per molti aspetti poco attraente. Offende il nostro senso estetico, educato al gusto dei paesaggi deserti; ma questo non è ancora il peggio. I bassifondi dei possibili di Wyman sono una colonia di elementi turbolenti. Prendiamo, per esempio, il possibile signore grasso nel vano di quella porta; e, ancora, il possibile signore calvo nello stesso vano della stessa porta. Sono lo stesso possibile signore, o due diversi signori possibili? Come lo si può decidere? Quanti signori possibili ci sono nel vano di quella porta? Ce ne sono più di possibili magri o di possibili grassi? Quant di essi sono uguali? O se fossero uguali  su ridurrebbero ad uno solo?  Possono mai essere uguali due cose possibili?  E questo equivale forse a dire che è impossibile che due cose siano uguali?  O, per finire, il concetto di identità è semplicemente inapplicabile a dei possibili non realizzati? Ma che significato potrebbe avere parlare di entità di cui non si può dire sensatamente che siano identiche a se stesse e distinte l'una dall'altra? Questi elementi sono pressoché incorreggibili. Sottoponendoli alla terapia dei concetti individuali di Frege, si potrebbe fare qualche sforzo per riabilitarli; ma io penso che faremmo meglio a ripulire i bassifondi di Wyman e a farla finita con loro.»

Nell'esporre, in maniera irridente e scanzonata, la posizione di McX (e già il nome è tutto un programma, un po' come lo era il nome di Simplicio nel già citato dialogo galileiano), Quine si adagia sul più piatto e banale dualismo cartesiano: di qua la «res cogitans», di là la «res extensa»: il Partenone appartiene a quest'ultima categoria, l'idea del Partenone, alla prima.
Per rafforzare la propria posizione «realista», Quine dichiara che il Partenone è «visibile», mentre l'idea del Partenone è «invisibile». Non si prende, tuttavia, il disturbo di specificare: «visibile, ma da chi?», tanto è sicuro di trovarsi sul terreno solido e sicuro dell'empirismo anglosassone, ampiamente collaudato nel corso di tre secoli buoni, da Locke a Dewey ed oltre; empirismo che riduce le percezioni a «idee» del soggetto percipiente.
Se, tuttavia, si fosse preso l'incomodo di formulare quella tal domandina, non avrebbe potuto evitare di andare a sbattere contro la scomoda constatazione DI FATTO che anche l'idea di Partenone è perfettamente visibile, dato che essa consiste nel ricordo della immagine del Partenone stesso, così come è stato visto di persona, o attraverso una riproduzione fotografica o pittorica. E anche Pegaso, con buona pace di tutti i fisicalisti di questo mondo, è non solo visibile, ma realmente visto, da tutti coloro i quali ne pronunciano il nome.
Oppure si può vedere una cosa solamente attraverso gli occhi e la vista esteriore? Un Pegaso che venga sognato, ma sognato in maniera estremamente vivida e realistica, non sarebbe forse un ente effettivamente visto da colui che lo stesse sognando? Quine intuisce il pericolo e corre ai ripari, precisando che non ha importanza vedere qualche cosa all'interno della propria mente, se quel qualche cosa non esiste poi anche fuori, nella cosiddetta realtà del mondo esterno. Strano! Che razza di neo-empirista è un pensatore che si dimentichi a questo modo di Berkeley e della sua brillante dimostrazione che niente esiste fuori della mente che lo pensa, dal momento che «esse est percipi», essere è l'essere percepito?
Quanto alla pretesa confutazione dell'altro filosofo metafisico, Wyman, Quine crede di averla fatta sulla base dell'affermazione che «Se Pegaso esistesse, sarebbe senza dubbio nello spazio e nel tempo». Ma ciò è come dare per scontato proprio quello che egli avrebbe avuto l'onere di dimostrare. Chi lo dice che le cose esistono solamente nella dimensione dello spazio e del tempo? Del resto, subito dopo, e senza neanche accorgersi di smentirsi, Quine ammette che le entità della matematica, ad esempio la radice quadrata di 27, esistono, anche se esistono su un piano di realtà che non è spazio-temporale.
Possibile che non si accorga che ammettere l'esistenza extra spaziale ed extra temporale degli enti della matematica, significa ammettere che tutti gli enti mentali, reali e possibili, esistono comunque, che abbiano una esistenza fisica oppure no?
La sua sparata finale contro la natura antiestetica dell'universo sovrappopolato di Wyman è, involontariamente, quasi caricaturale: chi lo autorizza a dire che il NOSTRO gusto estetico è stato educato ai paesaggi deserti? Il SUO, forse: cioè, qui egli commette la medesima scorrettezza che aveva attribuito al suo ipotetico interlocutore, Wyman; vale a dire, quella di attribuire anche a noi una idea che è solamente sua.
L'idea, poi, di sottoporre a terapia e ad eventuale riabilitazione, e sia pure in senso figurato, le idee diverse dalle proprie, rivela una mentalità autoritaria e aggressiva; come aggressiva è l'immagine di «ripulire i bassifondi di Wyman», anzi l'idea stessa di chiamare «bassifondi» i pensieri dell'altro, anche se perfettamente in linea con la tradizione dell'empirismo inglese: si veda Hume, che voleva gettare nel fuoco tutti i libri che parlano di cose, a suo giudizio, sofistiche ed ingannevoli (cfr. il nostro precedente articolo «Lo scientismo intollerante della filosofia di Hume come rogo non metaforico dell'uomo spirituale», sempre sul sito di Arianna Editrice).
Anche se si sforza di dargli una veste rigorosamente logica e di adornarlo con alcuni discutibili fiori di ironia settecentesca, nello stile di Edward Gibbon, alla fine tutto il ragionamento di Quine si riduce ad un antiplatonismo tanto rozzo quanto superficiale, che si potrebbe agevolmente racchiudere nella formula, doppiamente tautologica: «L'unica realtà, di cui valga la pena di interessarsi,  è quella fisica; gli enti mentali non sono di natura fisica; ergo, gli unici enti di cui mette conto di occuparsi, sono quelli fisici.»
Trarre la conclusione, da questa doppia tautologia, che solo gli enti fisici SONO (Quine non si arrischia a dire: ESISTONO, perché teme di essere colto in contraddizione), è una conclusione di gran lunga maggiore delle premesse. Una cosa, infatti, è dire che solo gli enti fisici SONO realmente, sul piano fisico; e un'altra, e ben diversa, è affermare che non si danno altro che enti fisici, e che tutta la realtà è di natura fisica; o, ancora, che non vale la pena di ragionare intorno ad altri aspetti o ad altre dimensioni della realtà.
In ultima analisi, ci troviamo qui di fronte ad un materialismo ottuso e arrogante, che pretende di erigere la scienza ad unico criterio interpretativo del reale, e che lascia alla filosofia l'alternativa secca di coincidere con la scienza o di sparire, così come è già stata decretata la soppressione della metafisica.
Non cesserà mai di stupire come posizioni speculative così rudimentali, così grossolane, possano oggi andare per la maggiore, sia pure ammettendo il ruolo decisivo giocato dalla pigrizia mentale, dal desiderio di apparire «moderni», aggiornati e in linea con il Pensiero Unico dominante; nonché, «last but not least», dalla difesa delle poltrone accademiche acquisite giurando fedeltà incondizionata alla religione scientista, ai suoi dogmi e ai suoi articoli di fede.